sabato 26 giugno 2010

PORTA PAROLA 26 GIUGNO 2010




da Avvenire di domenica 20 giugno 2010
IL BOOM DEGLI ORATORI ESTIVI
L’ABBRACCIO CHE ALLARGA IL CUORE
UMBERTO FOLENA
Se mezzo milione di ragazzi si mettesse pa­cificamente in marcia da Bergamo a Mila­no, farebbe fermare l’Italia, si parlerebbe di fe­nomeno sociale e perfino la politica sarebbe costretta a porsi qualche domanda. Niente di tutto questo accade né accadrà. Ma il mezzo milione esiste, e soltanto tra Milano e Bergamo. In tutta Italia sono un milione e mezzo, e stia­mo escludendo i loro circa 100 mila animato­ri, in grandissima parte adolescenti.
Sono il popolo degli oratori estivi, che non si fer­mano mai ed anzi accelerano quando gli altri rallentano. Nel momento in cui la «Chiesa dei vertici» raccontata da certi giornali sembra un imputato che vede continuamente erosa la sua base popolare, la Chiesa vera – fatta di vescovi e popolo, di preti e di laici – accoglie e testi­monia, raccogliendo fi­ducia e consenso.
Mai, probabilmente, la par­tecipazione agli oratori estivi ha toccato le cifre di quest’anno: soltanto a Milano, circa 400mila ragazzi con 40mila animatori. A Bergamo gli iscritti sono 90mila, a Brescia 70mila.
In tota­le, gli oratori mobilitati sono seimila, la metà dei quali in Lombardia e Triveneto. È l’estate al­ternativa di ragazzi e giovani normali di cui non si dice nulla perché non si sa che cosa dire.
Un discorso vecchio, inutile ripeterlo. La sor­presa con il timer a ogni Giornata mondiale della gioventù; le solite copertine dei rotocal­chi e la solita trash-tv che tende a spacciare (let­teralmente: vendere agli inserzionisti) i giova­ni come tutti borderline, impasticcati, inebe­titi e bamboccioni... Un discorso vecchio, sba­gliato e inutile. Che non prevede questa Chie­sa che vive tra la gente e tra la gente tiene ben salde le radici, che non ammette l’esistenza del popolo degli oratori estivi, dei loro animatori, dei giovani preti che li seguono per vocazione e passione. Un discorso miope che ignora l’e­sistenza di una comunità ecclesiale dalle radi­ci profonde tra la gente; una comunità di cui la gente si fida perché la conosce e la sperimen­ta di persona, perché vede con i propri occhi che cosa fa e ascolta con le proprie orecchie che cosa dice. Una comunità a cui nessuno sciagurato scandalo potrà togliere credibilità; la costringerà a sostare e a riflettere, a molti­plicare cautele ed attenzioni; a pregare; ma non la fermerà né le toglierà energie.
Ma quegli adolescenti, perché frequentano l’o­ratorio? Il segreto è semplice e lo rivela don Marco Mori, presidente del Forum degli oratori italiani: «L’insegnamento più importante che i ragazzi portano a casa da questa esperienza è la fiducia che ripone in loro il mondo degli a­dulti ». Non è molto diverso dal segreto condi­viso di Giovanni Paolo II, dall’insegnamento incessante di Benedetto XVI. Abituati a troppi adulti acidi e invidiosi, preoccupati di far cala­re sul capo dei giovani giudizi senza appello e atti di sfiducia da lasciare annichiliti; con l’au­tostima troppo spesso sotto i tacchi; i ragazzi sentono allargarsi il cuore non appena incon­trano adulti che innanzitutto spalancano le braccia e li accolgono, senza giudizi né pre­giudizi; e li invitano a dare tutto quello che pos­sono dare; e dimostrano loro che possono da­re tanto, tantissimo, molto più di quanto nes­suno abbia mai fatto immaginar loro. E se sba­gliano, e se cadono, anziché sottolineare la lo­ro incapacità e lasciarli per terra, gli danno u­na mano per rimettersi in piedi e ripartire, sor­ridendo. Un oratorio così un ragazzo lo frequenta ecco­me. Inverno ed estate.

Da Tempi.it di venerdì 25 giugno 2010
IO MUSULMANA SVELO L'INGANNO DELLA PILLOLA
Tre bambini, un marito disoccupato e le pressioni da parte dei datori di lavoro. Quando Séder si fa convincere a prendere la Ru486 non sa che sarà un calvario. Da cui uscirà solo grazie a uno “strano” perdono di Benedetta Frigerio
Lugo di Romagna. Séder è una ventiseienne marocchina, la sua storia e il silenzio che le fa da cornice sono gli stessi delle donne che passano da quasi tutti i consultori e ospedali italiani. La curiosità in più, quella che sulla stampa locale ne ha fatto un piccolo (e subito archiviato) “caso” giornalistico, è che Séder è stata tra le prime donne in Italia ad abortire con la Ru486, la pillola dell’IVG fatta in (quasi) perfetta solitudine. Tre anni fa Séder rimase incinta del terzo figlio. Allora aveva appena trovato un posto fisso da badante. «La mia anziana signora e datrice di lavoro mi pregò di non abbandonarla. E suo figlio, dopo che io avevo tentato di spiegare a entrambi che sarei riuscita a portare a termine anche quella gravidanza senza venire meno al mio impegno professionale, non volle sentire ragioni: “O abortisci – mi disse – o ne prendo un’altra”. Andai dal medico di base.
Niente da fare. Ero già oltre il tempo prescritto dalla legge. La risposta del figlio della signora che accudivo è stata una serie indirizzi di siti internet che spiegano come procurarsi l’aborto in casa. Cose terribili. Avrei dovuto infilare gomme nell’utero, schiacciare la pancia e prendere strani intrugli. Mi sono licenziata». Per fortuna. «Perché questa è Nâjiyahl – dice guardando con i suoi occhi neri e lucidi la bambina che le sta accanto – la mia terzogenita».
Il viso di Séd er è perfettamente incorniciato in un velo rosa, che copre la sua bellezza «perché la bellezza non va consumata, ma preservata per Dio e per il proprio uomo». Presto si capisce perché tanta dolcezza sia rotta da singulti e sguardi pieni di angoscia. «Subito dopo la nascita di Nâjiyahl, mio marito ha perso il lavoro ed è andato in cassa integrazione. Avevo partorito da quattro mesi. Mi sono subito messa a cercare qualcosa perché eravamo senza soldi. Il giorno in cui ho trovato un posto come lavapiatti ho saputo di essere di nuovo incinta. E di nuovo i miei datori di lavoro non volevano neanche sentir parlare di gravidanza. Così ho detto alla mia dottoressa che questa volta dovevo assolutamente abortire. Lei mi ha dato il certificato.
Sapevo di andare contro il volere di Allah, ma ero disperata e sono andata all’ospedale di Lugo. Lì mi hanno dato una pillola che, dicevano, mi avrebbe fatto abortire senza accorgermi di nulla».
crampi e la solitudine
Séder prende la prima pillola (Ru486) e va al lavoro. «Mi girava la testa, stavo male e dovevo nasconderlo perché sapevo che mi avrebbero licenziata. Allora sono tornata in ospedale per prendere la seconda (Cytotec). Lì mi hanno detto che avrei avuto un flusso mestruale solo un po’ più abbondante del solito. Non mi hanno detto di tornare nemmeno per un controllo». Quello stesso giorno Séder si accascia e sviene davanti alla cassiera di un supermercato. «Avevo freddo, sudavo e il cuore mi batteva forte. Mi sono svegliata in una stanza con quelli del 118 che mi dicevano di andare in ospedale. Ma io non ci potevo andare perché dovevo lavorare. Ho firmato per tornare a casa.
In macchina ho rischiato un incidente». La sera Séder è al suo posto di lavoro. Lava i piatti fingendo di avere dolori mestruali. «In bagno, dopo contrazioni e dolori lancinanti, mio figlio mi è caduto fra le mani». Adesso Séder passa certe sere in lacrime. Fa fatica ad addormentarsi, crede di vedere il volto di quel suo bambino (anzi è certa che fosse «una bimba»), si fa dilaniare dai sensi di colpa e giura che non si perdonerà mai né lo rifarà mai più. «Piuttosto me ne starò con dieci figli sulla strada». Séder crede che finirà all’inferno per quello che ha fatto. O meglio, così credeva fino a due settimane fa. Perché, spiega, «Marta dice che Allah non è come io penso che sia». Marta è una mamma come tante altre che Séder ha incontrato all’asilo e con cui una mattina si è confidata. Marta le ha detto che pensare alla dannazione dopo tanta sofferenza e dolore «è affermare un assurdo, come se il tuo male fosse più forte della sua misericordia, come se Dio fosse andato in croce inutilmente senza riuscire a salvarci». Le ha detto proprio così, «in croce». Evidentemente non stavano parlando dello stesso Dio. O forse sì, ma Séder non ci ha badato tanto. «Si vedeva in faccia la sua fede». Così, adesso, Séder passa certe sere in lacrime e a cercare la sua amica Marta.

da Avvenire di mercoledì 23 giugno 2010
ROMA, CULLE TERMICHE NELLE FARMACIE COMUNALI
Iniziativa della Farmacap in collaborazione con il Comune per accogliere i bambini abbandonati e aiutare le neomamme in difficoltà

ROMA. Culle termiche per accogliere i bambini abbandonati e aiutare le neomamme che desiderano mantenere l’anonimato. È l’iniziativa lanciata ieri da Farmacap (Azienda speciale farmasociosanitaria capitolina) in collaborazione con l’assessorato comunale alle Politiche sociali di Roma. Il progetto, che partirà inizialmente presso una farmacia a Colle Prenestino e sarà operativo dal mese di ottobre, nasce dalla volontà di aiutare quelle donne che non vedono altra possibilità, dopo aver portato a termine la gravidanza, di celare la propria identità nell’anonimato assicurando al tempo stesso un futuro al proprio figlio.
«L’iniziativa - ha spiegato Marco Penna, vicepresidente della Farmacap - rientra in una serie di attività a sostegno della genitorialità e a tutela della vita nascente. Accanto a questo le farmacie comunali offriranno alle future mamme informazioni e indicazioni sull’importanza dell’allattamento garantendo inoltre, telefonicamente, l’opportunità di consultare gli psicologi dell’azienda che sapranno consigliare le donne in gravidanza alle prese con problematiche sociali e psicologiche». «La vita - commenta l’assessore comunale, Sveva Belviso - è un dono che va tutelato e valorizzato e il Comune di Roma, attraverso questa iniziativa vuole offrire un futuro migliore a quei bambini che non possono essere allevati e cresciuti dalle proprie madri».
Soddisfatto dell’iniziativa il presidente della Farmacap, Franco Condò: «Con questo progetto le nostre 42 farmacie si confermano un punto di riferimento socio-sanitario di grande importanza, soprattutto nelle aree marginali della Capitale. Un ruolo la cui bontà è stata confermata dall’indagine sulla qualità della vita e dei servizi pubblici locali di Roma che ha posto la Farmacap tra le realtà più apprezzate dai nostri concittadini».
«Nonostante i problemi del settore farmaceutico e la crisi economica che investe tutti i settori socio economici del territorio, la Farmacap - conclude Condò - è riuscita a migliorare i propri servizi. Nei prossimi due anni apriremo altre cinque farmacie in periferia». E dalla prossima settimana l’Azienda farmasociosanitaria avvierà il servizio notturno nelle farmacie di Forte Tiburtino e di Via Gasperina per garantire il servizio a chi rimarrà a Roma nel periodo estivo.

da Avvenire di mercoledì 23 giugno 2010
COSÌ SGUARDOCATTOLICO.IT METTE IN VETRINA LE IDEE
Lo strumento legge ogni ora i siti che gli sono stati indicati e ne estrae i contenuti per l’ulteriore condivisione
DI PAOLO BENVENUTI
Nell’era del Web 2.0 la parola d’ordine è condividere: mettere a disposizione degli altri. Internet diventa veicolo di idee, agorà di approfondimenti. La Chiesa italiana vive una presenza significativa sulla Rete. Ogni giorno vengono pubblicate molte parole, e molte di esse capaci di farci maturare: come far diventare tutto questo facile da reperire? Come si può fare in modo che l’utente della Rete trovi questo materiale, senza cercare sito per sito? Per questo è nato sguardocattolico.it nel cantiere dell’Associazione Qumran. Il primo interlocutore è stato don Giovanni Benvenuto, inventore di pretionline.it e di qumran2.net. Il secondo, don Paolo Padrini, creatore dell’iBreviary e di pope2you.net. Dallo scambio di idee è emersa la fattibilità del progetto: avere un sito che rimbalza tutta una serie di siti, rivestendoli di una grafica comune e accattivante. È così nato www.sguardocattolico.it.Come funziona? Il sito legge ogni ora i siti che gli sono stati indicati, ne estrae i contenuti, e li ripresenta, organizzati e indicando la fonte, permettendone l’ulteriore condivisione in Rete (facebook, twitter, ecc.), e offrendo anche la possibilità di andare alla fonte.SguardoCattolico legge e ripresenta anzitutto gli editoriali di Avvenire e dell’Osservatore Romano , nonché il blog del Progetto culturale. A livello di siti personali, SguardoCattolico presenta le riflessioni di padre Piero Gheddo, i blog di vari vaticanisti, il sito di don Paolo Padrini e quello di don Alberto Carrara. Il lettore è invitato a segnalare altri siti che offrano materiale serio. In una società che ha bisogno di un supplemento d’anima, SguardoCattolico si propone come strumento per aiutare la maturazione dei credenti e degli uomini di buona volontà.

www.sguardocattolico.it
Sguardo Cattolico vuole far conoscere e leggere quei siti cattolici che aiutano credenti e non credenti a comprendere la realtà di oggi alla luce del Vangelo.

da Avvenire di martedì 22 giugno 2010
LIVORNO, I GIOVEDÌ? NEL GIARDINO DEL VESCOVO
La scommessa di Ac è far discutere i ragazzi sui temi legati a fede e vita
Giacomo Gambassi
A Livorno i giovedì di luglio faranno tappa nel palazzo vescovile. È la scommessa che lancia l’Azione cattolica diocesana con l’iniziativa «Giovani nel chiostro», un viaggio intorno agli interrogativi dei ragazzi di oggi che sarà ospitato proprio nel 'giardino' del vescovo Simone Giusti. Il primo appuntamento è per il 1° luglio quando alle 21.15 arriverà nella città toscana l’assistente nazionale della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), don Armando Matteo, per un dialogo sul rapporto fra giovani e fede che avrà per titolo quello del suo ultimo libro «La prima generazione incredula». L’8 luglio uno scambio fra le generazioni con l’incontro sul tema «La meglio gioventù» che ruoterà attorno a una carrellata di testimonianze di ieri e oggi.
La settimana successiva si guarderà al domani dei ragazzi in tempo segnato dalla flessibilità. A fare da spunto la domanda «Cosa vuoi fare da grande?» per parlare del futuro sospeso tra incertezze e speranze. Infine il 22 luglio una serata­provocazione che farà incontrare che sant’Agostino e Vasco Rossi che, con un suo brano, indicherà la rotta: «Voglio trovare un senso a questa vita».

da Avvenire di domenica 20 giugno 2010
LA GIORNATA MONDIALE
L’ITALIA CAMBI MARCIA A FAVORE DEI RIFUGIATI
GIANCARLO PEREGO *
La Giornata mondiale del rifugiato 2010, che si celebra oggi, riporta all’attenzione dell’opinione pubblica, ma anche delle nostre comunità cristiane, il tema dei richiedenti asilo, dei rifugiati e delle altre categorie beneficiarie della protezione internazionale. Sono più di 15 milioni i rifugiati e decine di milioni gli sfollati interni nel mondo. È un popolo che ogni anno cresce, in un contesto internazionale in cui guerre, contrapposizioni politiche, religiose, etniche, di genere, come anche disgrazie ambientali, costringono un numero sempre maggiore di persone, famiglie, spesso appartenenti a minoranze, a spostarsi dalla propria terra. Dopo un lungo e tragico vagare, pochi rientreranno alle loro case, nel loro Paese: lo scorso anno solo 250.000. Dal 2008, anno in cui è entrata in vigore la normativa europea in materia di protezione internazionale, agli status principali di richiedente asilo, di rifugiato, di protezione sussidiaria si sono aggiunte anche le forme di protezione temporanea e protezione umanitaria.
In Italia, la protezione umanitaria non è equiparata a un diritto soggettivo, ma si tratta di una semplice autorizzazione al soggiorno per motivi di carattere umanitario. Manca una normativa nazionale specifica che tuteli i diritti che ne conseguono. Per quanto riguarda la figura della protezione temporanea, essa può essere attribuita solo a seguito di un provvedimento legislativo specifico e dinanzi a un flusso massiccio di profughi. Questo intervento è pensato, quindi, nell’ottica di impedire il blocco del sistema di asilo dinanzi a un arrivo considerevole di richiedenti provenienti da Paesi dove sono sorti conflitti armati o si sono registrate situazioni che hanno determinato la fuga in massa di molti civili, come è avvenuto per i profughi della guerra in Vietnam e Cambogia alla fine degli anni 70 o recentemente per i profughi della Bosnia e del Kosovo.
L’Italia, che all’articolo 10 della Costituzione ha preso l’impegno di difendere e tutelare i richiedenti asilo, può svolgere un compito importante nel contesto europeo – come già per la protezione delle vittime della tratta – aumentando l’attenzione e la disponibilità verso ogni forma di protezione internazionale, specialmente nei confronti dei richiedenti asilo. Purtroppo, invece, nel nostro Paese sono presenti poco più di 50.000 rifugiati e le domande di asilo sono passate dalle 30.000 del 2008 alle 17.000 del 2009, con un calo del 42%, il più alto in tutta Europa. Quali le cause di questa diminuzione? Secondo l’Acnur, l’agenzia Onu, sono stati i respingimenti a indebolire il diritto di protezione. «Tale pratica – si legge nel Rapporto – va a minare la fruibilità del diritto di asilo in Italia come si evince dal drastico calo delle domande d’asilo pervenute nel 2009». L’Acnur sottolinea, tra l’altro, che nell’Unione europea altri Paesi ospitano molti più rifugiati di noi, come Germania (600mila) e Regno Unito (300mila).
Diventa importante per l’Italia, centro del Mediterraneo, allargare ogni forma di protezione umanitaria che possa affrontare il dramma di milioni di persone e famiglie in movimento, perché costretti da situazioni drammatiche, evitando di affrontare queste situazioni o rifiutando l’incontro, respingendo le persone; o abbandonandole in situazioni di impossibilità di tutela della stessa vita oltre che dei diritti fondamentali (il caso dei rimpatri in Libia). Anche la Giornata mondiale del rifugiato ci ricorda che ogni forma di abbandono, di respingimento e di rifiuto non può che essere contestata culturalmente e politicamente. Bisogna, invece, alimentare l’idea di un’Europa sociale che allarghi le forme di protezione e accompagnamento, mettendo – come ha ricordato Benedetto XVI nel suo recente viaggio a Malta – la dignità della persona al centro nella costruzione del futuro.

da Avvenire di sabato 19 giugno 2010
LO SCANDALO DELLA PENA DI MORTE: DUE NUOVI CASI
MA È IL «NON UCCIDERE» CHE FONDA SOCIETÀ E LEGGI
GIUSEPPE ANZANI
Dicono gli storici che a inventare la ghigliottina fu un medico, e che lo fece per motivi umanitari.
La tecnologia progredita ha allestito la camera a gas e la sedia elettrica, niente sangue e testa nel cesto, si asfissia e si brucia. E per ultimo l’iniezione letale, vagamente immaginata come morte fuor di coscienza e fuor di dolore; e dunque più composta e discreta, si pensa, dello scalciare dell’impiccato appeso alla forca, o della scelta un po’ epica e rumorosa della fucilazione.
Ipocriti. Le graduatorie dello strazio fisico neppure convincono più, dopo le osservazioni e le rivelazioni sui percorsi delle varie agonie. Ipocriti, lo strazio psichico accomuna nella crudeltà le varianti patibolari. La crudeltà della pena di morte sta nella condanna d’un vivo a morire. È la capitale violenza dell’espulsione, dell’esclusione, del rinnegamento umano.
Preparato e consumato.
Ieri in una prigione dello Utah, un condannato è stato ucciso con quattro proiettili da caccia sparati al cuore. Non è il momento della vampata e dello scoppio del cuore che mi resta in mente, è il momento che lo precede, il tempo che ruota le sue lancette verso il gorgo che si avvicina. Mi viene in mente Dostoevskij, il pensiero torturante di un condannato in una fucilazione simulata («la repulsione di ciò che stava per giungere era tremenda, ma niente era più penoso dell’incessante pensiero: 'Poter non morire!'»). Mi viene in mente Camus, e lo straniero che attende e quasi spera attorno al suo patibolo le «grida di odio».
Avevamo così tanto confidato nella moratoria universale della pena di morte. I proclami e i propositi non sono serviti. Non hanno impedito neppure le vicende più assurde, come quella di David Powell, condannato a morte nel Texas con sentenza due volte annullata e due volte rifatta, e recluso nel braccio della morte per 32 anni, durante i quali è divenuto un detenuto modello, «un pilastro morale per gli altri detenuti in attesa della morte»; una vita ora uccisa, dopo l’ultimo pollice verso. Non dite 'giustiziato', non è giustizia questa, è tortura e follia.
Peggior sconforto ci prende leggendo che un sondaggio Gallup dello scorso anno dice che la maggioranza degli americani è ancora favorevole alla pena di morte. Non basta più dunque la riprovazione per questi casi scandalosi e indegni, occorre ora tenere accesa una riflessione più profonda e orientata, sull’uomo, sulla vita e sulla morte. Sulle ragioni ultime che connotano di ingiustizia la pena di morte.
La vita dell’uomo si svolge naturalmente nella dimensione del tempo, e va incontro inevitabilmente all’appuntamento con la morte; ma in ogni tempo e luogo della storia, per l’uomo la vita ha sempre segnato e segna un mistero, un contatto con l’oltre e col sacro, da cui la vita proviene e a cui la vita ritorna.
Per questo il comando 'non uccidere' è il fondamento della società umana e delle sue leggi; e il peccato di Caino insanguina non sola la terra, ma lacera il cielo. Ma ancora per questo la vendetta su Caino non appartiene alla terra, né il sangue si lava col sangue, o la morte con la morte, senza di nuovo violare i territori del sacro.

da Avvenire di domenica 20 giugno 2010
Il tema al centro della Settimana estiva della Cei
IL DIFFICILE “LAVORO” DI EDUCARE I FIGLI di Luciano Moia
La psicologa Paola Bassani: «Oggi, la relazione di coppia è senz’altro il luogo privilegiato di educazione all’amore». Ma servono genitori credibili

«Senza la famiglia fondata sul matrimonio la società non potrà avere futuro. Non solo la trasmissione della vita e l’educazione dei figli, ma anche l’assistenza agli anziani e ai disabili sarebbero impossibili senza l’apporto della famiglia. Ecco perché sostenere il futuro della famiglia vuol dire sostenere la sussistenza stessa della società». Così don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia ha concluso nei giorni scorsi la “Settimana estiva” organizzata in collaborazione con l’Ufficio per la problemi sociali e del lavoro e con il Forum delle associazioni familiari. In questa prospettiva occorre che ogni famiglia divenga più consapevole del suo essere soggetto sociale. Cioè, come ha spiegato monsignor Angelo Casile, direttore dell’Ufficio per problemi sociali e lavoro, sviluppi un’attenzione partecipe «alle diverse esigenze del bene comune: l’impegno per la pace, la custodia del creato, la cura verso le persone, la cooperazione internazionale, il bene dell’intera umanità, anche per le generazioni future.
Tali esigenze - ha aggiunto - ci spingono a un impegno quotidiano che, in senso evangelico, è «perderci» a favore dell’altro invece di sfruttarlo, è «servirlo» invece di «opprimerlo per il proprio tornaconto».
Voler bene. Volersi bene. Un miste­ro d’amore che si schiude agli oc­chi di ogni bambino nel primo ab­braccio della mamma, nello sguar­do che lo accoglie e lo riconosce “fi­glio”, una base sicura che poi cre­sce, si dilata, si arricchisce nelle “braccia” del padre protese al cielo. Il pianeta dell’a­more, l’educazione all’affettività, il lento percorso per passare dall’emotività del cuo­re all’equilibrio degli affetti sono stati al centro del primo laboratorio alla “Setti­mana estiva” Cei di Senigallia. Primo in ordine cronologico e per numero di par­tecipanti, ma anche per l’urgenza che oggi assume la questione affettività: un’urgenza che non si vuole trasformare in emergenza, ma in oc­casione di riflessione e crescita. Parlare di emergenza educativa vuol dire innanzi tutto fare chia­rezza in quell’arcipelago intricato delle relazioni interpersonali al­l’interno della famiglia. Nella con­sapevolezza che solo un nucleo familiare in cui le dinamiche al­l’interno della coppia e tra geni­tori e figli - al di là dei limiti ine­vitabili e delle difficoltà ordinarie - riescono a scorrere ed evolvere con un mi­nimo di fluidità, diventa davvero risorsa per il bene comune.
Per parlare di educazione all’affettività oc­corre partire dalla coppia, anzi dalla rela­zione. «Perché solo questa relazione, inte­sa come maschio-femmina, uomo-donna, marito-moglie, padre-madre – spiega la psi­cologa Paola Bassani, che ha guidato il laboratorio nel corso della “Settimana Cei” – è per me oggi luogo privilegiato di edu­cazione all’amore».
Quanto peso hanno le relazioni familia­ri nell’educazione all’amore?
Un peso fondamentale. Sino a qualche de­cennio fa infatti, le nuove generazioni co­struivano la loro esperienza affettiva in molteplici luoghi esperienziali di cui si con­dividevano i valori di fondo e un comune linguaggio simbolico, oggi la molteplicità esperienziale, valoriale e culturale, rischia di rendere la costruzione dell’identità fra­gile e precaria.
Oggi però anche i genitori mostrano tal­volta una sorta di analfabetismo emoti­vo­-relazionale di ritorno...
Infatti. Perché i figli desiderino e accettino di essere accompagnati, gli educatori, pa­dre e madre, devono essere innanzitutto credibili: i figli dovrebbero poter guarda­re alla coppia genitoriale con fiducia, co­me modello a cui tendere. Ma anche con rispetto, cioè a giusta distanza, come luo­go altro da loro.
Insomma una coppia autentica, non so­lo che si sforzi di essere tale...
Soprattutto non un “museo delle cere”, luogo del sorriso artificiale, di uno stare insieme forzato e mortifero, della menzo­gna relazionale, dell’anestesia emotiva a cui molte coppie si adattano nel nome di presunte esigenze educative, ma una rela­zione capace di integrare anche distanze e differenze - femminile e maschile - di at­traversare le fasi di crisi e di conflitto e quel­le di armonia, gioco, intesa, a prescindere dai figli.
Quanto è importante che i genitori sia­no disponibili ad accompagnare insie­me i figli?
È bene prestare particolare attenzione a questo aspetto, perché a volte si pensa sia “spontaneo”, implicito che i coniugi la pensino allo stesso modo: dedicare uno spazio al confronto su cosa significa per l’u­no e per l’altro, “accompagnare” i figli, nel rispetto dei diversi linguaggi maschile e femminile, può aprire a condivisioni inat­tese e non sempre di facile “gestione”, ma è fondamentale poter concordare almeno una linea comune.
In quali equivoci si può cadere?
Immersi, spesso inconsapevolmente, nel­la cultura narcisistica moderna, i genitori faticano più che mai a distinguere i propri bisogni e desideri da quelli del figlio, la­sciando spesso la dimensione edu­cativa in balia di voglie, mode o mo­delli dati per scontato, come se il “farsi compagno” significasse di­menticare la propria “adultità”.
C’è un rischio confusione insom­ma?
Sì, soprattutto per quanto riguarda l’educazione all’affettività e all’a­more. Nella convinzione che la so­cietà moderna, con i suoi mezzi cul­turali e tecnologici, abbia contribui­to a sdoganare tabù e ignoranze, che la “libertà” di cui i figli godono li ab­bia in qualche modo preparati all’affetti­vità, al mondo dell’amore automatica­mente, rischiano di trascurarne la centra­lità per il loro sviluppo equilibrato.
Perché tutti questi inciampi quando si parla di affettività?
A volte diventare genitori induce a di­menticare di essere ancora in evoluzione, in cambiamento, come se non si potesse o dovesse più crescere e cambiare, altre vol­te ci si adegua a seconda del momento. O­gni genitore profondamente interessato ad accompagnare i figli dovrebbe innanzitut­to essere consapevole del proprio mondo affettivo. Che vuol dire anche integrare la dimensione etico-valoriale e quella emo­tiva in modo sufficientemente equilibrato.
Partire dai propri valori di riferimento non potrebbe essere un buon criterio?
Sicurezze, valori e principi sono certamente indispensabili, possono però trasformarsi in leggi mortificanti se irrigidite in modelli educativi predefiniti e creare distanze cul­turali che impediscono e bloccano ogni possibile percorso insieme. Non sempre l’educatore è in grado di cogliere la profon­da distanza che attraversa oggi le genera­zioni, rimanendo ancorato alla propria esperienza personale.
Insomma, gesti e relazioni di verità, più che “belle parole”?
Sì, perché il legame, qualunque legame, appaia ai giovani più desiderabile di un i­dilliaco spazio per la conquista della pro­pria soddisfazione o di una inevitabile pri­gione, dobbiamo impegnarci a trasforma­re innanzitutto noi stessi e uscire dalla lo­gica che vede spesso chi educa cadere nel­la trappola di insegnare l’amore, senza es­sere capaci di “parlare l’amore”, di costruire cioè autentiche relazioni significative.


Cooperativa Sociale La Pieve di Ravenna
La Cooperativa sociale La Pieve attraverso attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate e servizi per persone disabili vuole rispondere a bisogni di inclusione sociale e al miglioramento della qualità della vita personale, sociale, professionale ed economica.


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PUNTI VENDITA AL PUBBLICO A RAVENNA

Sant’Antonio via Tomba 2x telefono 0544-453313
S.Michele via Faentina 263 telefono 0544-500689

La Cooperativa Sociale La Pieve è stata fondata nel 1984 ad Argenta (FE) grazie al sostegno del Parroco del luogo, con il nome di Cooperativa Solidarietà per assistenza agli anziani. Nel 1988, la Cooperativa cambia lo scopo sociale per dare una risposta al problema dell'occupazione lavorativa di persone disabili o in difficoltà.
La denominazione "La Pieve", viene dalla chiesetta di epoca romanica la Pieve di San Giorgio, situata tra le suggestive Valli di Campotto e di Vallesanta (Fe).
Nel 1989 il parroco di Argenta viene nominato direttore dell'Opera di S. Teresa del Bambino Gesù di Ravenna, Istituto che accoglie persone disabili e anziani. Questo ha permesso nel 1990, alla Cooperativa La Pieve di estendere il proprio servizio anche a Ravenna e di lavorare in stretta collaborazione con l'Opera di S. Teresa del Bambino Gesù che ha costruito su propri terreni i Centri residenziali, socio riabilitativi e occupazionali.
Nel 1991 nasce il primo Centro diurno a S. Antonio, per attività socio occupazionali in florovivaismo: seguono a breve S.Michele, l'Airone e il laboratorio di Legatoria artigianale. Attualmente i centri diurni sono 10. Nel 1993 nasce il primo Centro residenziale S. Michele al quale faranno seguito S. Emilia, S. Marco e nel 2002 S.Giuseppe.

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