DI FRONTE ALL’'UOMO DEI DOLORI'
SINDONE, ICONA DELLA QUARESIMA RICCARDO MACCIONI
Il suggerimento arriva da un amico sacerdote: non avere paura della Sindone, tieni una sua immagine in casa. Ho seguito il consiglio. La riproduzione, poco più di un santino, sta lì nella stanza con i grandi vetri, quasi davanti alla Bibbia, che non apro abbastanza. È un modo per ricordare l’Ostensione dell’anno scorso, che dal 10 aprile al 23 maggio portò a Torino oltre due milioni di fedeli. Qualche volta guardarla fa male perché, come in uno specchio che ti scruta dentro, vedi riflessa l’enorme distanza tra il piccolo uomo che sei e la grandezza cui tutti siamo chiamati. Succede soprattutto in Quaresima, quando lo Spirito chiede più spazio e il cuore ha bisogno di aria fresca. Su quel volto segnato dalla sofferenza, scorrono le persone trascurate, le parole non dette, gli abbracci non dati. Eppure non è lo sconforto a sorprenderti, e neanche la voglia di fare. Se ti immergi in quell’icona di dolore, se ti lasci interrogare dalle ferite che ne segnano i tratti, senti soprattutto un grande bisogno di silenzio. L’unica risposta possibile di fronte alla violenza disumana, il modo più diretto che abbiamo di aprirci all’eterno presente di Dio. Per essere riempiti occorre svuotarsi, lasciare che il vento dello Spirito spazzi via il fragile castello di carta delle nostre certezze, saper rinunciare a un po’ di noi stessi. È l’itinerario della Quaresima. È il messaggio della Sindone. Visto attraverso il Vangelo della Passione, l’uomo dei dolori racconta il miracolo di chi accetta la morte più atroce per dare vita agli altri, viene esaltato perché ha scelto l’umiliazione, sana le nostre ferite più profonde con le sue piaghe. Non resta che ringraziare. E chiedere perdono. La nostra colpa è il bisognoso che fingiamo di non vedere, la preghiera barattata in cambio di inutili chiacchiere, il vocabolario che, anziché pace, diffonde rabbia e violenza. Capirlo non è facile, lo è ancora di meno riconoscere che i responsabili siamo proprio noi, con il nostro povero bagaglio di frasi fatte e di risposte scontate. Ma se ce ne rendiamo conto, se accettiamo di non potere fare tutto da soli, significa che cambiare è possibile. Trasformando da dentro la vita che facciamo, preferendo, allo scintillio dell’ennesima vetrina, il buio di una cappellina e i consigli di un confessore. Perché, da quei presuntuosi analfabeti dello Spirito che siamo, non lo ammetteremo mai però cerchiamo maestri veri, testimoni autentici, e il modo per riconoscerli. Torino ne ha dati e avuti tanti. L’anno scorso i pellegrini in fila per l’Ostensione erano immersi proprio nel cuore della sua santità sociale, dove uomini e donne di fede, da don Bosco a Giulia di Barolo, dal Cottolengo al Cafasso, dal Murialdo a Faà di Bruno, hanno costruito l’Italia della carità. La Sindone non poteva che «abitare» dentro quella cittadella ideale senza confini e frontiere, dove tante esistenze perdute si sono ritrovate alla luce del Vangelo. È lì, a ricordarci che dalla morte può venire la vita, che umiltà e grandezza sono sorelle gemelle, che in fondo siamo tutti viandanti lungo il perimetro del nostro cuore. Bisognoso di Assoluto.
Sul sito della Chiesa cattolica di Torino è possibile “leggere” virtualmente il telo sacro: http://www.sindone.org La Sindone, per le caratteristiche della sua impronta, rappresenta un rimando diretto e immediato che aiuta a comprendere e meditare la drammatica realtà della Passione di Gesù. Per questo il Papa l’ha definita “specchio del Vangelo”
Da E’ vita supplemento di Avvenire di giovedì 31 marzo 2011
«DECIDO IO». MA I CAPRICCI NON DETTANO LEGGE
di Tommaso Scandroglio
Dalla 194 sull’aborto all’ipotesi di eutanasia legalizzata: così un’interpretazione deformata del principio di autodeterminazione ha influito sull’opinione pubblica. E ha distorto la lettura del dettato costituzionale sull’assistenza medica
Un erroneo concetto di autodeterminazione è il minimo comun denominatore di alcuni fenomeni sociali che fanno a pugni con i «principi non negoziabili». Nell’aborto lo slogan «l’utero è mio e decido io» sarà pur vecchio di quaranta anni ma è ancora alla base dell’interpretazione corrente della legge 194. Legge nata dalla pressione ideologica per «tutelare» simile esigenza. Se invece madre natura non dona il bebè tanto desiderato, si pretende di averlo per vie artificiali e inoltre si esige che sia perfetto e che la legge accondiscenda a tutto ciò. Non acconsentire a simili richieste sarebbe ledere la libertà della persona. Oggi infine tocca all’eutanasia: la vita è mia e determino io la soglia minima di apprezzabilità della stessa, i requisiti minimi di sopportabilità per determinare se è degna di essere vissuta. Come negli esempi precedenti si pretende una legge che dia tutela a questa autonomia e che la sacralizzi. Ovvio che in tale prospettiva le Dat non possono che essere vincolanti per il medico perché espressione di un libero volere che non deve conoscere limiti. Tale interpretazione del principio di autodeterminazione però non è proprio condivisibile alla luce della ragione e del diritto vigente. La libertà non può essere intesa in senso assoluto, cioè sciolta da qualsiasi legame. Bensì la nostra libertà è relativa, è agire in relazione a ciò che mi detta la natura umana la quale pretende che si conservi la vita e la salute, mia («no» all’eutanasia) e degli altri («no» all’aborto e alla fecondazione artificiale). Un’autodeterminazione vincolata dunque. Intendere in modo diverso il principio di autonomia significa comprimere e quindi svilire il naturale anelito al bene dell’uomo e non aver compreso la sua intima essenza, così come ricordò Benedetto XVI nell’ottobre del 2008 in occasione del Congresso nazionale della Società italiana di chirurgia: «L’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana». Da ciò discende che le leggi dello Stato devono essere certamente al servizio dell’uomo, ma al servizio del suo vero bene, non delle sue vogliuzze, dei suoi capricci, dei suoi impulsi autolesionisti. Da parte del legislatore ci deve essere perciò un riconoscimento oggettivo delle esigenze naturali dell’uomo: la vita, la salute, la libertà, etc. E un rigetto di tutte quelle condotte che seppur volute dall’interessato stesso vanno a ledere questi suoi diritti indisponibili. Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma l’articolo 32 della Costituzione sancisce il diritto al rifiuto delle cure». Non è così. Il rifiuto di trattamenti sanitari è una mera facoltà di fatto, non un diritto. Vi sono almeno due ragioni a sostegno di ciò. Inprimo luogo l’articolo 32 della Costituzione non sancisce un diritto alla non cura, ma impone un limite alla cure coattive prestate dallo Stato. È una differenza non da poco: porre un «alt» al dovere di cura da parte dei medici non significa corrispettivamente riconoscere un diritto soggettivo a rifiutare le terapie. In secondo luogo la salute è qualificata dall’articolo 32 come «diritto fondamentale». Di conserva discende il fatto che non può esistere un diritto diametralmente opposto a questo, cioè il «diritto fondamentale» alla malattia, alla mancanza di salute. E quindi non ci può essere il diritto ad evitare quelle cure che potrebbero farmi recuperare il mio stato di salute intaccato da una patologia. Se dunque non si può predicare un diritto alla non cura, non esiste parallelamente nessun obbligo giuridico in capo al medico nell’interrompere le cure rifiutate dal paziente. Infatti laddove si predica un diritto ci deve essere un dovere in capo a qualcuno di soddisfare questo diritto. In buona sostanza la persona ha la facoltà di sottrarsi alle cure, ma non pretenda che il medico collabori con lui in questo intento. Puoi buttarti da un cornicione, ma non venire a chiedere che qualcuno ti dia una spinta. A questo punto però viene da domandarsi: il principio di autodeterminazione che fine fa? Il suo ambito di applicazione in realtà è assai esteso. Di fronte a una patologia il medico illustrerà tutte le possibili soluzioni e i rischi connessi. Starà poi al paziente, sostenuto dai familiari, decidere quale strada terapeutica intraprendere, conscio che l’unico limite impostogli è il rifiuto di cure salvavita.
Da Avvenire di venerdì 1 aprile 2011
Nuova legge. Dopo le regioni, strategia nazionale
CONSULTORI, SVOLTA PER IL BENE COMUNE
Dalla Lombardia e dal Lazio la riforma destinata a cambiare il volto dei servizi e dei presidi familiari di Davide Re Presidi multidisciplinari per la tutela e la promozione della famiglia. Realtà caratterizzate da un alto livello di specializzazione in grado di accogliere, consigliare,assistere, accompagnare nuclei familiari, ma anche giovani, anziani, persone segnate dal bisogno e dalla fragilità. Ecco come dovranno diventare i consultori familiari nel progetto di legge nazionale rilanciato ieri a Milano, in un convegno organizzato dalla Confederazione italiana consultori familiari di ispirazione cristiana. Una strategia a centri concentrici che dalla Lombardia e dal Lazio è destinata ad allargarsi alle altre regioni, con l’obiettivo neppure troppo velato di rinnovare la legge nazionale in materia ormai sfaldata e inattuale sotto il peso dei suoi 37 anni d’età. I contorni della nuova legge sono stati tratteggiati dal presidente della Confederazione, l’avvocato Goffredo Grassani, con una premessa importante. La normativa riguarda consultori pubblici, privati e del privato sociale senza scopi di lucro, perché se è vero che la struttura pubblica è «sussidiaria dell’associazionismo», è altrettanto indubitabile che la stessa struttura pubblica non può lasciare spazio ad associazioni incompetenti ed inerti. Non solo, per il consultorio «del nuovo millennio» ci vorrebbe pure un riconoscimento di natura fiscale. In modo da renderlo «indipendente» e in grado di supportare le persone in difficoltà, attraverso la consulenza di professionisti. Presenti alla mattina oltre al presidente del Cfc Grassani e l’assessore lombardo alla Famiglia Giulio Boscagli. Al termine delle relazioni una tavola rotonda, alla quale hanno partecipato Dino Verdolin, Luciano Viana, Olimpia Tarzia, Elda Fainella, Antonio Adorno e Raffaele Cananzi, moderata da Gabriella Moschioni, ha messo in evidenza varie la situazione delle realtà locali. Primo obiettivo della legge è la tutela e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio. I motivi sono evidenti. Oggi una percentuale crescente di matrimoni (dal 40 al 50% nelle diverse regioni) si dissolve nei primi dieci anni e ormai un terzo dei figli nasce fuori dal matrimonio, con derive sociali e culturali pesantissime. Non si tratta di una preoccupazione “confessionale”. La famiglia che si disgrega e non riesce più ad assolvere i suoi obietti primari sul fronte educativo, apre la strada a conseguenze che intaccano innanzi tutto le fondamenta del bene comune. Il secondo obiettivo della legge è quello di valorizzare le associazioni che promuovono la famiglia, con particolare attenzione al bene primario della stabilità familiare. A queste associazioni viene assegnato la qualifica e il ruolo di “istituzioni sociali”, perché impegnate nella tutela, ha spiegato ancora Grassani, dei diritti fondamentali della libertà della persona. Terzo obiettivo, ma non meno importante dei primi due, la funzione educativa attribuita al consultorio, che non significa privare la famiglia da uno dei suoi compiti fondamentali, ma «attualizzare la cultura familiare fondata sulla famiglia, sulla solidarietà intergenerazionale e sui principi di promozione di tutte le condizioni per il pieno sviluppo della persona». E la Lombardia, attraverso il suo sistema sanitario e sociale, è un po’ l’apripista del percorso di riforma che si è intrapreso. «L’idea di fondo – ha detto Boscagli – è la creazione di una rete capillare di supporto alle famiglie, attorno a cui si muovono, operando in stretta collaborazione, tutti i soggetti: dai consultori pubblici e privati, alle Asl». Particolarmente positiva si sta rivelando in Lombardia anche l’esperienza del Fondo Nasko, che fa proprio della collaborazione tra i consultori e i Cav uno dei suoi punti caratterizzanti. «La politica di difesa della maternità è una politica di bene comune – ha concluso Boscagli –, su cui dovrebbero convergere tutte le forze politiche e sociali».
Da E’ vita supplemento di Avvenire di giovedì 31 marzo 2011
MATERNITÀ «DIFFICILI», C’È IL COMUNE di Edoardo Tincani
Una bella notizia per il popolo della vita arriva dalla provin¬cia di Reggio Emilia. Il Comune di Correggio, guidato dal sindaco Marzio Iotti, il 3 marzo ha siglato un accordo che mette risorse pubbliche – 10.000 euro, per il primo anno di sperimentazione – a sostegno delle maternità inattese e difficili, in piena attuazione della legge 194/1978 e della direttiva regionale 1690/2008. A 33 anni dalla legge sull’aborto in Italia, finalmente un passo concreto verso l’attuazione della sua parte preventiva. Il protocollo d’intesa porta la firma dell’as¬sessore Maria Paparo, a nome del Comune e del Servizio sociale integrato, di Giu¬liana Turci per il distretto Ausl e di tre associazioni di volontariato: Movimento per la vita, Caritas e la se¬zione femminile della Cro¬ce Rossa. Questa rete pub¬blico-privato favorirà un percorso per ridurre il ricor¬so all’aborto volontario, se motivato da problemi so¬cio- economici. In secondo luogo, il sostegno alla genitorialità attraverso il «potenziamento delle attività di informazione, orientamen¬to, prevenzione» per la donna e per la coppia, in modo da favorire una maternità consapevole. A Correggio – spiegano i volontari Alfonso Chies¬si e Rita Nicolini, marito e moglie – si è scelto di valorizzare il consultorio, come luogo in cui la donna in difficoltà potrà sentirsi accolta e decidere se farsi accompagnare dai servizi so¬ciali o dalla 'squadra' delle associazioni per la vita. È il coronamento di un lavoro durato oltre quattro anni e portato avanti da persone appassionate che hanno trovato la collaborazione negli interlocutori istituzionali. Beneficiarie del progetto so¬no le donne entro il 3° mese di gravidanza residenti nel territorio correggese che si rivolgono al consultorio familiare con richiesta di Ivg. Da oggi, se quella domanda fosse motivata da preoccupazioni economiche, verrà presentata una gamma di aiuti: il contributo integrativo del reddito dal 4° al 9° mese di gravidanza, quanti¬ficato dal Comune in base al singolo progetto di assi¬stenza socio-sanitaria; l’accompagnamento oltre la nascita del bebè, con sostegno morale alla mamma e poi fornitura di latte, pannolini,vestitini.
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