venerdì 26 febbraio 2010

27/2/2010 Portaparola

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Da culturacattolica.it del lunedì 22 febbraio 2010

IN ITALIA I BAMBINI DOWN SI POSSONO UCCIDERE MA NON OFFENDERE

Mangiarotti, Don Gabriele

Riceviamo questo comunicato stampa dalla Associazione Due minuti per la vita.

Lo pubblichiamo per una comune e seria riflessione sul problema. Il sito potrà essere chiuso (forse lo è già) ma il problema segnalato permane, si tratta del valore assoluto di ogni vita umana. Lottiamo per una cultura della vita.

L'Associazione Due minuti per la vita si unisce al giusto coro di condanne, provenienti da personalità politiche, Associazioni e società civile nei confronti del recente gruppo su Facebook che offende gravemente, ed in maniera intollerabile, la dignità dei bambini down.

Mentre si auspica il celere intervento dell'autorità giudiziaria sulla vicenda, non si può omettere di ricordare che in Italia l'uccisione delle persone down è legale da oltre 30 anni, quando nel 1978 la legge 194 rese lecito l'aborto al verificarsi di "un serio pericolo per la sua [della donna] salute fisica o psichica in relazione [...] a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito" (art. 4, aborto entro i primi 90 giorni) ovvero "quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna" (art. 6, aborto dal 90° giorno fino alla possibilità di vita autonoma del feto).

Allo stesso modo occorre menzionare le pronunce dei giudici attraverso le quali è stato permesso, in totale sfregio e disapplicazione della legge 40/2004, di praticare la c.d. diagnosi pre-impianto, con conseguente selezione, sugli embrioni (ottenuti con le tecniche di fecondazione artificiale) prima del loro trasferimento in utero.

Il gravissimo episodio del gruppo di Facebook non è dunque che la coerente e cinica applicazione di quanto già avviene legalmente, ed impunemente, nel nostro paese: dopo che la società ha respirato per decenni, e continua a respirare tuttora, l'alito appestato della disumana mentalità eugenetica, come si può pretendere che si rispetti una persona disabile una volta nata se quando è ancora nel grembo materno è lecito ucciderla?

L'Associazione Due minuti per la vita augura che questo deplorevole episodio possa essere un'occasione per ricordare senza compromessi e mistificazioni il diritto inalienabile alla vita di ogni persona, dal concepimento alla morte naturale: si dica la verità tutta, evitando la triste miopia di considerare la dignità ed il decoro di una persona più importanti del suo diritto alla vita.



ASSOCIAZIONE DUE MINUTI PER LA VITA

CASELLA POSTALE 299 10121 TORINO

FAX. 011.19.83.42.99

www.dueminutiperlavita.info - info@dueminutiperlavita.org

www.facebook.com/dueminutiperlavita

Da “Avvenire” di venerdì 26 febbraio 2010

VITA E MORTE A LONDRA (E A RADIORAI)

NON CHIAMATELA PER CARITÀ «COMPASSIONE» FRANCESCO OGNIBENE

Esistono almeno due metodi collaudati per manipolare la percezione pubblica delle grandi questioni sulla vita umana: cambiar no­me alla realtà, o rovesciare il significato delle parole. Si tratta di strategie culturali speri­mentate al punto tale da trasformarle in auto­matismi inconsapevoli, maschere sotto le qua­li i fatti diventano invisibili, quasi irrilevanti. Ha cambiato nome l’aborto, dissimulato sotto le burocratiche spoglie della «interruzione vo­lontaria di gravidanza», meglio se IVG.

Si è sma­terializzata la pillola del giorno dopo (poten­zialmente abortiva) chiamandola «contracce­zione d’emergenza».

Persino quando si parla di «autodeterminazione» occorre cercare nel doppiofondo semantico, là dove spesso si sco­prirà il reale intento eutanasico di chi parla di libertà e diritti.

Ma la distanza tra idee pensate ed espresse di­venta abissale quando si assiste allo stravolgi­mento di concetti capovolti nel loro opposto. È quanto sta accadendo in Inghilterra, dove ieri il procuratore gene­rale del Regno, Keir Starmer, dettando i cri­teri in base ai quali an­drà perseguito o pro­sciolto chi attivamente aiuta un parente o un a­mico a morire ha spie­gato che mai si dovrà mandare in prigione la persona che ha agito per «motivi di compas­sione ».

Già la definizio­ne giuridica del gesto – «suicidio assistito» – a­pre più di un dubbio: chi stacca un sondino, inocula un farmaco le­tale o spegne un ventilatore polmonare cau­sando la morte realizza un vero atto eutanasi­co. Chiamandolo in un altro modo si compie una falsificazione mirata a precostituire il giudizio dell’opinione pubblica, deviando l’im­patto di quella che resta una morte procurata. Ma se chi ha realizzato quello che il nostro Co­dice penale definisce «omicidio del consen­ziente » riesce a dimostrare che l’ha fatto per «compassione» nessun tribunale inglese potrà più punire la cooperazione al suicidio con la pena prevista di 14 anni. Il lasciapassare per l’assoluzione è la «compassione» del gesto, che – par di capire – si traduce nella semplice as­senza di motivi di risentimento o d’interesse personale. Cambiato nome e aspetto, l’euta­nasia viene così accolta nelle corti di giustizia inglesi, e riesce persino nel trucco più sbalor­ditivo: coprire la soppressione di una vita al colmo della sua fragilità con l’onore che si tri­buta a chi si china sull’altro sofferente per «com-patire» insieme a lui.

Lo slancio del sa­maritano è snaturato nella sua tragica carica­tura: la mano che per secoli si è posata con a­more sulla ferita ignorata da altri ora procura la morte. Uccide sì, ma per «compassione»: non sapendo più farsi carico dell’estrema fa­tica di vivere la fa cessare, così contribuendo a far sedimentare l’idea che sia questa la solu­zione alla malattia senza speranza, alla solitu­dine, alla vecchiaia estrema, alla demenza. Sembra che questo crescente peso di sofferenza sia insopportabile alla nostra società sbrigativa e nichilista, e allora meglio autoriz­zare (e incoraggiare) il repulisti facendolo pas­sare per ammirevole virtù. Una truffa cultura­le agghiacciante. L’eco di questa mentalità «compassionevole» s’è udito anche in Italia, ieri mattina, nella pun­tata che «Radio Anch’io» ha dedicato agli svi­luppi parlamentari della legge sulle

Dichiara­zioni anticipate di trattamento. Il servizio pub­blico ha consentito che, nella generale confu­sione di concetti scientifici, si lasciasse dire (persino plaudendo all’efficacia dell’idea) che essendo brutto veder morire di sete pazienti come Eluana sarebbe meglio praticargli una bella iniezione, e via. A completare il pasticcio la doppia conduzione in studio con la 'voce' sanremese, che sul palco canta l’allergia a qual­siasi verità salvo poi aderire senza mostrar dub­bio alcuno alla discutibilissima «verità» di chi ha portato a morte Eluana. Un bell’esempio di coerenza, davvero. Come quello dell’ex mi­nistro che si sbraccia per la «presa in carico» dei pazienti ma poi squarcia la rete di prote­zione culturale che la nostra civiltà da sempre stende sotto i più deboli invocando la legge del «liberi tutti» di dare e farsi dare la morte come e quando ci pare. Ma la nuova, terribile, «com­passione » autorizza anche questo.

Da Avvenire di sabato 20 febbraio 2010

BACHELET E LA FORZA DEL PERDONO

QUEL SEGNO VINCENTE DI PACE LUCIA BELLASPIGA

Era la fine del 1983 quando padre Adolfo Bachelet, anziano gesuita, ricevette una lettera firmata da diciotto esponenti delle Brigate Rosse. Uomini e donne che avevano ucciso senza pietà, che si erano macchiati dei più disumani crimini, chiedevano umilmente a quel vecchio di andarli a trovare in carcere: «Vogliamo ascoltare le sue parole». Quattro anni prima altre parole erano risuonate in una chiesa romana, e quella volta a pronunciarle era stato un giovane di 24 anni, Giovanni Bachelet, nipote del gesuita. Era il giorno in cui si seppelliva suo padre Vittorio, docente di Diritto alla Sapienza di Roma e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, assassinato dalle Br sulle scale della sua facoltà il 12 febbraio 1980: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà – disse Giovanni dall’altare – perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».

Una lezione che aveva appreso dal padre, dal suo agire più che dal suo parlare, e che quel giorno scosse molte coscienze, suscitando emozione ma anche dando scandalo. Perché l’abisso del bene a volte spaventa più dell’abisso del male.

Ciò che nessuno poteva conoscere era il lavorìo lento ma ineluttabile che intanto quella parola, «perdono», compiva nel sottomondo delle carceri, insinuandosi come una lama di luce nell’oscuro della coscienza di chi scontava i suoi delitti in cella. «Ricordiamo bene le parole di suo nipote durante i funerali del padre», scrivono, anni dopo, i diciotto brigatisti al gesuita, e riconoscono che quello fu il momento in cui persero la loro guerra, «davvero sconfitti nel modo più fermo e irrevocabile». Ad annientarli non era stata la risposta necessaria della giustizia, non la detenzione, ma «l’urto tra la nostra disperata disumanità e quel segno vincente di pace». Errare è umano – scriveva nel Settecento Alexander Pope – perdonare divino, e quel manipolo di ex assassini (che probabilmente non lo avevano letto) rompeva le righe come un esercito in rotta, colpito in pieno volto dall’offerta di pace: «Ci inchiniamo davanti al fatto puro e semplice che la testimonianza d’umanità più larga e vera e generosa sia giunta a noi da chi vive in spirito di carità cristiana», ammettono nella lettera.

Chi perdona disarma perché disarmato si consegna, unilateralmente. E un uomo come Vittorio Bachelet, che il Diritto lo insegnava ma prima ancora lo viveva, da sempre convinto che un mondo migliore o peggiore dipenda da ciascuno di noi, continuava a dare il suo contributo di pace attraverso le parole del figlio che aveva cresciuto. Martire laico, lo definì il cardinal Martini, e martire, 'testimone', continua ad essere oggi, a trent’anni dalla morte, esempio di mitezza ma anche di lucidità di giudizio, maestro di giustizia ma anche di perdono. Un martirio accolto e condiviso da chi lo aveva amato: «La testimonianza che a noi tutti diede la sua famiglia ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della lotta armata», scrisse alla moglie, qualche anno dopo, un brigatista. E l’antidoto alla violenza fu dirompente: «Le nostre certezze cominciarono a scricchiolare come il colosso di Rodi». È una storia che andrebbe raccontata tutti i giorni, di generazione in generazione, come avviene presso i popoli nei quali i giovani ancora apprendono dall’esempio dei padri. 'Par condicio' e burocrazia hanno oscurato la messa in onda della puntata che 'A sua immagine' avrebbe dedicato sabato scorso al martirio di Vittorio Bachelet, nell’anniversario della sua morte, ma alla fine il buon senso ha prevalso e la vedremo oggi. E alla fine è meglio così: oggi, 20 febbraio, Bachelet non moriva, nasceva. Avrebbe compiuto 84 anni. È una storia che andrebbe raccontata tutti i giorni, di generazione in generazione.

Da Avvenire di sabato 20 febbraio 2010

«GIOVANI, TOCCA A VOI RIDARE VIRTÙ ALLA POLITICA»

L’invito di Bertone: fatevi carico del bene comune

Il segretario di Stato vaticano, ricollegandosi all’invito del Papa, ripreso anche da Bagnasco, ha auspicato una nuova generazione di cattolici impegnati

DAL NOSTRO INVIATO A RICCIONE PAOLO VIANA

L’appello di Benedetto XVI per una nuova generazione di politici catto­lici è rivolto soprattutto ai giovani. La Chiesa li invita a farsi carico di un «esercizio di responsabile carità verso il prossimo» e di una missione 'storica', quella di restituire la virtù alla politica partendo dai comportamenti personali, perché «non esiste separazione tra etica individuale ed etica sociale»: è questo il cuore della lectio magistralis con cui il cardi­nale Tarcisio Bertone, ieri pomeriggio, ha a­perto a Riccione il seminario di Reteitalia sul bene comune. Parole che in assonanza con quelle con cui il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, aveva concluso il 25 gen­naio scorso la sua prolusione al Consiglio per­manente dell’episcopato italiano, auspican­do «una generazione nuova di italiani e di cat­tolici, che sentano la cosa pubblica come im­portante e alta e siano disposti per essa a da­re il meglio di sé, del loro pensiero, dei loro progetti e dei loro giorni». Salutato dal governatore della Lombardia Ro­berto Formigoni, leader del sodalizio politico, e accolto da un palacongressi gremito di am­ministratori del Pdl, il segretario di Stato ha ripercorso il magistero sociale della Chiesa.

Partendo cioè dal codice di Malines per arri­vare a quello di Camaldoli, dalle parole di Gio­vanni Paolo II ai giovani argentini nel 1985 al­l’ormai celebre appello di Benedetto XVI a Ca­gliari. E ha sviluppato l’appello del Santo Pa­dre inquadrando, attraverso il messaggio di Luigi Sturzo, Chiara Lubich e Luigi Giussani, il contributo specifico che i giovani cristiani possono dare al­la promozione del bene comu­ne, che «non è delegato allo Sta­to », ha precisato. La politica non è, ha insisto con le parole del prete di Caltagirone, cosa sporca, bensì «l’amore degli amori» co­me diceva la Lubich, e «realizza il più possibi­le la soluzione degli umani problemi in base al richiamo di Gesù», secondo il pensiero di don Giussani. La 'chiamata' della Chiesa ai giovani, ha spiegato tuttavia il porporato, ri­chiama all’insegnamento politico di Tomma­so Moro piuttosto che a quello, oggi partico­larmente in voga, di Niccolò Machiavelli. Ber­tone indica una politica che sia «via della san­tità e finanche del martirio» e non, invece, la supina accettazione dell’immoralità che pro­duce «l’illusione del successo immediato»: al contrario, ha commentato ieri, «il bene co­mune non si esprime nell’immediato ma nel­la storia».

Su un punto il segretario di Stato si è espres­so con particolare chiarezza: «La politica è chiamata a confrontarsi con la fragilità del­l’uomo, anche ad apprendere dagli errori del passa­to e del presente, ma sempre coltivando la respon­sabilità dell’avve­nire, da orientare alla virtù». E non parlava di virtù politica: anzi, da Riccione ha lanciato un ve­ro e proprio appello ai politici ad «orientare la propria vita e le proprie relazioni alla virtù, poiché dalla virtù della persona dipende la virtù della società». Risultando ancora più e­splicito: «non esiste separazione tra etica individuale ed etica sociale». Una rettitudine che «vale per tutti i politici», ma i cattolici deb­bono essere consapevoli di avere una «mis­sione nella storia, che è quella di orientare la società a valori superiori», senza i quali, come scriveva Sturzo, «tutto si deturpa e la politica diviene mezzo di arricchimento, l’economia arriva al furto e alla truffa». Serve, al contrario, «una nuova generazione di politici cattolici», contraddistinta dall’impegno a «iniettare buo­na e nuova linfa nella società, orientandola al­la virtù, con rettitudine e discernimento alla luce del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa». Gente capace di superare il bivio tra utopia e disaffezione, come lo inquadrava Gio­vanni Paolo II, ribaltando la prospettiva diffusa nella società globalizzata, «dove il cambia­mento si attende dall’alto» mentre «la sfida per la nuova generazione di politici cristiani è quella del cambiamento dal basso, dal terri­torio, dalle comunità locali chiamate a contribuire al bene comune».

Da Avvenire di domenica 21 febbraio 2010

ANTONIO E NOI, OGGI QUEL SANTO RIVERBERO VIOLA LA FERREA DITTATURA DEL TEMPO MARINA CORRADI

Chi ha visto i fedeli di sant’Antonio, già dall’alba di lunedì scorso in una fila che abbracciava la piazza della Basilica, e che nei giorni successivi e fino a ieri sera si è rin­novata, alimentata da sempre nuova gente venuta anche da lontano, non ha potuto non meravigliarsi. E non solo per quella molti­tudine, non solo per la tenace resistenza del­la pietà popolare all’omologazione cultura­le che oggi impone ben altri oggetti di cul­to.

La meraviglia nasce anche da un altro ele­mento, forse più evidente per chi ha assisti­to alla cerimonia della traslazione del corpo del santo, domenica notte. Perché guar­dando quel sarcofago, e assistendo nel si­lenzio della Basilica vuota al faticoso lavo­rio di cavi che ne estraevano la cassa; e contemplando poi l’urna di cristallo coperta di polvere, chiusa dai sigilli purpurei dell’ulti­ma ostensione, ti pareva quasi di toccare con la mano lo spessore del tempo.

Nella cassa, una bolla risalente all’ostensio­ne del 1981 portava la firma autografa di Gio­vanni Paolo II. Che in quell’anno era un gio­vane Papa, fisicamente forte e sano, un leo­ne. Mentre in questa notte di febbraio del 2010 ciascuno in Basilica, nel sentire quel nome, ha evocato la figura del pontefice ma­lato e sofferente, che ci ha lasciato ormai da cinque anni. Ma, se i trent’anni che ci sepa­rano da quel 1981 so­no già tanti per gli uo­mini, è impensabile allora il tempo – 779 anni – trascorso dalla morte di Antonio. Ot­to secoli, un abisso per uomini. Fatichia­mo a immaginarci quell’anno 1231: l’Ita­lia ancora brughiera e foreste, e città turrite contro i nemici, ma indifese dalle pesti­lenze. Le strade di polvere, le carestie in agguato, e il pauroso buio delle notti, rischiarate solo dalla luce tremante delle can­dele. È davvero perdutamente lontano il mondo di Antonio, per chi è nato nel seco­lo ventesimo.

E quell’urna con le ossa annerite del santo, e le altre più piccole con la sua carne torna­ta in cenere: tutto, a chi contemplava le re­liquie, testimoniava la pesantezza, la du­rezza implacabile del tempo – che rende gli uomini polvere.

Ma, davanti a un simile annientamento del­la carne, ancora più singolare era il contra­sto con quella folla di vivi in attesa nella piaz­za, nei giorni successivi e fino a ieri; vivi che battevano i piedi per scaldarsi dal freddo, e si tenevano svegli con un caffè bollente. Quella marea di vivi a venerare un uomo morto da ottocento anni, che cosa straordi­naria. Andrebbero, forse, per Cesare o per Carlo Magno, per un eroe o un poeta? Si al­zerebbero nel cuore della notte, verrebbero da molto lontano, per il più grande degli uo­mini? Forse, finché di quell’uomo è vivo il ri­cordo; finché ancora i vecchi ne racconta­no.

Poi, l’oblio copre ogni memoria; la ince­nerisce, proprio come fa con le ossa.

Tranne che con i santi. E soprattutto per quelli al popolo più cari. Per santa Rita, per Francesco, per Antonio, la venerazione e la memoria sfidano i secoli. Come se fossero vivi tra noi, ancora. Come sfuggiti alla con­giura implacabile che vuole che i morti im­pallidiscano fino a svanire dagli affetti dei viventi. I santi, dunque, violano la ferrea dit­tatura del tempo? E come avviene, come è possibile? Ce lo siamo chiesti contemplan­do la mano destra di Antonio, la sua mano benedicente ischeletrita nell’urna. Così evi­dentemente morta, eppure, negli sguardi commossi dei pellegrini, così viva.

Deve esserci un segreto. Qualcosa che la fi­sica e tutte le scienze non spiegano, né pos­sono in alcun modo misurare. È una fac­cenda che deve avere a che fare con Dio. Con quel Dio che i santi vedono faccia a faccia. Che ne sia un riverbero, questo loro sfron­tato felice restare fra noi, mille anni dopo? Che sia in realtà questo riverbero ciò che davvero cercano , magari senza saperlo ap­pieno, quelle migliaia là fuori, e che porta­no al santo i loro vecchi, i loro bambini?

Da Avvenire di giovedì 25 febbraio 2010

LA CULTURA DEL BENE COMUNE

GUARDARE A MERIDIONE CON IL CORAGGIO DI «PENSARE INSIEME»

VITTORIO DE MARCO

Con la pubblicazione del documento 'Per un Paese solidale', il Mezzogior­no torna al centro dell’attenzione della Chiesa italiana.

Frutto di un’ampia rifles­sione collegiale, esso si inserisce con l’au­torità morale dei vescovi in un dibattito sulle emergenze del Sud che negli ultimi tempi, a partire da ottiche differenti e se­condo sensibilità politiche e culturali arti­colate, è di nuovo attuale.

La Chiesa invita a guardare al Mezzogior­no «con amore», a condividerne i bisogni e le speranze. Fa appello all’intelligenza, alla creatività, al coraggio di un «pensare in­sieme », all’assunzione di una responsabi­lità nuova, riponendo grande speranza nei giovani del Sud. Sono proprio loro, in qual­che modo, i protagonisti del documento, sollecitati continuamente al duro ma necessario compito del riscatto da modelli di pensiero individualisti e nichilisti e da strutture che sfruttano e abbruttiscono il territorio. Sono loro a essere stimolati a va­lorizzare il patrimonio morale e religioso che il Mezzogiorno, nonostante tutto, sa ancora esprimere, incoraggiati a speri­mentare nuove strade nello sviluppo eco­nomico, chiamati a favorire «un cambia­mento di mentalità e di cultura» per vin­cere «i fantasmi della paura e della rasse­gnazione » (n. 16).

Lo spettro di osservazione del documen­to è ampio, perché tocca mali antichi co­me il fatalismo, emergenze moderne co­me la questione ecologica, e tematiche re­centissime come il federalismo, sul qua­le il giudizio dei vescovi è chiaro: esso non deve accentuare le distanze tra le diverse parti d’Italia ma saper essere « solidale, realistico e unitario» (n. 8), senza che lo Stato rinunci a proteggere i diritti fonda­mentali di tutti gli italiani.

Il male più oscuro del Mezzogiorno conti­nua a essere la criminalità organizzata: le «mafie – viene detto in modo chiaro e perentorio – sono strutture di peccato»; e­sprimono «una forma brutale e devastan­te di rifiuto di Dio e di fraintendimento del­la vera religione»; rappresentano «la con­figurazione più drammatica del 'male' e del 'peccato'» (n. 9). La condanna è net­ta, senza ombre né esitazioni: riecheggia­no le parole forti di Giovanni Paolo II ad A­grigento e a Napoli. Oltre che nei giovani, la speranza dei ve­scovi è riposta nelle comunità ecclesiali e nella loro capacità di essere luogo e labo­ratorio di idee e fatti concreti, come dimo­strano le cooperative e le aziende promosse grazie al Progetto Policoro. Da tempo la parte migliore delle Chiese del Sud si è al­lineata con la parte migliore della società civile per combattere ogni forma di illega­lità, per promuovere una mobilitazione morale, dimostrando quanto le strutture ecclesiali siano profondamente calate nel­la realtà meridionale e di quale potenzia­le di cambiamento esse dispongano.

All’orizzonte del Mezzogiorno non c’è so­lo l’esigenza di un’economia sana. È ne­cessario dare spazio anche alla cultura del bene comune, della cittadinanza, del di­ritto, della buona amministrazione e del­l’impresa nel rifiuto dell’illegalità. Sono va­lori etici, culturali e antropologici non da porre in alternativa alle regole dell’econo­mia, ma da intendere piuttosto come mo­tori per lo sviluppo integrale del Sud: dav­vero ci vuole «coraggio e speranza» (n. 20). La Chiesa, in questa emergenza educativa, rivendicando «un ruolo nella crescita del Mezzogiorno» (n. 16), mette in campo il suo patrimonio religioso, morale e cultu­rale, puntando sull’associazionismo laica­le, sui movimenti e soprattutto sulle par­rocchie. Molto dipenderà dal livello di ri­cezione di questo documento nelle Chie­se del Sud come in quelle del Nord, cioè dalla capacità delle comunità ecclesiali di farne non solo oggetto di studio, discus­sione e confronto nel breve periodo, ma di considerarlo come mappa orientativa del decennio che si sta aprendo. Decisivo, in questo senso, sarà il grado di coinvolgi­mento di tutte le diocesi e la loro disponi­bilità a confrontarsi e collaborare in pro­spettiva nazionale. «Ogni Chiesa custodi­sce una ricchezza spirituale da condivide­re con le altre Chiese del Paese» (n. 15): non è una sfida di poco conto.

Ravenna 22 febbraio 2010

DUOMO DI RAVENNA

PONTIFICALE AL DIACONATO PERMANENTE

I nostri fratelli Antonio Sellitto e Giovanni Fresa sono stati ammessi tra i candidati al Diaconato.

Da Portaparola Ravenna un augurio per il loro cammino insieme al Signore affinché gli conceda di conoscere e vivere, in tutta pienezza, il mistero del suo amore.

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