domenica 14 marzo 2010

Il Vangelo della Domenica

Il ritorno del figliol prodigo, Bartolomé Esteban Murillo c. 1667 - 1670

È la vera fiducia che libera dal male

di Ermes Ronchi


il vangelo

IV Domenica di Quaresima Anno C (...) Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli cor­se incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: « Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di es­sere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: « Presto, portate qui il ve­stito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’a­nello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo fe­sta, perché questo mio fi­glio era morto ed è torna­to in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E comin­ciarono a far festa. (...)


Ogni volta davanti a questa parabola mi si allarga il cuore, sento gioia e un grande stu­pore. Qui sento palpitare il cuore di Dio, e tutto il mio vagabondare nel buio.

Il centro della parabola è un Padre buono, che ama sen­za misura, in modo illogi­co, quasi ingiusto, forte co­me una roccia nel saper at­tendere, dando fiducia e li- bertà, e tenero come una madre nel saper accoglie­re.

Questo Padre buono non vuole una casa abitata da servi, obbedienti e scon­tenti, ma da figli liberi, gioiosi e amanti. Il suo dramma sono due figli che non si amano, forse perché non si sentono amati, forse perché si credono servi.

Il più giovane se ne va, un giorno, in cerca di felicità. Il Padre non si oppone, non è mai contro la mia libertà, non la limita, anzi: « se c’è u­na preferenza nell’amore­passione è proprio verso la pecorella smarrita, perché essa, abbandonando le co­modità dell’ovile, si avven­tura a sperimentare fino in fondo la sua libertà » ( G. Vannucci).

Il giovane parte e fa naufra­gio, il libero ribelle diventa schiavo. Eppure nel mo­mento in cui la notte è più profonda, lì comincia a spuntare il giorno: « allora rientrò in se stesso: io qui muoio di fame ».

E inizia il viaggio di ritorno. Non torna per amore, torna per fame. Non perché è pentito, ma perché la mor­te gli cammina a fianco. Cercava un buon padrone, non osava ancora, non o­sava più cercare un padre: « trattami come un servo ».

Ma al padre non importa il motivo per cui un figlio ri­torna, « lo vide da lontano, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò ». Al solo muovere il piede già mi ha visto; io cammino, lui cor­re; io parlo: « non sono de­gno, trattami da servo », lui mi interrompe, per conver­tirmi proprio da quell’idea. Vuole salvarmi dal mio cuore di servo e restituirmi un cuore di figlio. Il pecca­to dell’uomo è di essere schiavo invece che figlio di Dio (S. Fausti). Dio è padre solo se ha dei figli, vivi.

« Accettare il perdono di Dio è una delle più grandi sfide della vita spirituale. C’è qualcosa in noi che si ag­grappa ai nostri peccati e non lascia che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo » ( H. Nouwen).

Ac­cettare l’amore è forse più difficile che darlo.

Il Padre non chiede rimor­si o penitenze, a lui non in­teressa giudicare e neppu­re assolvere, ma aprire un futuro di vita. Non è il ri­morso, non è la penitenza, non è la paura che libera dal male, non il pareggio tra dare e avere, ma un «di più» di vita, un disequilibrio gioioso, la fiducia, l’ab­braccio e la festa di un Pa­dre più grande del nostro cuore.


( Letture: Giosuè 5,91.10-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5,17-21; Luca 15,1-3.11-32)

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