Da Avvenire di domenica 30 maggio 2010
MESE MARIANO, LEZIONE DI UMANITÀ
DAVANTI ALLA MADRE SI TORNA A DOMANDARE
MARINA CORRADI
Finisce maggio, quello che una volta era il mese dei Rosari nelle corti della cascine, la sera. Delle processioni dietro alle Madonne di gesso, portate come in trionfo per le strade mentre la gente sulle soglie delle case si segnava. Solo memorie del passato? In un convegno internazionale a Oropa e Crea si è parlato di Madonne nere: quelle icone dal volto negro diffusamente venerate, da Czestochowa a Montserrat. Ben 745 Madonne nere in Europa, o almeno quelle finora censite: una schiera, una costellazione nascosta. Ma, e questa è la notizia che colpisce il profano, le Madonne non erano originariamente negre: lo sono diventate per la lunga esposizione ai fumi delle candele e delle lampade votive. Quel colore bruno, è il deposito di secoli di devozione.Un tempo rosee, le Madonne si sono andate scurendo nella umidità, nella polvere, nel fiato dei fedeli che andavano a implorarle, a carezzarle con la mano; nell’ardere tremolante delle fiamme dei ceri accesi a chiedere una guarigione, o il ritorno di un figlio dal fronte. Nere di preghiere le icone che secondo alcuni studiosi indicavano invece la commistione con antichi culti pagani, o esoterici. Macché, dicono gli esperti convenuti a Oropa e Crea: è stata una secolare, tenace devozione a imbrunire i volti antichi di una donna, e un bambino. E quando quelle immagini venivano copiate, magari per emigrare oltreoceano, venivano dipinte nere: perché quella era il volto stampato nella memoria del popolo, che non poteva essere tradita.
È una notizia, la origine di quel colore nero, che commuove. Settecento Madonne nere, dalla Lettonia alla Spagna all’Irlanda; in Francia, numerosissime; più frequenti là dove la Rivoluzione non ha annientato ogni segno cristiano (la mappa delle Madonne nere sopravvissute potrebbe raccontare una sua storia di Francia). E proprio l’ombra scura su quei volti testimonia il pellegrinaggio, una generazione dopo l’altra, di cristiani: il tenace ritorno alla madre. Quanti milioni di mani, di sguardi imploranti si sono posati su quelle Madonne? Nell’ombra dei loro volti, il distillato di una fede popolare. Umile come una mano tesa di mendicante.
Già: umile. Da sempre la Madonna è cara ai cristiani semplici, a quelli che non sanno di teologia, che non si vantano di una fede 'raffinata'. Ma vanno a domandare: una speranza, una quiete nel dolore - una misericordia. ('Memorare, o piissima Virgo Maria, a saecula non esse auditum quemquam ad tua currentem praesidia, tua implorantem auxilia, tua petentem suffragia esse derelictum', dice, e quasi intima, la preghiera di san Bernardo: ricordati che non si è mai sentito che qualcuno che ha domandato il tuo aiuto sia stato abbandonato).
L’umiltà di secoli di domanda rappresi in una patina nera è un capitolo muto della nostra storia, una radice ignorata ma forte di questa Europa che delle sue radici dubita. Perché proprio l’attitudine semplice del domandare - e non pretendere, manipolare, possedere - è ciò che oggi ci manca. Il disarmato domandare da figli - figli magari anche indegni, disonesti, bugiardi, e però fiduciosi in una madre - è un gesto inammissibile, per chi non riconosce padri. Non è, il domandare, roba da uomini - per chi del mondo si sente padrone.
E quindi non ci saranno più Madonne nere di fumo e di carezze. O forse sì: nei santuari, dove sui muri allineano colonne di ex voto con scritto: grazie. Perché nel momento del dolore, ancora, gli uomini 'raffinati' tornano semplici, e vanno a domandare. Dal dolore ricondotti a ciò che sono: figli. Ultimi di quelle schiere infinite passate davanti alle Madonne nere d’Europa. Pezzo di un’altra storia, che sui libri di scuola non è raccontata.
Da Avvenire di giovedì 3 giugno 2010
Occorre guardare al futuro con gli occhi dei bambini
La prima pietra DI CARLO CASINI
Al termine delle manifestazioni svoltesi nell’arco di tre giorni per esprimere la nostra «non rassegnazione» a trentadue anni dalla legge sull’aborto (L. 22 maggio 1978, n. 194) qualcuno mi ha detto: «avete inaugurato una strategia nuova». La frase mi ha fatto piacere, anche se i progetti emersi dalle iniziative (21 maggio: incontro con i politici regionali; 22: incontro con i giornalisti; 23: incontro con Benedetto XVI) sono maturati come esito naturale di un lavoro più che trentennale. «Partire dal basso», cioé dagli Enti locali, può forse dirsi la prima «novità».
Le Regioni possono fare moltissimo per difendere la vita nascente: riforma dei consultori familiari pubblici, valorizzazione del volontariato, tutela dell’obiezione di coscienza, campagne educative, linee guida sul colloquio della donna con il medico nella procedura che dovrebbe evitare il ricorso all’Ivg, riconoscimento del diritto alla vita fin dal concepimento inserito negli Statuti regionali.
Al mondo della comunicazione, che di fatto è l’anticamera della politica, è stato chiesto di dire la verità. La parola può concretamente salvare o uccidere. Dire la verità significa anche smetterla di mentire sostenendo che la legge 194 ha ridotto gli aborti: è una menzogna che offende, oltretutto, chi ha davvero contribuito a contrastare il triste fenomeno con l’educazione e l’aiuto concreto alle madri in difficoltà. Un lavoro, quest’ultimo, che è stato documentato attraverso la presentazione dell’annuale rapporto per il 2009 dei Cav d’Italia, un documento che Sandro Magister qualificò qualche anno fa «uno straordinario testo di contro informazione» volutamente nascosto dai grandi mezzi di comunicazione.
Non sono una novità gli effetti devastanti del crollo della natalità, ma è una «novità» il forte impatto che hanno avuto le relazioni sul rapporto fra natalità e crisi economica.
Non capita tutti i giorni di sentir sostenere in modo rigoroso e convincente, da autorevoli demografi e docenti di economia che alla base dell’attuale grande crisi economica vi è la cultura del rifiuto del figlio. Il conseguente invecchiamento della popolazione è causa dello sballo pensionistico, dell’aumento della spesa pubblica, della incoercibile pressione fiscale. Non saranno sufficenti rimedi finanziari o monetari.
È indispensabile che le famiglie riprendano la loro funzione generante ed educante. Per questo la domenica 23 maggio un corteo di 50 carrozzine vuote ha percorso le strade di Roma per significare ciò che è accaduto: una carrozzina vuota ogni 100.000 aborti legali. Per questo un altro corteo di piccoli bambini ha manifestato al Santo Padre il grande progetto del popolo della vita: «guardare al futuro dell’Italia con occhi dei bambini» com’era scritto sul grande striscione innalzato in Piazza San Pietro. Per singolare coicidenza subito dopo questa manifestazione mi sono recato in Cina per adempiere al mio mandato di Parlamentare europeo, che mi colloca anche nella Delegazione per le relazioni con la Repubblica popolare cinese.
Sorpresa delle sorprese: anche in Cina le autorità sono preoccupate per l’invecchiamento della popolazione: temono che l’impetuoso sviluppo economico in corso possa essere fermato. «Ma come?» ho chiesto: «non avete la politica del figlio unico?
L’avete abbandonata?» «No, mi hanno risposto, ancora oggi le coppie non possono avere più di un figlio, ma in certe zone, abbiamo attenuato la regola: se i due genitori sono entrambi figli unici, sono autorizzati ad avere un secondo figlio». Mi astengo da commenti che potrebbero essere duri (perché le femmine in Cina sono meno numerose dei maschi? Perché – mi si dice – avvengono rapimenti di ragazze povere nelle campagne?).
Torno invece al tema della grande crisi economica che ogni giorno è stato evocato non solo in Cina ma anche in Spagna dove lunedì e martedì scorsi si sono incontrati i rappresentanti dei Parlamenti dei 27 Stati dell’Unione europea: crisi, debiti, disoccupazione, fallimenti.
Come uscirne? Nessuno possiede ricette sicure, tutti hanno paura, ma cercano di infondere fiducia per non aggravare ancora di più la situazione.
Ganoczy ha scritto: «i valori morali salvano la terra anche in senso materiale». Quante volte a chi ci accusa di essere monotematici, ho replicato anche con l’ argomento della «prima pietra»! Non si costruisce un edificio nuovo senza collocare una prima pietra. C’è desiderio di un generale rinnovamento civile e politico, ma gli egoismi producono corruzione, violenze, disordine. Da dove ricominciare? Almeno cominciamo a non sopprimere i nostri figli. In altro tragico momento, nel 1948 ci aggrappammo alla proclamazione della uguale dignità di ogni essere umano. Ora è giunto il momento di rendere definitivamente chiaro che davvero tutti gli uomini, sono uguali, sempre. Cioé fin dal concepimento, con il coraggio di affermare che i bambini sono sempre bambini anche prima della nascita. Abbiamo tradotto in parole la «prima pietra»: «guardare al futuro dell’Italia con gli occhi dei bambini».
Movimento per la Vita www.mpv.org
Da Avvenire di martedì 1 giugno 2010
In Lombardia basta aborti per motivi economici 250 euro al mese per le donne che scelgono la vita di Davide Re
MILANO. Lo aveva detto in campagna elettorale il presidente della Lombardia Roberto Formigoni «nessuna donna dovrà più abortire in Lombardia a causa delle difficoltà economiche» e ora l’ha fatto. Ieri la giunta della Lombardia ha dato il via libera fondo Nasko che erogherà un bonus di 250 euro al mese, 4500 euro in un anno e mezzo, alle donne che rinunciano ad abortire pur vivendo in condizioni economiche difficili. «Vogliamo aiutare – ha spiegato il governatore lombardo – la famiglia, la maternità e la natalità, rimuovendo il più possibile gli ostacoli, a cominciare da quelli di natura economica, che rendono più difficoltoso il fare una scelta a favore della vita».
D’accordo anche l’assessore regionale alla Famiglia, Giulio Boscagli, che fa notare come «lo sforzo della Giunta sia tanto più significativo in quanto cade in un momento in cui la forte instabilità economica e sociale si può ripercuotere, più che in altri periodi, sulla scelta di molte donne di procrastinare o interrompere una gravidanza». Ma come funziona l’iter burocratico? Nel momento in cui una donna presenti la richiesta di interrompere la gravidanza spinta soprattutto da motivazioni economiche, gli operatori del consultorio o i servizi ospedalieri, la mettano in contatto con il Cav (Centro di aiuto alla vita) per consentirle di conoscere e valutare le opportunità di aiuto. Il Centro le sottoporrà un ventaglio di interventi di aiuto che potrà offrirle.
Nel caso in cui la donna accetti di continuare la gravidanza, il Cav e il Consultorio familiare stenderanno un progetto personalizzato che sarà sottoscritto anche dalla futura mamma e nel quale saranno descritti i diversi interventi attivati o da attivare sia prima sia dopo la nascita del bambino. Per Sara Valmaggi, consigliere regionale del Partito democratico pone però alcuni dubbi sul meccanismo che sta alla base del progetto Nasko: «Il ruolo dei consultori va potenziato e non può per esempio essere surrogato dai centri di aiuto alla vita». Per il capogruppo in Consiglio regionale dell’Udc Gianmarco Quadrini «la misura adottata è significativa ed indispensabile, sebbene giunga con ritardo, aiuta finalmente le donne a non essere davanti ad un’unica scelta».
Da Avvenire di giovedì 3 giugno 2010
PER LA VITA, CON I FATTI
Benvenuti gli antidoti all’inverno demografico
GABRIELLA SARTORI
Crisi economica: sulle cause che la generano, sui modi per superarla, non sono certo le analisi a mancare. E tuttavia la crisi resta: segno che le analisi non bastano.
Sul tema mancano piuttosto le buone notizie. Qualcuno che dica: ho individuato una causa della crisi, ho qui un rimedio e funziona, potrebbe funzionare. Non che manchino del tutto queste eccezioni. Solo che se ne parla troppo poco. Forse perché non è abbastanza chiaro a tutti che la denatalità impressionante che affligge l’Europa e soprattutto l’Italia è una delle cause principali di questa crisi. Eppure essa dimostra ogni giorno come i Paesi più giovani (Cina e India in testa) sappiano farvi fronte molto meglio di quelli, come il nostro, afflitti da quell’«inverno demografico» che il cardinal Bagnasco ha recentemente riportato all’attenzione generale. Un fatto che ha conseguenze anche economiche e sociali: nell’Italia più 'giovane' del 1975 la pressione fiscale era al 25%; nell’Italia troppo vecchia di oggi, la pressione è arrivata al 45%. Ben vengano quindi le idee e le iniziative volte a porre un freno a quest’«inverno» così micidiale. Sono buone, per esempio, le notizie che vengono da Parma e dai cinquanta Comuni italiani che con lei fanno rete all’insegna delle 'città per la famiglia'.
Parma è capofila, con il varo di una serie di iniziative non assistenziali (servizi, tariffe ecc.) dirette a sostenere in vari modi la famiglia , a partire da una politica fiscale basata sul “quoziente familiare “che non punisce ma aiuta chi ha figli. Ma è una buona notizia anche il fatto che queste idee e queste iniziative siano politicamente trasversali: segno che il realismo, la buona informazione e il buon senso possono superare le divisioni partitiche. In Lombardia, poi, è appena stato varato dall’amministrazione regionale il progetto 'Nasko': quattromilacinquecento euro (250 euro mensili per diciotto mesi) a ogni madre che rinunci ad abortire per difficoltà economiche. Sarebbero almeno settemila l’anno le madri che lo fanno in quella regione. La crisi, infatti, pesa, eccome, anche su questo versante. 'Nasko', insomma, pur con i suoi limiti, va considerata una buona notizia.
Invece le critiche piovono (sono solo 'briciole', è un esperimento 'a tempo', sarà facile per le utenti imbrogliare ,ecc.) e piovono dalle solite fonti: quelle che, smentite mille volte dalle cifre di tutti gli altri Paesi che hanno percorso questa strada, credono che gli aborti non si possano ridurre se non con la diffusione degli anticoncezionali e simili; quelle che, con la forza del linguaggio 'ufficiale', considerano la Ru486 un 'farmaco' come se un figlio in arrivo fosse una malattia da cui liberarsi. Soprattutto indigna il fatto che il progetto 'Nasko' affidi a volontari dei Centri di aiuto alla vita il difficile compito di individuare le madri davvero bisognose. È una funzione che dovrebbe spettare al consultorio pubblico che ha il compito e le capacità di applicare la legge 194
in tutte le sue parti, anche quelle che prevedono la prevenzione dell’aborto a gravidanza iniziata, dicono gli oppositori. Perfetto, in teoria: ma in pratica? A distanza di più di trent’anni di applicazione della legge194, si sa che i volontari dei Centri aiuto alla vita italiani, da soli, hanno assistito almeno cinque-seicentomila donne. Hanno salvato dalla tragedia dell’aborto volontario almeno centodiecimila madri e altrettanti bambini: un’intera città giovane, dai trentacinque anni in giù, regalata all’Italia senza figli di oggi.
Senza oneri per lo stato e per le pubbliche istituzioni. Se la regione Lombardia, dunque, si fida dei Centri di aiuto alla vita, non lo fa a caso. Quanti bambini siano nati, in queste stesse condizioni, grazie ai Consultori pubblici, non si sa: la legge 194 chiede solo che segnalino quanti non ne sono nati. E dal 1975 al 2008, sono stati quasi cinque milioni. Un vuoto di cui oggi, nel pieno della crisi, si misura o si dovrebbe misurare la gravità con crescente preoccupazione anche sul versante demografico, economico, e sociale. Invece, piovono critiche. Invece, si continua a preoccuparsi di tutto tranne che di lasciar nascere qualche persona in più.
Da Avvenire di giovedì 3 giugno 2010
L’IMPEGNO PROPOSTO DALLA CHIESA PER TORNARE A INDICARE UN ORIZZONTE A CHI È GIOVANE
Educare senza paura né timidezza alla bellezza e al futuro
Se si ignora la vocazione al futuro e al trascendente dei giovani, si nega la possibilità di realizzare i sogni più ambiziosi che coltivano. È l’eredità più pesante della crisi delle istituzioni formative
CARLO CARDIA
Nell’età giovane ogni cosa ha il fascino del nuovo, perché ogni giorno si apre una finestra sul futuro. E’ un esperienza che abbiamo provato tutti, e che tuttavia viene dimenticata in un’epoca nella quale sta prevalendo la paura di educare. Si ha timore di parlare ai giovani per trarre dalla loro coscienza i sogni che nascondono, le speranze che coltivano, per parlare loro delle cose belle e meno belle che li attendono. Eppure educare è una delle esperienze più affascinanti dell’uomo, che abbia dei figli, che sia insegnante, che viva in mezzo ai giovani. Ed è affascinante perché è un rapporto di scambio continuo. La gioia della vita si trasmette dai figli ai genitori, dai giovani agli adulti, come un fatto naturale, spontaneo, irripetibile. Quante volte le apparenti ingenuità dei bambini, e dei ragazzi, riempiono e donano serenità a chi si è appiattito sulla quotidianità, a chi si aspetta poco da ciò che deve ancora accadere. E quante volte restiamo sorpresi da quelle domande che i giovani rivolgono, e alle quali non sempre sappiamo rispondere.
La prima conseguenza della paura di educare sta proprio nel contrasto tra le mille domande che i giovani avanzano, e nelle poche risposte che ricevono. Non si danno risposte perché non ci si vuole impegnare e rischiare. Si ha paura di condizionare la coscienza dei giovani, di imbrigliarla in questioni che non capiscono, di limitarne la capacità di scegliere e di agire. Ma queste sono paure che l’adulto si porta dentro di sé, e così finisce davvero per condizionare i giovani, perché non dona loro nulla.
Socrate eccedeva affermando che basta conoscere il bene per farlo, e che l’educazione consiste nell’insegnare il bene. Lo capì il poeta latino ricordando che l’uomo vede le cose buone, ma sceglie quelle cattive («video bona proboque, deteriora sequor»).
Ma certamente se le categorie del bene e del male sono espulse dall’orizzonte educativo, i giovani saranno disarmati e delusi quando affronteranno le fatiche della vita, i contraccolpi del male.
La scuola ha oggi quasi paura di parlare dei valori etici e del loro significato, ma quando taglia questo ramo essenziale della crescita della persona trasmette nozioni aride, non parla più del passato, della fatica dell’uomo per crescere, conoscere, trasformare il mondo, appiattisce la storia e il pensiero umano in una sequela di eventi eguali a se stessi, senza fascino, senza capacità di giudizio.
Edoardo Sanguineti diceva che non esistono cattivi maestri, ma soltanto cattivi scolari. Io penso sia vero il contrario, che esistano soltanto cattivi maestri e mai cattivi allievi, soprattutto quando questi sono privati del diritto ad apprendere, impegnarsi, giudicare, valutare e scegliere.
L’età giovanile è, per sua natura, aperta al futuro e alla trascendenza, perché intuisce di avere dentro di sé una energia spirituale che può realizzare traguardi impensabili. Ma se si ignora questa vocazione al futuro e al trascendente, si nega ai giovani la possibilità di realizzare i sogni più ambiziosi che coltivano dentro di sé. È questa, probabilmente, l’eredità più pesante che la crisi delle istituzioni scolastiche e formative degli ultimi decenni ci ha lasciato, perché si nega ai ragazzi il diritto a elaborare un progetto vero per la loro vita, dal quale non siano esclusi la bellezza della fede e la pratica dell’eroismo.
Nella Genesi Dio chiede alla progenie di Abramo l’impegno di «agire con giustizia e diritto» (Gen, 18,19). E nel libro dei Maccabei, Mattatia indica ai suoi figli qualcosa di più, l’impegno per resistere all’ingiustizia, proseguire nelle gesta eroiche dei padri, e ricorda che «coloro che di generazione in generazione hanno fiducia» in Dio non soccombono e non restano delusi (Mac 2, 61).
Chi costruisce un progetto di vita, sa che questo richiede fatica, ma libera dall’insignificanza, comporta dei sacrifici, che però saranno ripagati dai risultati raggiunti e da quell’intima serenità che soltanto la coscienza di avere operato bene può dare all’uomo.L’introduzione del tema della fede nell’educazione dei giovani oggi a più d’uno può sembrare quasi strano. Eppure, l’apertura al futuro, il desiderio di realizzarsi, di fare cose buone e grandi, sono parte integrante di quell’orizzonte della fede cristiana che porta un lievito di gioia e di compiutezza che l’età giovanile più di altre sa apprezzare, perché arricchisce il desiderio di vivere intensamente che esiste nel cuore di chi ha davanti a sé tutta la vita.
Da “Il Bollettino Salesiano” del giugno 2010
RIBALTA GIOVANI
LA COMUNICAZIONE SI FA VIRTUALE
di Alessandra Mastrodonato
Piazze aperte a tutti… Piazze virtuali s’intende. Il social network impazzano, quasi senza controllo, affidati unicamente alla responsabilità degli utenti in maggioranza giovani e giovanissimi. Ma ci sono ormai anche gli adulti.
Msn, facebook, myspace, twitter: se proviamo a interrogare Wikipedia per sapere di che si tratta, scopriremo di avere a che fare con dei “social network”, piattaforme sociali gratuite e aperte a tutti, nate all’alba del terzo millennio, con lo scopo di creare vere e proprie comunità virtuali in cui scambiare messaggi e condividere informazioni, immagini, mp3, video e contenuti di vario genere.
Se lo chiediamo a un giovane, ci risponderà che è il modo più efficace, rapido ed economico per organizzare una serata in pizzeria o una partita di calcetto. Insomma per essere costantemente in contatto con i propri amici (e non solo)!
La comunicazione è, in effetti, un bisogno ineliminabile e, al tempo stesso, una disponibilità a tessere relazioni, che noi giovani manifestiamo con estrema spontaneità e immediatezza. Ma negli ultimi dieci anni il modo in cui comunichiamo è profondamente cambiato.
I social network, ultima e più avanzata mutazione genetica delle chat, hanno stravolto in breve tempo gli stili di vita e i linguaggi giovanili, al punto che anche i radicali cambiamenti prodotti a metà degli anni ’90 dalla rivoluzione degli sms rappresentano ormai un ricordo lontano.
La comunicazione virtuale implica, infatti, atteggiamenti e aspettative del tutto nuovi: non ci rimetti la faccia, non sei costretto a parlare con chi non ti va, il comportamento da tenere non è troppo impegnativo e, qualora avverti noia – mai disagio – , basta disconnetterti, senza correre il rischio di essere tacciato di scortesia. È, inoltre, possibile chattare con più persone contemporaneamente, o intavolare vere e proprie conversazioni multiple, o ancora si può chiacchierare del più e del meno con un amico e nel frattempo aggiornare il proprio stato, postare un link sul proprio profilo, commentare le foto o i video pubblicati da un altro amico o persino giocare a carte con persone che in quello stesso momento sono connesse dall’altra parte del mondo.
Aveva ragione McLuhan quando diceva che “il medium è il messaggio”. E, in effetti, i social network modificano completamente anche i linguaggi e i modi della comunicazione, contribuendo all’elaborazione di una nuova grammatica solo apparentemente priva di regole, ma in realtà basata su una serie di convenzioni non scritte. Una sorta di “codice cifrato” comprensibile solo a chi lo usa, fatto di modi di dire, abbreviazioni ed emoticon, che pretendono di sostituirsi alla comunicazione non verbale e alla sua trasparenza, esprimendo emozioni, stati d’animo e sentimenti di chi scrive.
E fatto anche, a volte, di silenzi. Già, perché spesso noi giovani non conosciamo le mezze misure: giochiamo con le parole, dando libero sfogo a tutto quello che ci passa per la mente, in una sorta di ridondanza espressiva – e talvolta anche dispersiva – della comunicazione, oppure rinunciamo del tutto ad esse, quando avvertiamo il rischio che diventino prive di senso.
Qualcuno ha scritto che “il linguaggio, più di ogni altra cosa, rivela l’uomo”. Ed effettivamente è indubbio che il linguaggio informale e privo di mediazioni che noi giovani usiamo quando chattiamo con i nostri amici riflette il nostro mondo interiore, le nostre categorie interpretative della realtà, il nostro modo di relazionarci con gli altri.
Se consideriamo, però, che la comunicazione virtuale ci consente di mettere uno schermo davanti alla nostra identità, di mostrarci diversi da quello che siamo, di nascondere a chi è collegato dall’altra parte della rete i nostri reali sentimenti e le nostre emozioni più autentiche, fornendo una rappresentazione di noi stessi a volte parziale o fittizia, ci sarebbe da chiedersi fino a che punto questa forma di comunicazione, che ci esonera dal guardare negli occhi il nostro interlocutore e non è capace di riprodurre in alcun modo il calore di un abbraccio, consente di “costruire relazioni”, nel senso più pieno del termine.
Da PiùVoce.net di giovedì 28 maggio 2010
Su un settimanale francese le inquietudini di una ragazza frutto dell`eterologa
IO CERCO MIO PADRE DONATORE DI SEME Nicoletta Tiliacos
Dedicato ai sostenitori della fecondazione eterologa, proibita in Italia e molto praticata altrove. Agathe (nome di fantasia), ha scoperto a ventinove anni di essere stata concepita, come suo fratello, con seme di donatore anonimo. E da allora, ha spiegato a una giornalista del settimanale francese “Le Point” (numero dell’11 marzo scorso), “il cielo mi è caduto sulla testa”. Le capita di ascoltare alla radio una trasmissione su un famoso criminale e immagina che il padre sconosciuto potrebbe esserlo a sua volta. Copre tutti gli specchi della sua casa – come si fa nei Paesi mediterranei quando c’è un lutto – perché non si riconosce più nella propria immagine. Ha come l’impressione di non avere più presa sulla terra, di essere priva di sostanza, di concretezza, di essere volatile e irrilevante. Decide infine di interpellare il Cecos (Centre d’études et de conservation des oeufs et de sperme), anche se sa che la legge francese protegge l’anonimato del donatore, per sapere se e quanti altri fratelli e sorelle ha in giro per il mondo, e anche per sapere se il fratello con cui è cresciuta è nato dallo stesso padre biologico. Dopo molte insistenze e mille telefonate, finalmente le concedono udienza: “Sono stata ricevuta da un medico e da una psicologa di ventidue anni e sono rimasta agghiacciata dal loro dilettantismo. La sola cosa che mi hanno detto è che dovrei andare da uno psicologo. Quanto a mio fratello, ‘che sia un fratello genetico, che cambia?’. E per quello che riguarda il numero di gravidanze realizzate con lo stesso sperma, mi hanno detto che è evidente che la cosa non mi deve interessare”.
Agathe dice che non si vuole dare per vinta, e con suo fratello continuerà la ricerca del padre e di un po’ di verità.
Da Avvenire di mercoledì 2 giugno 2010
VIA IL TERMINE «COMPAGNI» SUI MEZZI DI TRASPORTO
Ora sono «signori» pure i cinesi. Venga il giorno dei «fratelli»
FERDINANDO CAMON
Pare una notizia di colore, che sui mezzi di trasporto la Cina abolisca la parola 'compagno' e la sostituisca con 'signore', invece indica una trasformazione epocale: muore un’idea di società, crolla uno dei cardini dell’ipotesi comunista. Il termine 'compagno' valeva in tutte le società comuniste, costruite o costruende. Quindi anche in Italia tra i militanti del PCI, quando il PCI era un grande partito. Nel mondo comunista, 'compagno' si affibbiava a tutti i ruoli, e dunque tutti i ruoli venivano livellati sullo stesso piano: il 'compagno soldato' salutava il 'compagno generale' su un piano di parità. La parità era nella destinazione: ambedue marciavano, ognuno con le forze che aveva, verso la stessa società, la stessa vita.
Finora in Cina sui trasporti pubblici i passeggeri eran chiamati 'compagni', d’ora in poi i controllori e i conducenti hanno l’obbligo di chiamarli 'signori'. Lo raccontava il 'Corriere' ieri. Che questo avvenga in Cina, stato a vorticoso aumento di produzione, di ricchezza, di condizionamento sul mondo occidentale (anzitutto sull’America), è di enorme importanza, perché coloro che cercano di vedere quale sarà la guida (economica, produttiva, militare) dell’umanità di domani, quando l’America non ce la farà più, indicano che questo ruolo lo svolgerà la Cina. Ognuno di noi, che abbia viaggiato nelle società del comunismo reale, ricorderà l’impatto stridente con il soldato che chiamava l’ufficiale 'compagno colonnello', mentre da noi il non chiamarlo 'signor colonnello' (ma, per esempio, soltanto 'colonnello'), era un’infrazione al regolamento militare e meritava una punizione. Era (è ancora) il problema delle reclute. Abituate, fino a un giorno prima, a dire 'scusi, professore', o, nelle fabbriche, 'scusi, capo', ci mettevano un po’ a inserire il 'signore', per dire 'scusi, signor tenente'. E venivano punite.
Il 'signore' mette una distanza, il 'compagno' la annulla. Col 'signor tenente' tu non tocchi il tenente, ti fermi a tre passi. Col 'compagno colonnello' ti avvicini. Col 'fratello' lo abbracci.
'Fratello' è il termine delle comunità religiose, 'fratello' non indica soltanto una parità nella destinazione, come 'compagno' (andiamo verso l’uguaglianza, lavoriamo per lo stesso traguardo), ma anche una parità nell’origine: tutti siamo stati creati e tutti moriremo, nel viaggio tra quella origine e questa fine ci riconosciamo membri della stessa famiglia. Il 'compagno' valeva nel lavoro: lavoriamo nelle stesse condizioni, per un padrone che è lo Stato cioè noi, quindi non possiamo scioperare, perché noi non possiamo lottare contro di noi. In un mondo di 'compagni' le scuole, le carrozze dei treni, le cabine delle navi, sono tutte uguali, perché noi spartiamo gli stessi beni e gli stessi mali.
Con i 'signori' cambia tutto, i 'signori' stanno al di sopra di chi li chiama così, coloro che lavorano nei mezzi di trasporto adesso si mettono al servizio di coloro che viaggiano. Ci ponevamo da tempo, confusamente (guardare lontano confonde la vista), una questione. Quando è caduta Roma, l’umanità ha perso la sua guida (e Agostino ha scritto 'La Città di Dio', ritenendo che non valesse più la pena guardare sulla Terra). Quando è caduta Costantinopoli, è caduta la seconda Roma.
Quando è finito il comunismo sovietico, la casa editrice Einaudi ha ristampato 'La Città di Dio' nei Millenni, ritenendo che fosse caduta la terza Roma. Le Due Torri non han fatto cadere l’impero americano, ma han mostrato che cadrà, perché è perforabile: le Due Torri stanno all’impero americano come i primi sconfinamenti dei barbari stavano all’impero romano. Il mondo cadrà sotto un’altra influenza. Man mano che si prepara a esercitare quest’influenza, il nuovo mondo dominante prende sempre più le somiglianze col vecchio mondo che sta sostituendo: certo, si tratta di percorrere migliaia di chilometri, e la fine del termine 'compagno' è soltanto un metro. Ma indica la direzione. Comunque, il cambiamento più grande e definitivo avverrà quando tutti gli uomini si chiameranno, gli uni con gli altri, col termine più giusto e più dolce: 'fratelli'.
Da Avvenire di mercoledì 2 giugno 2010
Don Angelo Lolli, la Romagna ha il suo Cottolengo
Il fondatore dell’Opera Santa Teresa ricordato dalla sua terra natale
DI QUINTO CAPPELLI
«Riscoprire don Angelo Lolli, il prete degli abbandonati, nell’Anno sacerdotale ha un doppio significato: conoscere meglio la sua spiritualità, alla radice della carità e del volontariato; attualizzare tale spiritualità da parte di tante persone, sacerdoti, consacrati e laici». È quanto afferma l’arcivescovo di Ravenna-Cervia, Giuseppe Verucchi, indicando alla sua diocesi don Angelo Lolli (1880-1958), fondatore nel 1928 dell’Opera Santa Teresa, il 'Cottolengo della Romagna', come figura emblematica di sacerdote vissuto «per dedicarsi tutto a Dio e al prossimo». A questo proposito è stata fondata la Fraternità di don Lolli, che associa sacerdoti, religiose, laici e famiglie, «per tradurre l’amore per il Signore in amore per gli ultimi». L’Opera è da 80 anni punto di riferimento anche per i non credenti e per molti giovani che qui fanno volontariato, fra cui a metà del ’900 il medico Benigno Zaccagnini, poi noto uomo politico.
L’istituto oggi accoglie 187 ospiti malati gravi, fra cui numerosi sacerdoti di varie diocesi, con una ventina di strutture collegate, fra cui case famiglia e due centri per malati di Aids e traumatizzati gravi, per un totale di 160 ospiti. L’Opera è animata da 20 suore della Piccola Famiglia di Santa Teresa, istituita dallo stesso fondatore, da 173 dipendenti della cooperativa sociale Terzo Millennio e da un centinaio di volontari.
Dall’Opera dipendono anche una farmacia e un poliambulatorio, con 20 specialisti. Inoltre, sono partiti i lavori per una succursale a Faenza, in collaborazione con la diocesi locale. Commenta il direttore don Matteo Solaroli: «Siamo convenzionati con la Provvidenza, che continua ad aiutarci, perché non riceviamo alcuna sovvenzione pubblica«. Da 35 anni «Santa Teresa» è anche la casa del cardinale Ersilio Tonini, «un ospite fra gli ospiti», che così commenta nella prefazione al libro Don Angelo Lolli, maestro di solidarietà di don Enzo Tramontani: «Considero questa fortuna un privilegio pregiatissimo. Qui ho avuto modo di respirare a polmoni larghi il fervore della spiritualità tuttora vivissima del suo fondatore. Per essere la casa dei poveri e dei più deboli, l’ho sempre venerata come il luogo della compiacenza del nostro Dio e un po’ come lo specchio più terso, ove è dato di scorgere le linee autentiche del volto genuino di Cristo Signore».
Nato a Ravenna nel 1880 dal bracciante Orlando e dalla lavandaia Alba, «il monello di Dio» Angelo Lolli a 10 anni entra nel Seminario di Ravenna ed è ordinato sacerdote nel 1903 dall’arcivescovo Guido Maria Conforti, fondatore dei Saveriani e oggi beato. Dopo varie attività pastorali, nel 1928 fonda l’Opera Santa Teresa, per la quale si spese poi fino alla morte, nel 1958. Di Lolli è in corso la causa di beatificazione, mentre in diocesi si stanno riproponendo i suoi Colloqui con Dio, due volumi di Alessandro Pronzato presentati e commentati dal francescano padre Dino Dozzi, direttore dell’Ufficio diocesano cultura.
Conclude la superiora delle suore di Santa Teresa, Anna Morandi: «In questo Anno Sacerdotale invochiamo l’intercessione del servo di Dio perché i sacerdoti siano infiammati del suo stesso desiderio di santità e di amore per gli ultimi»
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