Da culturacattolica.it del lunedì 22 febbraio 2010
IN ITALIA I BAMBINI DOWN SI POSSONO UCCIDERE MA NON OFFENDERE
Riceviamo questo comunicato stampa dalla Associazione Due minuti per la vita.
Lo pubblichiamo per una comune e seria riflessione sul problema. Il sito potrà essere chiuso (forse lo è già) ma il problema segnalato permane, si tratta del valore assoluto di ogni vita umana. Lottiamo per una cultura della vita.
L'Associazione Due minuti per la vita si unisce al giusto coro di condanne, provenienti da personalità politiche, Associazioni e società civile nei confronti del recente gruppo su Facebook che offende gravemente, ed in maniera intollerabile, la dignità dei bambini down.
Mentre si auspica il celere intervento dell'autorità giudiziaria sulla vicenda, non si può omettere di ricordare che in Italia l'uccisione delle persone down è legale da oltre 30 anni, quando nel 1978 la legge 194 rese lecito l'aborto al verificarsi di "un serio pericolo per la sua [della donna] salute fisica o psichica in relazione [...] a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito" (art. 4, aborto entro i primi 90 giorni) ovvero "quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna" (art. 6, aborto dal 90° giorno fino alla possibilità di vita autonoma del feto).
Allo stesso modo occorre menzionare le pronunce dei giudici attraverso le quali è stato permesso, in totale sfregio e disapplicazione della legge 40/2004, di praticare la c.d. diagnosi pre-impianto, con conseguente selezione, sugli embrioni (ottenuti con le tecniche di fecondazione artificiale) prima del loro trasferimento in utero.
Il gravissimo episodio del gruppo di Facebook non è dunque che la coerente e cinica applicazione di quanto già avviene legalmente, ed impunemente, nel nostro paese: dopo che la società ha respirato per decenni, e continua a respirare tuttora, l'alito appestato della disumana mentalità eugenetica, come si può pretendere che si rispetti una persona disabile una volta nata se quando è ancora nel grembo materno è lecito ucciderla?
L'Associazione Due minuti per la vita augura che questo deplorevole episodio possa essere un'occasione per ricordare senza compromessi e mistificazioni il diritto inalienabile alla vita di ogni persona, dal concepimento alla morte naturale: si dica la verità tutta, evitando la triste miopia di considerare la dignità ed il decoro di una persona più importanti del suo diritto alla vita.
ASSOCIAZIONE DUE MINUTI PER
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Da “Avvenire” di venerdì 26 febbraio 2010
VITA E MORTE A LONDRA (E A RADIORAI)
NON CHIAMATELA PER CARITÀ «COMPASSIONE» FRANCESCO OGNIBENE
Esistono almeno due metodi collaudati per manipolare la percezione pubblica delle grandi questioni sulla vita umana: cambiar nome alla realtà, o rovesciare il significato delle parole. Si tratta di strategie culturali sperimentate al punto tale da trasformarle in automatismi inconsapevoli, maschere sotto le quali i fatti diventano invisibili, quasi irrilevanti. Ha cambiato nome l’aborto, dissimulato sotto le burocratiche spoglie della «interruzione volontaria di gravidanza», meglio se IVG.
Si è smaterializzata la pillola del giorno dopo (potenzialmente abortiva) chiamandola «contraccezione d’emergenza».
Persino quando si parla di «autodeterminazione» occorre cercare nel doppiofondo semantico, là dove spesso si scoprirà il reale intento eutanasico di chi parla di libertà e diritti.
Ma la distanza tra idee pensate ed espresse diventa abissale quando si assiste allo stravolgimento di concetti capovolti nel loro opposto. È quanto sta accadendo in Inghilterra, dove ieri il procuratore generale del Regno, Keir Starmer, dettando i criteri in base ai quali andrà perseguito o prosciolto chi attivamente aiuta un parente o un amico a morire ha spiegato che mai si dovrà mandare in prigione la persona che ha agito per «motivi di compassione ».
Già la definizione giuridica del gesto – «suicidio assistito» – apre più di un dubbio: chi stacca un sondino, inocula un farmaco letale o spegne un ventilatore polmonare causando la morte realizza un vero atto eutanasico. Chiamandolo in un altro modo si compie una falsificazione mirata a precostituire il giudizio dell’opinione pubblica, deviando l’impatto di quella che resta una morte procurata. Ma se chi ha realizzato quello che il nostro Codice penale definisce «omicidio del consenziente » riesce a dimostrare che l’ha fatto per «compassione» nessun tribunale inglese potrà più punire la cooperazione al suicidio con la pena prevista di 14 anni. Il lasciapassare per l’assoluzione è la «compassione» del gesto, che – par di capire – si traduce nella semplice assenza di motivi di risentimento o d’interesse personale. Cambiato nome e aspetto, l’eutanasia viene così accolta nelle corti di giustizia inglesi, e riesce persino nel trucco più sbalorditivo: coprire la soppressione di una vita al colmo della sua fragilità con l’onore che si tributa a chi si china sull’altro sofferente per «com-patire» insieme a lui.
Lo slancio del samaritano è snaturato nella sua tragica caricatura: la mano che per secoli si è posata con amore sulla ferita ignorata da altri ora procura la morte. Uccide sì, ma per «compassione»: non sapendo più farsi carico dell’estrema fatica di vivere la fa cessare, così contribuendo a far sedimentare l’idea che sia questa la soluzione alla malattia senza speranza, alla solitudine, alla vecchiaia estrema, alla demenza. Sembra che questo crescente peso di sofferenza sia insopportabile alla nostra società sbrigativa e nichilista, e allora meglio autorizzare (e incoraggiare) il repulisti facendolo passare per ammirevole virtù. Una truffa culturale agghiacciante. L’eco di questa mentalità «compassionevole» s’è udito anche in Italia, ieri mattina, nella puntata che «Radio Anch’io» ha dedicato agli sviluppi parlamentari della legge sulle
Dichiarazioni anticipate di trattamento. Il servizio pubblico ha consentito che, nella generale confusione di concetti scientifici, si lasciasse dire (persino plaudendo all’efficacia dell’idea) che essendo brutto veder morire di sete pazienti come Eluana sarebbe meglio praticargli una bella iniezione, e via. A completare il pasticcio la doppia conduzione in studio con la 'voce' sanremese, che sul palco canta l’allergia a qualsiasi verità salvo poi aderire senza mostrar dubbio alcuno alla discutibilissima «verità» di chi ha portato a morte Eluana. Un bell’esempio di coerenza, davvero. Come quello dell’ex ministro che si sbraccia per la «presa in carico» dei pazienti ma poi squarcia la rete di protezione culturale che la nostra civiltà da sempre stende sotto i più deboli invocando la legge del «liberi tutti» di dare e farsi dare la morte come e quando ci pare. Ma la nuova, terribile, «compassione » autorizza anche questo.
Da Avvenire di sabato 20 febbraio 2010
BACHELET E
QUEL SEGNO VINCENTE DI PACE LUCIA BELLASPIGA
Era la fine del 1983 quando padre Adolfo Bachelet, anziano gesuita, ricevette una lettera firmata da diciotto esponenti delle Brigate Rosse. Uomini e donne che avevano ucciso senza pietà, che si erano macchiati dei più disumani crimini, chiedevano umilmente a quel vecchio di andarli a trovare in carcere: «Vogliamo ascoltare le sue parole». Quattro anni prima altre parole erano risuonate in una chiesa romana, e quella volta a pronunciarle era stato un giovane di 24 anni, Giovanni Bachelet, nipote del gesuita. Era il giorno in cui si seppelliva suo padre Vittorio, docente di Diritto alla Sapienza di Roma e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, assassinato dalle Br sulle scale della sua facoltà il 12 febbraio 1980: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà – disse Giovanni dall’altare – perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
Una lezione che aveva appreso dal padre, dal suo agire più che dal suo parlare, e che quel giorno scosse molte coscienze, suscitando emozione ma anche dando scandalo. Perché l’abisso del bene a volte spaventa più dell’abisso del male.
Ciò che nessuno poteva conoscere era il lavorìo lento ma ineluttabile che intanto quella parola, «perdono», compiva nel sottomondo delle carceri, insinuandosi come una lama di luce nell’oscuro della coscienza di chi scontava i suoi delitti in cella. «Ricordiamo bene le parole di suo nipote durante i funerali del padre», scrivono, anni dopo, i diciotto brigatisti al gesuita, e riconoscono che quello fu il momento in cui persero la loro guerra, «davvero sconfitti nel modo più fermo e irrevocabile». Ad annientarli non era stata la risposta necessaria della giustizia, non la detenzione, ma «l’urto tra la nostra disperata disumanità e quel segno vincente di pace». Errare è umano – scriveva nel Settecento Alexander Pope – perdonare divino, e quel manipolo di ex assassini (che probabilmente non lo avevano letto) rompeva le righe come un esercito in rotta, colpito in pieno volto dall’offerta di pace: «Ci inchiniamo davanti al fatto puro e semplice che la testimonianza d’umanità più larga e vera e generosa sia giunta a noi da chi vive in spirito di carità cristiana», ammettono nella lettera.
Chi perdona disarma perché disarmato si consegna, unilateralmente. E un uomo come Vittorio Bachelet, che il Diritto lo insegnava ma prima ancora lo viveva, da sempre convinto che un mondo migliore o peggiore dipenda da ciascuno di noi, continuava a dare il suo contributo di pace attraverso le parole del figlio che aveva cresciuto. Martire laico, lo definì il cardinal Martini, e martire, 'testimone', continua ad essere oggi, a trent’anni dalla morte, esempio di mitezza ma anche di lucidità di giudizio, maestro di giustizia ma anche di perdono. Un martirio accolto e condiviso da chi lo aveva amato: «La testimonianza che a noi tutti diede la sua famiglia ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della lotta armata», scrisse alla moglie, qualche anno dopo, un brigatista. E l’antidoto alla violenza fu dirompente: «Le nostre certezze cominciarono a scricchiolare come il colosso di Rodi». È una storia che andrebbe raccontata tutti i giorni, di generazione in generazione, come avviene presso i popoli nei quali i giovani ancora apprendono dall’esempio dei padri. 'Par condicio' e burocrazia hanno oscurato la messa in onda della puntata che 'A sua immagine' avrebbe dedicato sabato scorso al martirio di Vittorio Bachelet, nell’anniversario della sua morte, ma alla fine il buon senso ha prevalso e la vedremo oggi. E alla fine è meglio così: oggi, 20 febbraio, Bachelet non moriva, nasceva. Avrebbe compiuto 84 anni. È una storia che andrebbe raccontata tutti i giorni, di generazione in generazione.
Da Avvenire di sabato 20 febbraio 2010
«GIOVANI, TOCCA A VOI RIDARE VIRTÙ ALLA POLITICA»
L’invito di Bertone: fatevi carico del bene comune
Il segretario di Stato vaticano, ricollegandosi all’invito del Papa, ripreso anche da Bagnasco, ha auspicato una nuova generazione di cattolici impegnati
DAL NOSTRO INVIATO A RICCIONE PAOLO VIANA
L’appello di Benedetto XVI per una nuova generazione di politici cattolici è rivolto soprattutto ai giovani.
Partendo cioè dal codice di Malines per arrivare a quello di Camaldoli, dalle parole di Giovanni Paolo II ai giovani argentini nel 1985 all’ormai celebre appello di Benedetto XVI a Cagliari. E ha sviluppato l’appello del Santo Padre inquadrando, attraverso il messaggio di Luigi Sturzo, Chiara Lubich e Luigi Giussani, il contributo specifico che i giovani cristiani possono dare alla promozione del bene comune, che «non è delegato allo Stato », ha precisato. La politica non è, ha insisto con le parole del prete di Caltagirone, cosa sporca, bensì «l’amore degli amori» come diceva
Su un punto il segretario di Stato si è espresso con particolare chiarezza: «La politica è chiamata a confrontarsi con la fragilità dell’uomo, anche ad apprendere dagli errori del passato e del presente, ma sempre coltivando la responsabilità dell’avvenire, da orientare alla virtù». E non parlava di virtù politica: anzi, da Riccione ha lanciato un vero e proprio appello ai politici ad «orientare la propria vita e le proprie relazioni alla virtù, poiché dalla virtù della persona dipende la virtù della società». Risultando ancora più esplicito: «non esiste separazione tra etica individuale ed etica sociale». Una rettitudine che «vale per tutti i politici», ma i cattolici debbono essere consapevoli di avere una «missione nella storia, che è quella di orientare la società a valori superiori», senza i quali, come scriveva Sturzo, «tutto si deturpa e la politica diviene mezzo di arricchimento, l’economia arriva al furto e alla truffa». Serve, al contrario, «una nuova generazione di politici cattolici», contraddistinta dall’impegno a «iniettare buona e nuova linfa nella società, orientandola alla virtù, con rettitudine e discernimento alla luce del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa». Gente capace di superare il bivio tra utopia e disaffezione, come lo inquadrava Giovanni Paolo II, ribaltando la prospettiva diffusa nella società globalizzata, «dove il cambiamento si attende dall’alto» mentre «la sfida per la nuova generazione di politici cristiani è quella del cambiamento dal basso, dal territorio, dalle comunità locali chiamate a contribuire al bene comune».
Da Avvenire di domenica 21 febbraio 2010
ANTONIO E NOI, OGGI QUEL SANTO RIVERBERO VIOLA
Chi ha visto i fedeli di sant’Antonio, già dall’alba di lunedì scorso in una fila che abbracciava la piazza della Basilica, e che nei giorni successivi e fino a ieri sera si è rinnovata, alimentata da sempre nuova gente venuta anche da lontano, non ha potuto non meravigliarsi. E non solo per quella moltitudine, non solo per la tenace resistenza della pietà popolare all’omologazione culturale che oggi impone ben altri oggetti di culto.
La meraviglia nasce anche da un altro elemento, forse più evidente per chi ha assistito alla cerimonia della traslazione del corpo del santo, domenica notte. Perché guardando quel sarcofago, e assistendo nel silenzio della Basilica vuota al faticoso lavorio di cavi che ne estraevano la cassa; e contemplando poi l’urna di cristallo coperta di polvere, chiusa dai sigilli purpurei dell’ultima ostensione, ti pareva quasi di toccare con la mano lo spessore del tempo.
Nella cassa, una bolla risalente all’ostensione del 1981 portava la firma autografa di Giovanni Paolo II. Che in quell’anno era un giovane Papa, fisicamente forte e sano, un leone. Mentre in questa notte di febbraio del 2010 ciascuno in Basilica, nel sentire quel nome, ha evocato la figura del pontefice malato e sofferente, che ci ha lasciato ormai da cinque anni. Ma, se i trent’anni che ci separano da quel 1981 sono già tanti per gli uomini, è impensabile allora il tempo – 779 anni – trascorso dalla morte di Antonio. Otto secoli, un abisso per uomini. Fatichiamo a immaginarci quell’anno 1231: l’Italia ancora brughiera e foreste, e città turrite contro i nemici, ma indifese dalle pestilenze. Le strade di polvere, le carestie in agguato, e il pauroso buio delle notti, rischiarate solo dalla luce tremante delle candele. È davvero perdutamente lontano il mondo di Antonio, per chi è nato nel secolo ventesimo.
E quell’urna con le ossa annerite del santo, e le altre più piccole con la sua carne tornata in cenere: tutto, a chi contemplava le reliquie, testimoniava la pesantezza, la durezza implacabile del tempo – che rende gli uomini polvere.
Ma, davanti a un simile annientamento della carne, ancora più singolare era il contrasto con quella folla di vivi in attesa nella piazza, nei giorni successivi e fino a ieri; vivi che battevano i piedi per scaldarsi dal freddo, e si tenevano svegli con un caffè bollente. Quella marea di vivi a venerare un uomo morto da ottocento anni, che cosa straordinaria. Andrebbero, forse, per Cesare o per Carlo Magno, per un eroe o un poeta? Si alzerebbero nel cuore della notte, verrebbero da molto lontano, per il più grande degli uomini? Forse, finché di quell’uomo è vivo il ricordo; finché ancora i vecchi ne raccontano.
Poi, l’oblio copre ogni memoria; la incenerisce, proprio come fa con le ossa.
Tranne che con i santi. E soprattutto per quelli al popolo più cari. Per santa Rita, per Francesco, per Antonio, la venerazione e la memoria sfidano i secoli. Come se fossero vivi tra noi, ancora. Come sfuggiti alla congiura implacabile che vuole che i morti impallidiscano fino a svanire dagli affetti dei viventi. I santi, dunque, violano la ferrea dittatura del tempo? E come avviene, come è possibile? Ce lo siamo chiesti contemplando la mano destra di Antonio, la sua mano benedicente ischeletrita nell’urna. Così evidentemente morta, eppure, negli sguardi commossi dei pellegrini, così viva.
Deve esserci un segreto. Qualcosa che la fisica e tutte le scienze non spiegano, né possono in alcun modo misurare. È una faccenda che deve avere a che fare con Dio. Con quel Dio che i santi vedono faccia a faccia. Che ne sia un riverbero, questo loro sfrontato felice restare fra noi, mille anni dopo? Che sia in realtà questo riverbero ciò che davvero cercano , magari senza saperlo appieno, quelle migliaia là fuori, e che portano al santo i loro vecchi, i loro bambini?
Da Avvenire di giovedì 25 febbraio 2010
GUARDARE A MERIDIONE CON IL CORAGGIO DI «PENSARE INSIEME»
VITTORIO DE MARCO
Con la pubblicazione del documento 'Per un Paese solidale', il Mezzogiorno torna al centro dell’attenzione della Chiesa italiana.
Frutto di un’ampia riflessione collegiale, esso si inserisce con l’autorità morale dei vescovi in un dibattito sulle emergenze del Sud che negli ultimi tempi, a partire da ottiche differenti e secondo sensibilità politiche e culturali articolate, è di nuovo attuale.
Lo spettro di osservazione del documento è ampio, perché tocca mali antichi come il fatalismo, emergenze moderne come la questione ecologica, e tematiche recentissime come il federalismo, sul quale il giudizio dei vescovi è chiaro: esso non deve accentuare le distanze tra le diverse parti d’Italia ma saper essere « solidale, realistico e unitario» (n. 8), senza che lo Stato rinunci a proteggere i diritti fondamentali di tutti gli italiani.
Il male più oscuro del Mezzogiorno continua a essere la criminalità organizzata: le «mafie – viene detto in modo chiaro e perentorio – sono strutture di peccato»; esprimono «una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione»; rappresentano «la configurazione più drammatica del 'male' e del 'peccato'» (n. 9). La condanna è netta, senza ombre né esitazioni: riecheggiano le parole forti di Giovanni Paolo II ad Agrigento e a Napoli. Oltre che nei giovani, la speranza dei vescovi è riposta nelle comunità ecclesiali e nella loro capacità di essere luogo e laboratorio di idee e fatti concreti, come dimostrano le cooperative e le aziende promosse grazie al Progetto Policoro. Da tempo la parte migliore delle Chiese del Sud si è allineata con la parte migliore della società civile per combattere ogni forma di illegalità, per promuovere una mobilitazione morale, dimostrando quanto le strutture ecclesiali siano profondamente calate nella realtà meridionale e di quale potenziale di cambiamento esse dispongano.
All’orizzonte del Mezzogiorno non c’è solo l’esigenza di un’economia sana. È necessario dare spazio anche alla cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e dell’impresa nel rifiuto dell’illegalità. Sono valori etici, culturali e antropologici non da porre in alternativa alle regole dell’economia, ma da intendere piuttosto come motori per lo sviluppo integrale del Sud: davvero ci vuole «coraggio e speranza» (n. 20).
Ravenna 22 febbraio 2010
DUOMO DI RAVENNA
PONTIFICALE AL DIACONATO PERMANENTE
I nostri fratelli Antonio Sellitto e Giovanni Fresa sono stati ammessi tra i candidati al Diaconato.
Da Portaparola Ravenna un augurio per il loro cammino insieme al Signore affinché gli conceda di conoscere e vivere, in tutta pienezza, il mistero del suo amore.
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