da Avvenire di martedì 15 giugno 2010
Angelus di Benedetto XVI domenica 13 giugno 2010
«I PRETI, OPERAI DELLA CIVILTÀ DELL’AMORE»
Cari fratelli e sorelle!
Si è concluso nei giorni scorsi l’Anno Sacerdotale.
Qui a Roma abbiamo vissuto giornate indimenticabili, con la presenza di oltre quindicimila sacerdoti di ogni parte del mondo. Perciò, oggi desidero rendere grazie a Dio per tutti i benefici che da questo Anno sono venuti alla Chiesa universale.
Nessuno potrà mai misurarli, ma certamente se ne vedono e ancor più se ne vedranno i frutti.
L’Anno Sacerdotale si è concluso nella solennità del Sacro Cuore di Gesù, che tradizionalmente è la «Giornata di santificazione sacerdotale»; questa volta lo è stata in modo del tutto speciale.
In effetti, cari amici, il sacerdote è un dono del Cuore di Cristo: un dono per la Chiesa e per il mondo. Dal Cuore del Figlio di Dio, traboccante di carità, scaturiscono tutti i beni della Chiesa, e in modo particolare trae origine la vocazione di quegli uomini che, conquistati dal Signore Gesù, lasciano tutto per dedicarsi interamente al servizio del popolo cristiano, sull’esempio del Buon Pastore. Il sacerdote è plasmato dalla stessa carità di Cristo, quell’amore che spinse lui a dare la vita per i suoi amici e anche a perdonare i suoi nemici.
Per questo i sacerdoti sono i primi operai della civiltà dell’amore. E qui penso a tante figure di preti, noti e meno noti, alcuni elevati all’onore degli altari, altri il cui ricordo rimane indelebile nei fedeli, magari in una piccola comunità parrocchiale. Come è accaduto ad Ars, il villaggio della Francia dove svolse il suo ministero san Giovanni Maria Vianney. Non c’è bisogno di aggiungere parole a quanto è stato detto su di lui nei mesi scorsi. Ma la sua intercessione ci deve accompagnare ancora di più da ora in avanti. La sua preghiera, il suo «Atto di amore» che tante volte abbiamo recitato durante l’Anno Sacerdotale, continui ad alimentare il nostro colloquio con Dio.
Un’altra figura vorrei ricordare: don Jerzy Popieluszko, sacerdote e martire, che è stato proclamato beato proprio domenica scorsa, a Varsavia. Ha esercitato il suo generoso e coraggioso ministero accanto a quanti si impegnavano per la libertà, per la difesa della vita e la sua dignità. Tale sua opera al servizio del bene e della verità era un segno di contraddizione per il regime che governava allora in Polonia. L’amore del Cuore di Cristo lo ha portato a dare la vita, e la sua testimonianza è stata seme di una nuova primavera nella Chiesa e nella società. Se guardiamo alla storia, possiamo osservare quante pagine di autentico rinnovamento spirituale e sociale sono state scritte con l’apporto decisivo di sacerdoti cattolici, animati soltanto dalla passione per il Vangelo e per l’uomo, per la sua vera libertà, religiosa e civile. Quante iniziative di promozione umana integrale sono partite dall’intuizione di un cuore sacerdotale!
Cari fratelli e sorelle, affidiamo al Cuore Immacolato di Maria, di cui ieri abbiamo celebrato la memoria liturgica, tutti i sacerdoti del mondo, perché, con la forza del Vangelo, continuino a costruire in ogni luogo la civiltà dell’amore.
da Avvenire di martedì 15 giugno 2010
ABBIAMO MAI PROVATO A «DISTURBARE» IL SIGNORE?
La testimonianza di un prete presente in Piazza san Pietro durante la Veglia con il Santo Padre giovedì 10 giugno
don Nicolò Anselmi don.nico@liebro.it
Ho avuto il dono di poter partecipare alle giornate conclusive dell’Anno Sacerdotale indetto in occasione del 150° anniversario della morte del santo Curato d’Ars; la veglia di preghiera di giovedì sera e la Concelebrazione eucaristica di venerdì 11 sono stati due momenti indimenticabili. Durante la veglia ho sentito in modo quasi palpabile la presenza di Dio. Il Papa si è rivolto alle migliaia di sacerdoti presenti con una grande carica di affetto e di paternità; mi sono sentito consolato e amato; molti preti erano giovani. Il Santo Padre ha parlato con il cuore; in mano teneva un plico di fogli scritti ma non li ha mai consultati. Penso che ogni prete presente abbia ricevuto, dalle parole del Papa, una piccola luce sul proprio ministero; per quanto mi riguarda so, dalla mia esperienza e dall’esperienza di tanti confratelli, che la pastorale giovanile richiede tempo; spesso i preti giovani hanno molti incarichi, sono stanchi e stressati. Il Papa ha ricordato che ai preti non è chiesto di fare tutto, è chiesto di seguire il Signore, di vivere con fede, colmi di gioia, di essere capaci di parlare di Gesù e con Gesù.
Il Santo Padre ci ha detto che per conoscere Gesù è necessario pregare, dedicare tempo ed energia allo «stare con il Signore», ad ascoltare la sua voce e a «disturbarlo» con le nostre preghiere. Benedetto XVI è stato straordinariamente profondo e semplice. Ha parlato di comunità cristiane, di parrocchie come di veri luoghi di fede, dove si respira il Vangelo e l’amore, dove i giovani possono crescere, ascoltare la voce di Gesù e scoprire la vocazione. A un certo punto il Papa, rivolgendosi ai 15.000 preti e citando san Carlo Borromeo, ha parlato della necessità di riposare, di prendersi cura della propria anima; a queste parole è esploso un applauso. In piazza San Pietro, giovedì sera si respirava l’amore di Dio; a un certo punto l’amore si è reso presente perché abbiamo vissuto un momento di Adorazione eucaristica. Ho sfruttato l’occasione per pregare per don Mimmo, il sacerdote con cui collaboro, che era in Terra Santa con un gruppo di giovani, per i miei compagni di seminario, la mia famiglia, le persone a me care, per il mondo.
I canti e le preghiere hanno fatto da cornice ad un silenzio profondo. Gli occhi e il cuore delle 20.000 persone presenti sembravano essere rivolti completamente verso Gesù; dal cielo blu si udiva solo il gracchiare di un gabbiano che volteggiava, portato dal vento: mi è sembrata per un attimo la colomba dello Spirito Santo che compiaciuto guardava dall’alto la sua Chiesa:preti, vescovi, laici, uomini e donne, bambini, ragazzi, giovani e adulti, suore e consacrati; una famiglia la cui vita è attraversata da gioie e da sofferenze ma che è sempre bella, adorante e stretta intorno al suo Signore. I due incontri con il Papa e i confratelli mi hanno rigenerato.
da Avvenire di martedì 15 giugno 2010
LE ESEQUIE DI MONSIGNOR PADOVESE
IL CHICCO DI GRANO E LE PIETRE DEL VANGELO
FRANCESCO OGNIBENE
Nella nitidezza tagliente del Vangelo, è una condizione assoluta di efficacia: se il chicco di grano non muore» «rimane solo», il frutto lo dà «se invece muore». È così in natura, l’evidenza nota a tutti che occorre un sacrificio perché ci sia pane.Un linguaggio aspro, a sentirlo echeggiare com’è accaduto ieri ieri sotto le volte del Duomo di Milano davanti al feretro di monsignor Luigi Padovese, il vescovo dell’Anatolia brutalmente ucciso in circostanze non ancora chiarite.
Al cardinale Tettamanzi, amico di Padovese e pastore della Chiesa ambrosiana di cui il vescovo cappuccino era figlio, l’immagine evangelica è sembrata la misura esatta di una morte tragica e impensabile, destinata – nelle parole della sua bella omelia – a dare speranza e non a negarla.
È la logica del chicco di grano, paradossale ma necessaria, a documentare che occorre spingere lo sguardo oltre il dolore per un sacrificio che appare insensato, fine a se stesso. Come si possa entrare in questo orizzonte interamente cristiano l’hanno afferrato le migliaia di milanesi che ieri hanno stipato la cattedrale – un lunedì mattina, nella metropoli febbrile –, insieme a decine di loro parroci, come spinti dall’intuizione che in quel rito non solo avrebbero reso omaggio a un pastore pronto a dare la vita per il suo popolo ma gli sarebbe divenuto evidente un segreto della loro stessa fede. Una meditazione sulla chiamata cristiana e le sue esigenze, racchiusa nel seme che dà vita ad altri semplicemente perché è pronto a lasciare sé stesso nella terra e generare così una realtà tutta nuova.
La dedizione al Vangelo – quella del missionario come del cristiano qualsiasi – è tutta segnata dalla prontezza a farsi chicco pieno di vita, minuscolo ma decisivo: nessun’ansia di crociata (com’è pure capitato di leggere nei giorni scorsi), niente caricature remissive di una fede invece sempre e ovunque esigente, a Milano e in Turchia. La serietà della vocazione cristiana sta tutta nelle parole che Tettamanzi a un certo punto ha scandito, a pochi metri dalle spoglie di un vescovo ucciso per motivi oscuri: «Vogliamo accogliere e affrontare – ha detto, facendosi carico delle lacrime e degli impegni di tutti – la sfida di essere sempre più coscienti della nostra identità cristiana e di saper offrire, senza alcuna paura, sempre e dappertutto, la testimonianza di una vita autenticamente evangelica: amando Cristo e ogni uomo 'sino alla fine'».
Finché ci saranno in giro per le nostre città e per il mondo cristiani capaci di questa mite fermezza, di questa fibra umile e tenace, la speranza può ancora essere l’esito inaudito persino di un sacrificio efferato, che non domanda vendetta, o rivincita, ma verità e coerenza. Da Iskenderun – a due passi da Tarso – è risuonata sotto le volte del duomo milanese la voce di una chiamata che riguarda tutti, resa una volta ancora credibile e vera dal sangue, com’è sempre stato nel diario di famiglia della Chiesa.
Ecco perché – sono ancora parole del cardinale Tettamanzi – occorre sentirsi legati alla Chiesa di Turchia e di tutto il Medio Oriente, la Chiesa delle origini e delle radici, oggi «in modo ancora più profondo e particolare». La testimonianza coraggiosa e lieta di un drappello di cristiani che dall’Anatolia a Gerusalemme presidia le pietre della memoria cristiana, e che sembra doverci ricordare quei Dodici della prima ora, parla in realtà a ciascuno di noi, cristiani cresciuti sulle loro spalle, pronti a lesinare su quasi ogni capitolo della fede sino a inciampare su un chicco di grano che, morendo, proprio non ci dà tregua.
Monsignor Padovese aveva messo in conto di poter essere chiamato a dare la vita: ma non è forse vero che questo vale per ogni battezzato, nei modi in cui oggi il relativismo ci tende i suoi suadenti tranelli? Il frutto verrà, questo è certo: ma solo se quel seme, preparato per schiudersi, troverà terreno fertile nel nostro vivere.
da Avvenire di venerdì 18 giugno 2010
IL CRISTIANESIMO E LA «TRIBOLAZIONE NEL MONDO» CONTRO LA TENTAZIONE DI CEDERE AL PESSIMISMO
CARLO CARDIA
A volte, nei momenti difficili della storia del cristianesimo c’è la tentazione di cedere al pessimismo. Di recente la tentazione si è avvertita più forte in interventi che sottolineano il rischio di un declino del cristianesimo, con argomenti un po’ confusi e affastellati. Secondo una certa lettura, la secolarizzazione1 falcidia il cattolicesimo occidentale, e il cristianesimo rischia di scomparire nel Medio Oriente per la morsa del fondamentalismo islamico, che anche in Africa sta contendendo ai cristiani ogni possibile spazio. Le Chiese hanno poi le loro colpe, i protestanti degli Stati Uniti sono spesso ripiegati in una visione negativa e a-storica della realtà, la Chiesa cattolica ha constatato l’infedeltà di alcuni suoi membri; ancora, il cristianesimo è sulla difensiva in Oriente per l’ostilità di estremisti indù, per l’aggressività di settori islamici e perduranti avversioni ideologiche.
Infine, secondo una riflessione condotta sul filo del paradosso da Ida Magli nei giorni scorsi, i cristiani non rendono testimonianza a Gesù, quasi lo dimenticano, riducono la fede al compimento di opere buone ma prive dell’afflato spirituale che è l’essenza del cristianesimo.
In questo modo pezzi di verità si alternano a singolari silenzi, le glorie dei cristiani come il martirio e le persecuzioni sono considerate passività, e filtra quasi un rimpianto per quella Chiesa trionfante (Ecclesia triumphans ) che ci è stata consegnata dall’iconografia del passato. Si perde di vista, però, la novità epocale in cui siamo immersi, per la quale la storia umana è divenuta planetaria e universale, e il cristianesimo ne patisce i limiti e le sofferenze ma ne vive anche le gioie e i traguardi.
Occorre vedere le cose un po’ da lontano per una giusta prospettiva di valutazione.
Da poco tempo è scomparso il comunismo 'realizzato' che ha dominato per decenni parti importanti d’Occidente, e le Chiese cristiane (cattolica, ortodossa, protestanti) sono rifiorite nel cuore di popolazioni quasi cancellate dalla mappa delle religioni.
Cattolici e ortodossi hanno fatto grandi passi in avanti per superare una storia secolare di divisioni e di conflitti, e rinsaldare un legame forte che dia speranza ai cristiani di tutto il mondo.
In Africa la religione cristiana, pur con diverse denominazioni, si è diffusa come mai era accaduto, e vive la concorrenza con l’islam, in alcuni casi drammatica, in altri con forme accettabili di convivenza. Il martirio e le persecuzioni rattristano e spingono ad agire perché non si ripetano, ma sono anche il segno più grande di un cristianesimo vivo, forte e radicato nella fede, come tante volte in passato. Anche la secolarizzazione europea e un certo pessimismo del protestantesimo americano sono il frutto di situazioni storiche nuove, che non sono chiuse e cristallizzate nel tempo. Insomma, al quadro tutto opaco cui si tende a indulgere può sostituirsi un caleidoscopio più complesso, per certi aspetti ricco di speranze.
Dove, invece, non si può cedere al pessimismo è quando si parla del declino della figura, e della parola di Gesù. Se così fosse, per chi crede veramente, secondo il monito di Paolo, tutto sarebbe già perso. Ma non è così, né agli occhi della ragione né a quelli della fede. I cristiani possono sbagliare, le Chiese hanno commesso errori nella storia, e la storia stessa condiziona le Chiese. Ma senza la presenza di Gesù di Nazaret, e la fede totale in lui di milioni e miliardi di uomini nel corso dei tempi, il mondo come è oggi non esisterebbe, non avremmo avuto quel cammino tumultuoso e splendido che l’umanità ha fatto in duemila anni, che sono come «un soffio agli occhi di Dio» e di fronte alla storia. Alcune visioni apocalittiche dei primi tempi del cristianesimo hanno preannunciato i guasti che si determinano quando ci si allontana dalla parola di Dio, e gli uomini spesso li verificano direttamente. Però, secondo la sua parola, Gesù sarà con noi sino alla fine dei secoli; egli ha parlato delle «tribolazione nel mondo» ma ha chiesto fede perché «io ho vinto il mondo» (Gv, 16, 33) e perché io sarò «con voi tutti i giorni», fino alla fine dei secoli ( Mt, 28, 20).
Forse il più grave peso che oggi portano i fedeli in Gesù Cristo è la loro divisione e una rinnovata unità cambierebbe ancora la storia dell’umanità. Le difficoltà del tempo presente, però, non devono attenuare la fiducia, in certa misura devono accrescerla perché Gesù non è venuto per conservare l’esistente, ma aiutare l’uomo a crescere in fede e conoscenza e fare dell’umanità una famiglia unita nel rispetto della legge di Dio, nell’amore per il prossimo e la vita in ogni sua manifestazione. Il traguardo è lungi dall’essere raggiunto, ma il cristiano deve respingere il pessimismo, convinto che non trionferà il male.
1 Definizione di secolarizzazione
Con “secolarizzazione” si intende un processo che ha caratterizzato soprattutto i paesi occidentali in età contemporanea e ha portato al progressivo abbandono degli schemi religiosi e di un comportamento di tipo sacrale. Secondo le teorie della secolarizzazione, la modernità si accompagnerebbe inseorabilmente al declino del sacro, il quale sarebbe inversamente proporzionale all’aumento del progresso, alla diffusione dell’istruzione, ai processi di urbanizzazione e industrializzazione.
Tratta da: Jurgen Habermas - Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), Ragione e fede in dialogo, a cura di G. Bosetti, Marsilio, 2005
da Avvenire di venerdì 18 giugno 2010
BADANTI, SERBATOIO DI LAVORO NERO
È un lavoro a tutti gli effetti ma, troppo spesso, non è considerato tale. E a farne le spese sono immigrate con stipendi bassissimi
DA ROMA LUCA LIVERANI
Attenzione: il settore dell’assistenza domestica rischia di essere «il ventre molle dell’immigrazione». Se non viene regolamentato, avverte il sociologo Maurizio Ambrosini, resta un serbatoio di irregolarità. Perché conviene - almeno all’inizio - alle lavoratrici che col salario spesso ottengono anche un alloggio ed evitano controlli. E ai datori di lavoro che risparmiano.
Il professor Ambrosini segnala la falla nel sistema al seminario Acli sul progetto del Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati: per gli italiani una campagna per ricordare che è un lavoro vero che merita considerazione ed esige diritti, per le immigrate percorso di formazione a Udine, Roma e Napoli con corsi di italiano, informatica, parainfermieristica, autoimprenditorialità.Per il sociologo dunque «è un mercato del lavoro ampiamente irregolare, sia contrattualmente che per gli ingressi, visto che pochi assumono un lavoratore all’estero senza conoscerlo», come vorrebbe la legge. «Entrano regolarmente con un permesso turistico temporaneo e trovano un impiego che garantisce spesso anche l’alloggio», al riparo «dai controlli delle autorità».
Vantaggi che li spingono ad accettare stipendi bassissimi e in nero. «Se non cambia il sistema – dice il sociologo – la sacca dell’irregolarità continuerà a riprodursi e le sanatorie, magari travestite da flussi, si ripeteranno ». Loro, colf e assistenti, riescono a mandare a casa «tra il 50 e il 90% della paga», dice Cristina Mazzacurati, ricercatrice all’Orientale di Napoli.
«E il pil della Moldavia – rivela – per il 97% è costituito dalle rimesse degli immigrati». Il rapporto con la famiglia spesso è ambiguo: «Accolta spesso come un membro, ma non di rado sfruttata, l’assistente si licenzia perché trova di meglio, s’è regolarizzata, o ricongiunta con la sua vera famiglia.
E viene considerata una traditrice. Più che la fine di un rapporto di lavoro, è vissuta come un divorzio». Quello delle assistenti, dice il presidente delle Acli Andrea Olivero, «è un vero lavoro, svolto da donne che hanno lasciato la famiglia per assisterne un’altra, spesso non riconosciuto come tale».
da Avvenire di venerdì 18 giugno 2010
Il cardinale vicario Vallini al Convegno diocesano: segnali di divaricazione tra fede dichiarata e vissuta
SALVARE LA DOMENICA «GIORNO DELLA FAMIGLIA»
«È necessaria un’inversione di tendenza, che incoraggi stili di vita alternativi, educando a una maggior sobrietà nei consumi»
DA ROMA ANGELO ZEMA
«La pratica dell’aborto, gli abusi sessuali e le violenze morali, l’uso e lo spaccio delle droghe, i fallimenti matrimoniali, il tasso di litigiosità e di intolleranza, invidie e gelosie, il disimpegno nei doveri, l’idolatria del denaro e del potere, lo sfruttamento dei prestatori d’opera, il disinteresse verso poveri, immigrati, anziani, la speculazione negli affitti, l’evasione fiscale»: un triste elenco di «evidenti e gravi controtestimonianze» nella capitale.
Le definisce così il cardinale Agostino Vallini, vicario di Roma, nella relazione al Convegno diocesano che ha seguito l’intervento del Papa (pubblicato ieri integralmente da Avvenire) e prepara il terreno alle assemblee parrocchiali, tappa conclusiva della tre giorni. Gli oltre duemila presenti nella Basilica di San Giovanni in Laterano, mercoledì sera, lo applaudono.
Concordi nell’analisi del «contesto culturale divenuto non solo largamente indifferente ma nel quale cresce un atteggiamento e forse uno spirito di distanza, di allontanamento, che talvolta diventa sprezzante, quando non apertamente ostile alla Chiesa».
E consapevoli che, di fronte ai «segnali forti di marcata divaricazione tra la fede dichiarata, anche da parte di chi partecipa all’Eucaristia domenicale, e la vita concreta», la «vera forza è quella della testimonianza».
Con un’attenzione, un’accoglienza dell’altro che partano dal culmine della vita cristiana, una Eucaristia vissuta.
E proprio su questo rapporto tra l’Eucaristia, specialmente quella domenicale, e la testimonianza della carità si è articolata la riflessione di oltre 300 parrocchie romane in quest’anno pastorale, analizzata poi nella relazione del cardinale vicario Vallini con alcune proposte concrete da discutere nelle assemblee. Al centro, il rilancio della formazione, una «sfida da affrontare» per una catechesi eucaristica sistematica e per un’adeguata animazione della carità.
Raccogliendo le indicazioni fornite da Benedetto XVI, Vallini sottolinea che «la questione pastorale di fondo resta l’incontro con Cristo e dunque la riscoperta della fede».
Ed esorta a «salvare» la domenica come «il giorno della famiglia» in cui «curare le relazioni interpersonali», di fronte alle difficoltà provocate da «stili di vita indotti soprattutto dal consumismo» e da un sentire collettivo per cui «la domenica è percepita da molti come l’ultimo giorno del week-end e per altri, al contrario, è un giorno soggetto alla dura servitù del lavoro».
Come salvarla?
Con un’«inversione di tendenza» che incoraggi «stili di vita alternativi, educando ad una maggiore sobrietà nei consumi» e promuovendo «giornate comunitarie».
Per una formazione alla testimonianza della carità, afferma Vallini, «la prima azione pedagogica è la celebrazione eucaristica».
Da curare con attenzione in tutti i suoi aspetti, per esempio attraverso un gruppo liturgico. Dando vita ad una «catechesi programmata e ben preparata» che offra le verità essenziali del mistero eucaristico, sia attraverso gli itinerari di formazione ordinari sia con altri momenti (esercizi spirituali, adorazione eucaristica, settimane eucaristiche).
A questo impegno va affiancata la cura per lo «sviluppo umano e spirituale dei cristiani» verso uno stile di vita improntato alla «ospitalità del cuore». Così da far crescere il tanto bene già presente. Infatti, conclude Vallini, «non mancano cristiani il cui vissuto nascosto irradia vera carità nei rapporti personali, nelle famiglie, nei luoghi di dolore, negli ambienti educativi, di formazione culturale e di lavoro e in mille altre situazioni di vita».
da Avvenire di giovedì 17 giugno 2010
IL GRANDE NULLA IN QUEL RONZIO CONFORMISTA
Macché «vuvuzelas» Ridateci la tromba del Filadelfia
UMBERTO FOLENA
Ronzano. Come uno sciame di vespe in perenne eccitazione sopra una torta di mirtilli.
Ricordano gli angosciosi muggiti delle macchine distruttrici degli invasori marziani della 'Guerra dei mondi'. Un cupo suono insistente, pieno, pienissimo, assordante; eppure vuoto.
Le vuvuzelas non sono semplici trombette con le quali alcune migliaia di sciagurati pensano di allietare le partite del Mondiale sudafricano. Sono la colonna sonora della consumerist society, la società di consumatori dove tutti dobbiamo essere diversi, in competizione, ma tutti finiamo per diventare uguali, irregimentati.
Narrano le antiche cronache pedatorie che al Filadelfia il Toro corricchiava, annoiato, quasi scherzando con i malcapitati avversari. Ad un certo punto un mitico trombettiere intonava una carica che tra gli spalti doveva spiccare formidabile e tremenda, come una sorta di sentenza. E lo era. A quel punto Valentino Mazzola si rimboccava letteralmente - le maniche della casacca granata, cambiava ritmo, chiamava i compagni alla pugna e i palloni grandinavano in area.
Realtà o leggenda, le vuvuzelas sono l’esatto contrario. Stanno alla tromba del Filadelfia come uno scipito junk-food sta alle prelibatezze dello chef.
Intanto è un suono indifferente. C’è sempre. Che la partita entusiasmi o languisca, che provochi emozioni o sbadigli, le vuvuzelas procedono come zombi senz’anima né spirito critico con il loro ronzio ossessivo. Le vuvuzelas sono indifferenti alla partita, che è come se non ci fosse.
Sono un rumore di fondo, analogo al tumb-tumb da discoteca fracassona. Sono un inno al conformismo più bieco. Infine, peggio ancora, emettono una nota sola, sempre la stessa, ossessiva: sono la rappresentazione sonora del pensiero unico, o meglio del pensiero piatto, o se preferite del nonpensiero, ossia dell’esatto contrario del pensiero: dell’azione pura e semplice priva di scopo. Perché suono? Che domanda, suono perché suono.
Le vuvuzelas segnano la grande contraddizione della consumerist society. Gli spettatori - li vediamo bene - fanno di tutto per distinguersi: si pitturano il viso, indossano casacche personalizzate, s’infilano parrucche improbabili. A ben vedere sono davvero tutti gli uni diversi dagli altri.
Ma immersi nella brodaglia ronzante delle vuvuzelas, scompaiono, sommersi dal Grande Nulla del ronzio.
Le vuvuzelas sono un blob sonoro che tutto ingurgita.
A questo punto vien da domandarsi: ma allora perché la gente ci soffia dentro fino allo sfinimento? Semplice: per esserci.
L’importante è non è suonare qualcosa, ma far rumore tutti insieme, partecipare al rito collettivo ed 'esserci'. E poter dire un giorno: io c’ero, dentro quel ronzio c’ero anch’io, esattamente come c’ero dentro tutti gli sciami della consumerist society: la coda in autostrada per le vacanze, la folla all’ipermercato il giorno delle offerte, eccetera.
La vuvuzela - chiedendo scusa al maestro Claude Lévy-Strauss - è un oggetto totemico che segna indelebilmente i Mondiali in quanto sudafricani.
Il resto è dettaglio. Le vuvuzelas rompono le scatole? Non ne possiamo più?
Provocano emicranie e irritazione?
Dettagli. E pensieri pericolosi di chi non apprezza la grande marmellata della consumerist society. Se non ti vuvuzelli rimani libero, ma passi anche per un pericoloso anticonformista di cui diffidare. E chi ti credi di essere, per pretendere di pensare e parlare in un mondo di uomini-trombetta?
da E’ Vita supplemento di Avvenire di giovedì 17 giugno 2010
TEENAGER & SESSO SICURO, FISSAZIONE ANCHE IN VACANZA
A volte ritornano.
Puntuale come la fine delle scuole e la pagella, ecco la nuova campagna per il sesso sicuro in vacanza firmata della Sigo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia.
Lanciata con le fanfare ieri in una libreria romana, con tanto di patrocinio del Dipartimento della Gioventù, la nuova campagna, che ha l’obiettivo dichiarato di ridurre i picchi estivi di gravidanze indesiderate tra i giovanissimi, è un sapiente mix di lusinghe (test e giochi interattivi sul Web), volantinaggio (distribuzione di depliant in dieci città per un’intera settimana, a cavallo di Ferragosto), prodotti editoriali (l’edizione 2010 di «Travelsex», la guida al sesso sicuro edita da Giunti) e di demagogia spicciola.
Un esempio per tutti si ricava leggendo lo scoppiettante comunicato diffuso alla stampa: «I ragazzi potranno giocare e conquistarsi il Passaporto dell’amore sicuro, uno strumento che certifica le loro competenze sulla sessualità». Un altro esempio: nel sito si può effettuare un test, la cui quarta domanda è all’incirca: «Stai preparando lo zainetto per le vacanze: porta con te quattro di questi otto oggetti», tra i quali spiccano i preservativi. Se per caso chi risponde 'dimentica' l’oggetto in questione, apriti cielo: «Attenzione – avvisa il sito –. Hai scordato qualcosa che potrebbe costare molto caro. Provvedi subiti e ricordati di usarlo sempre».
Insomma, a parte ogni altra considerazione, la campagna per il sesso sicuro si trasforma in un gigantesco spot a condom e pillole, che di certo non spiacerà alle industrie produttrici...
«La mia valutazione? Negativa», esclama Michele Barbato, fondatore a Milano del Camen (Centro (A.Ma) ambrosiano per i metodi naturali) e presidente dell’Istituto europeo di educazione familiare, un network di 40 associazioni dal Portogallo alla Russia. «Di fatto è una campagna che si ammanta di scientificità ma che sostanzialmente è marketing farmaceutico». Piuttosto pesante, come valutazione. «Be’, mi piacerebbe sapere chi finanzia tutto questo, non vorrei scoprire che dietro ci sono case farmaceutiche», continua sospettoso Barbato.
Ma perché i dubbi sulla scientificità della campagna? «Perché ormai è provato che laddove si fa solo informazione al sesso sicuro senza educazione alla sessualità, si ottiene esattamente il risultato opposto a quello desiderato.
È stato dimostrato che nelle scuole americane in cui si svolgevano programmi di sola informazione, a contenuto tecnico, le gravidanze tra le ragazze erano più alte rispetto alle scuole in cui i corsi non si erano tenuti». Non solo: secondo Barbato, è come se la Sigo volesse sostituirsi ad altre agenzie educative, come la scuola e le famiglie. «Ma una società scientifica che si voglia porre come soggetto educante dovrebbe riflettere sul fatto che i ragazzi hanno bisogno sì di informazione, ma soprattutto di educazione».
Quando Barbato e gli altri operatori del Camen vanno nelle scuole di Milano e provincia a parlare con gli studenti («istituti pubblici», specifica) intercettano il loro «bisogno enorme di capire ciò che la natura suscita dentro di loro».
E la supposta ignoranza dei ragazzi, punto forte su cui fanno leva le campagne della Sigo? «È vero che hanno le idee confuse – conferma Barbato –. Alle medie capisco che le domande dei ragazzi sono dettate da letture pornografiche e film per adulti. Alle superiori ci sono già le esperienze. Ma i ragazzi hanno bisogno sì di chiarezza, ma insieme di essere aiutati a vivere in serenità la sessualità dentro un progetto educativo. Se i genitori non collaborano a questo progetto, ci deve essere la scuola, gli insegnanti. L’educazione alla sessualità deve essere trasversale, coinvolgere tutte le discipline. Quando parlo di educazione, intendo il riconoscere all’altro un valore invalicabile.
Ecco, se gli adulti parlano ai giovani solo di preservativi e pillole, mi chiedo, dov’è l’altra persona?». Già, dov’è?
da Avvenire di mercoledì 16 giugno 2010
PARROCCHIA, «CASA COMUNE» DI CHI VA A CATECHISMO
La pedagogista Moscato: diamo ai bambini comunità concrete di riferimento alternative alla realtà virtuale da BOLOGNA Stefano Andrini
«Ogni bambino che accede al catechismo in parrocchia dovrebbe percepire di avere incontrato lì una nuova 'casa comune', una comunità concreta di appartenenza possibile, di adulti e di giovani e di adolescenti. Oggi a una parrocchia urbana può essere chiesta di fatto la stessa vocazione missionaria di uno sperduto avamposto nel deserto. E paradossalmente l’educazione diventa il primo oggetto di missione». Lo ha affermato Maria Teresa Moscato, docente di pedagogia all’Università di Bologna, nella sua relazione al convegno nazionale degli uffici catechistici diocesani.
Nel suo intervento la Moscato ha tratteggiato gli elementi dell’emergenza educativa. Tra questi la diffusione delle realtà virtuali. «Oggi può accadere che sia l’orizzonte mediatico a conferire significato alle relazioni familiari: anche la scuola quindi e gli ambiti ecclesiali, vengono ridefiniti da fiction accattivanti, in cui preti, suore, o professoresse di italiano, operano soprattutto da investigatori – e con incredibile successo». Secondo la docente la crescente tendenza a instaurare relazioni via internet, in chat in cui è possibile nascondere la propria reale identità fa pensare ad una sorta di mutazione antropologica. «La virtualità spalanca mondi lontani e scavalca, almeno apparentemente, ogni difficoltà d’ordine materiale che si dovrebbe affrontare nel quotidiano.
Questi elementi ci pongono di fronte a generazioni infantili che hanno stili cognitivi e dinamismi emozionali apparentemente diversi da quelli delle generazioni precedenti». Ma soprattutto sembrano mancare (o tardare a svilupparsi) alcune strutture dell’apparato dell’Io, essenziali per la socialità matura, ma costitutive anche della religiosità.
In questo quadro, che cosa può significare il rinnovamento dell’iniziazione cristiana? «Insisto – ha concluso la pedagogista – sulla forza educativa del testimone adulto: è sempre un 'volto umano' che media il Volto divino nella sua persona, ed è anche il suggeritore, l’orientatore della 'direzione dello sguardo'.
Nella nota figura dantesca del sorriso di Beatrice e dell’ascesa di Dante al Paradiso, guardando negli occhi di lei quel sole verso cui egli non può rivolgere direttamente lo sguardo – metafora teologica e pedagogica – si evidenzia come il problema non sia che cosa dice l’adulto, ma piuttosto, e soprattutto, dove guarda».
sabato 19 giugno 2010
PORTAPAROLA 19 GIUGNO 2010
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