domenica 14 marzo 2010

PORTAPAROLA del 13/3/2010


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Da Avvenire di sabato 6 marzo 2010

LA TURCHIA E LA MACCHIA ARMENA

ANKARA CHIAMATA AL VERO PASSO: FARE I CONTI CON LA STORIA

LUIGI GENINAZZI

Fu il primo genocidio del secolo scor­so, un prologo agli orrori che segui­rono fino al culmine della barbarie toc­cata con l’Olocausto. Ma se ne parla po­co e malvolentieri. Ricordare il genocidio del popolo armeno compiuto dalla Tur­chia nel 1915, oltre un milione e mezzo di persone deportate, massacrate o la­sciate morire di stenti nei deserti della Siria, significa evocare una questione dai risvolti politici dirompenti. Se n’è avuta l’ennesima conferma dopo che la com­missione esteri del Congresso america­no ha approvato una risoluzione in cui si riconosce il genocidio degli armeni, suscitando la furibonda reazione della Turchia. Il negazionismo di Ankara è un vero e proprio dogma sul Bosforo e sem­bra essere l’unico cemento in grado di tenere insieme un Paese drammatica­mente spaccato tra laici e islamisti. Chi s’azzarda a rom­pere questo tabù commette un cri­mine punito seve­ramente dal fami­gerato articolo 301 del codice penale che prevede il car­cere «per chiun­que reca offesa al­l’identità turca». Decine di giorna­listi e scrittori, fra i quali il premio No­bel per la lettera­tura Ohran Pa­muk, hanno subì­to un processo per questo, insultati co­me traditori della patria. C’è chi, come lo storico Taner Akcam, è finito in galera. E qualcuno, come il giornalista armeno H­rant Dink, ha pagato con la vita, ucciso da un killer in pieno centro d’Istanbul.

Il governo di Ankara nega il genocidio, preferendo parlare genericamente di «u­na tragedia che ha accomunato turchi ed armeni in circostanze di guerra». Si trat­ta di una menzogna che si fa scudo di u­na piccola verità: i fatti avvennero sì nel contesto della Grande Guerra ma ciò non toglie che fu un vero e proprio genocidio, vale a dire «lo sterminio di un gruppo na­zionale, etnico o religioso», secondo la definizione dell’Onu. Del resto la pulizia etnica nei riguardi degli armeni venne teorizzata e poi praticata dai Giovani Tur­chi fin dal 1909.

A differenza della Germania che ha fat­to mea culpa per i crimini del nazismo, la Turchia si ostina a non fare i conti con la storia, barricandosi dietro la difesa del­l’identità nazionale. Ma questa non può cancellare gli errori e gli orrori del pas­sato. Riconoscerlo, anche al prezzo di u­na severa autocritica, è il primo passo per costruire un Paese dove l’identità nazio­nale si coniuga con le fondamentali esi­genze della democrazia. Non dobbiamo dimenticare che l’Unione Europea, di cui la Turchia di Erdogan intende far parte, ha il suo atto di nascita nell’abbraccio tra ex nemici che seppero trarre insegna­mento dalla storia. L’accordo siglato lo scorso autunno a Zurigo tra Turchia ed Armenia ha fatto nascere grandi speran­ze. Ma non ci sarà vera riconciliazione mettendo tra parentesi le ferite ancora aperte di un passato tragico e doloroso. E’ questo il segnale che arriva dal voto della commissione esteri del Congresso americano. Non è la prima volta, era suc­cesso anche tre anni fa. Poi l’allora pre­sidente Bush impedì che la mozione sul genocidio armeno venisse affrontata nel­l’aula del Congresso. A quanto pare O­bama non si differenzierà dal suo pre­decessore per non mettere a repentaglio l’amicizia con la Turchia, bastione a­vanzato della Nato ed alleato decisivo, anche se un po’ troppo autonomo, sul fronte orientale. Forse sarebbe il caso che l’Europa facesse sentire la sua voce. Ma il riconoscimento del genocidio ar­meno non appare tra le numerose e det­tagliate condizioni per l’ingresso della Turchia nella Ue...

Vistosa lacuna che contraddice storia e ideali del nostro vec­chio continente.

Da Avvenire di giovedì 11 marzo 2010

Il direttore risponde

«Ah, se il PD avesse detto...». Cambiare passo si può ancora

Caro direttore,

l’esclusione della lista del PdL nella provincia di Roma, ovviamente pone moltissime questioni, a partire dall’atteggiamento arrogante che quella parte politica assume di fronte a troppe regole. Ma su questo aspetto è inutile dilungarsi per sovrabbondanza, diciamo così, «di letteratura».

Sarebbe – vecchi ricordi di liceo – come «portare vasi a Samo»: cioè inutile perché, appunto, Samo nell’antichità era famosa per i suoi vasi. Tornando all’oggi, quale argomento migliore di campagna elettorale per il centrosinistra avrebbe potuto essere la litigiosa sciatteria di un centrodestra che non solo non sa comporre decorosamente i propri interessi in conflitto, ma non vuole neppure rispettare le regole? Ma è un argomento che il centrosinistra, e il PD in particolare, non potrà più utilizzare. E questo non solo perché – parlo per la Regione Lazio – la campagna elettorale non ci sarà (sarebbe come correre da soli), ma perché, seppure per qualche nuovo e arzigogolato artificio legale, il PdL sarà rimesso in corsa, il centrosinistra non potrà più vantare quella superiorità politica (etica è meglio lasciar perdere) che avrebbe avuto se non avesse brigato per l’esclusione degli avversari dalla partita elettorale. Delle due l’una, infatti, o si ricorre agli elettori, oppure agli avvocati (e questo vale pure per il centrodestra). Quando sabato giravano sms che invitavano a una manifestazione del PD al Pantheon a sostegno, di fatto, dell’esclusione del PdL dalla competizione elettorale, ricevendone più di uno, ho avuto la netta impressione di un imperdonabile errore. Se di un’ombra il PD doveva liberarsi per mostrarsi rinnovato davanti al suo elettorato e al Paese, era di quella del «giustizialismo».

Se, come Bersani sostenne al Congresso che lo ha eletto, l’intento del PD è quello di rappresentare anche il buon senso comune degli italiani, questa volta ha proprio perso l’occasione. Era proprio questo, infatti, il momento nel quale il centrosinistra avrebbe potuto far valere davanti agli elettori (che sono gli unici veri giudici della politica, come Avvenire ha scritto più volte), quella superiorità «politica» di cui ha sempre menato vanto. Non ci voleva una cultura giuridica da specialisti per invocare quello che ormai nella giurisprudenza si ritrova quasi ad ogni passo, e cioè il concetto di notorietà. Non ci volevano certo Cicerone o Ulpiano, per capire che il PdL era determinato a correre anche nella Provincia di Roma. E non ci voleva alcuna genialità politica (anzi c’era tutto da guadagnare) a sostenere che le elezioni hanno regole e regole. Un conto sono quelle relative al conteggio dei voti, quelle vere; un altro conto sono le formalità dell’ammissione dei simboli. E certo un partito importante come il PD, non doveva dare l’immagine di chi, lontano dall’idea della rappresentanza democratica, gioca la sua partita su minuzie regolamentari, come se si trattasse dell’ammissione a un concorso pubblico dove vale le perentorietà dei termini di scadenza per la presentazione delle domande. Ma la scelta è stata un’altra: tentare di correre da soli. Brutta idea della democrazia e, dunque, pessima immagine del «partito nuovo».

Le tue parole, caro Pio, esprimono la riflessione amara e appassionata di un uomo che coltiva un’idea della politica alta e al tempo stesso efficace. E sono la testimonianza di un cittadino che sa che cosa significa fare una concreta scelta politica (sei stato un iscritto-fondatore del PD) senza rinunciare alla sana e autonoma capacità di giudizio dell’intellettuale e giornalista di vaglia. Grazie per avercene messo a parte: la trovo utile e originale.

Avrei preferito che fosse solo «utile», perché il fatto che suoni anche «originale» sottolinea che la difficoltà attuale della politica è davvero grande. Del resto, la deriva è sotto gli occhi di tutti. Siamo chiamati a una tornata amministrativa segnata da prove elettorali in ben 13 Regioni. Dovremmo, perciò, parlare e scrivere di questioni di governo locale che pur in questa fase di federalismo imperfetto (e semi-caotico) sono di assoluto rilievo perché riguardano la vita concreta di milioni e milioni di cittadini e, invece, vediamo e raccontiamo il dibattere furente (e caotico) su tutt’altro, nonché il moltiplicarsi di inquietanti pressioni sulle più alte istituzioni (a cominciare dal Quirinale). Come se non bastasse, assistiamo nelle aule parlamentari, a preoccupanti prove di forza tra maggioranza di centrodestra e forze di centrosinistra alle quali solo l’UdC, tornata a rivendicare la sua terzietà rispetto a un bipolarismo malato, mostra di volersi negare. E siamo già stati avvertiti che quelle prove di forza si trasferiranno presto in piazza.Il disorientamento cresce, così, di pari passo con il fastidio per quest’ennesimo impazzimento del dibattito politico. E la somma di disorientamento e fastidio finisce, si sa, per produrre distacco e rifiuto. Sentimenti pericolosi alla vigilia di un voto. Ci pensino i leader politici. Tornando, se vogliono, con la memoria al pressante appello a «svelenire il clima» e a un «disarmo» ragionato e ragionevole che sin dallo scorso novembre il cardinal Bagnasco lanciò, nel nome del bene comune, all’assemblea dei vescovi italiani ad Assisi. Anche se la corsa alla polemica totale e allo scontro frontale sembra irrefrenabile, un cambio di passo e di direzione è ancora possibile. Chi lo avvierà per primo avrà due volte ragione.

Da www.PIU’VOCE del 12 marzo 2010

Ritirato l’offensivo libretto per bambini contenuto nel menu "Happy Meal"

IL DILEGGIO DELLA RELIGIONE A PARIGI E` DA MC DONALD`S

Nicoletta Tiliacos

Laicità alla francese. Fino a qualche giorno fa, i piccoli clienti parigini di McDonald’s ricevevano in dono, nel caso avessero scelto il menu “Happy Meal”, un libretto di giochi illustrato e colorato, edizioni Dupuis. Carino, no? Peccato che il libretto mostri Blork, un pupazzo sgangherato e già molto noto tra i ragazzini, sotto forma di “prete Blork”, mentre celebra il matrimonio di altri due mostriciattoli.

Il “prete”, dotato di cappello vescovile e con tanto di stola sacerdotale, legge in un messale e brandisce una croce sulla quale è inchiodata una specie di ranocchia. Alla simpatica immagine è abbinato un indovinello, la cui soluzione, riportata a pié di pagina, recita: “Volete voi prendere la qui presente Suzanne come pasto?”. Qualcuno ha timidamente protestato, e per ora il libretto è stato ritirato, con qualche scusa imbarazzata, dalle edizioni Dupuis. Si attendono vibrate controproteste in nome della laicità.

Da Avvenire di mercoledì 10 marzo 2010

Il doppio inganno del «Grande fratello» DI MIRELLA POGGIALINI

Si chiama 'reality', abilissima invenzione: ma è illusione, se si vuol esser benevoli, oppure inganno. Perché di reale, nella melensa schiera dei cosiddetti 'giovani d’oggi' che da dieci anni il Grande fratello allinea con pervicace e fortunata finzione, non c’è nulla. E lo ha dimostrato la vittoria, nella decima edizione, conclusasi lunedì sera con un picco di spettatori contato in 9.011.000 alle 22,31 (con una media di 7.460mila spettatori e il 34,47% di share) di quello che è stato definito 'autentico', quel furbo Mauro Marin che si è ritagliato una parte di antagonista odioso e polemico per catturare attenzione e voti: maschera di quella nuova 'commedia dell’arte' che pesca nell’improvvisazione ben congegnata da abili autori e nella verità finta recitata con astuzia.

Per venti settimane, dal 26 ottobre, i reclusi della 'casa' hanno oziato con ambigua manifestazioni di affetto e clamorose risse, accoppiamenti spacciati per innamoramenti e volgarità esibite come espressioni di autenticità: creando uno spettacolo continuo che è riuscito a coinvolgere un gran numero di persone avidamente curiose di scoprire intimità segrete e sentimenti sinceri e ingenuamente convinte di rispecchiarsi in una umanità vera. C’è stato, dietro l’interminabile spettacolo di una triste reclusione volontaria, vissuta nella speranza della fama e del denaro facile, un piano assai complesso in cui ognuno dei partecipanti era spinto a manifestare istinti non frenati e pulsioni infantili, in una crudele operazione di scorticamento emotivo. E non a caso gli eletti erano, ognuno per la sua parte, campioni di trasgressione o di eccesso: come se la normalità, quella che davvero rispecchia nel quotidiano la verità dell’esistenza, fosse bandita perché inutile. Privi di contatto con l’esterno se non pilotato, manovrati come burattini da una sorridente 'direttrice', pronti a ogni esibizione che garantisse e soddisfacesse le curiosità più morbose (i letti-covile, i bagni palcoscenico, gli abbracci per nulla celati) i concorrenti hanno lottato gli uni contro gli altri in apparente e dichiarata amicizia, pronti tuttavia a sbranarsi con grevi insulti e becere risse.

Sollecitando imbarazzanti guardonismi che hanno coinvolto anche i più giovani, le interminabili ore in cui nulla di utile o intelligente era consentito hanno fatto mostra di un vuoto esistenziale che corrispondeva a un vuoto mentale ancor più amaro. E lo spettatore che è sfuggito al fascino del programma si è sentito urtato e spaesato di fronte a questa immagine beota di giovani inutili, sprecati in esibizioni plateali. Non per nulla, rivedendosi quando, usciti dalla casa, erano allineati in platea, molti di questi hanno manifestato essi stessi imbarazzo rivedendosi nei filmati quali erano all’interno della lussuosa prigione: in una resipiscenza che i volti rivelavano chiaramente. Dieci anni: quelli del primo anno sono già adulti, sono scomparsi dalla memoria, dovrebbero esser maturi, aver abbandonato le fatue illusioni di fama da balera e su rotocalchi pettegoli. Ma l’immagine di uno degli sconfitti, lunedì sera, che piangeva su se stesso mentre spegneva le luci della 'casa' e dava addio ai suoi sogni di gloria, è il simbolo triste e insieme crudele di speranze ingannatrici, di sogni spenti perché nati nel vuoto.

Ci fanno credere che l’Italia sia questa e che quest’anno abbia vinto un ragazzo controcorrente ma è tutto così finto da fare tristezza Già previste altre tre edizioni.

Da Avvenire di domenica 7 marzo 2010

CANDIDATE IN MASSA AL VOTO

DONNE A BAGHDAD IL CORAGGIO DI METTERCI FACCIA E CUORE FULVIO SCAGLIONE

Cinque anni fa, alle elezioni parla­mentari cui partecipavano anche i sunniti che avevano disertato le ele­zioni provinciali (gennaio 2005) e il referendum costituzionale ( ottobre 2005), per le donne irachene era im­portante mostrare le dita tinte di vio­la, la prova che erano state al seggio e avevano votato. Velate, circondate da­gli uomini di famiglia, alzavano le ma­ni a favore dei fotografi accorsi a do­cumentare un evento che a molti era sembrato fino all’ultimo impossibile: per le stragi dei terroristi, le divisioni etniche e religiose, le rivalità politi­che, l’attività ancora intensa delle truppe americane. Oggi i qaedisti han­no meno spazio, la politica somiglia più alla dialettica dei partiti e meno al­lo scontro delle fazioni, la presenza dei soldati Usa è più discreta. E le donne, al voto, hanno portato molto più della voglia di dire ' c’ero anch’io'.

Questa volta ci hanno messo la fac­cia, e non è un modo di dire. Molte delle duemila candidate si sono fatte fotografare a viso scoperto per i ma­nifesti elettorali, un’audacia che vale più di un programma politico in un I­raq pur sempre tormentato dal fondamentalismo islamico e dove anco­ra un anno fa, alle elezioni provincia­li, piovevano le denunce delle candi­date i cui manifesti venivano rimossi dagli uomini in segno di disprezzo. Ci hanno messo il cervello, le donne ira­chene, ora decise ad approfittare del­le possibilità offerte dalla legge elet­torale ( un terzo dei candidati in lista deve essere donna) e dalla Costitu­zione (82 seggi del Parlamento, un quarto del totale, devono andare alle donne) e pronte ad assumersi re­sponsabilità nuove, superiori a un passato fatto di scarsi ruoli di 'consi­gliere' o, al più, di ministeri per la Fa­miglia o per le Donne di stampo qua­si ornamentale.

E ci hanno messo il cuore, a partire da quelle 600 anoni­me irachene che nella difficile pro­vincia di al-Anbar hanno accettato, dopo un breve corso, di lavorare ai seggi per intercettare eventuali don­ne kamikaze che non potrebbero es­sere controllate o perquisite dagli uo­mini della polizia. Per l’Iraq è un capitale enorme, so­prattutto se consideriamo che esso si accumula in una regione dove la don­na si affaccia alla politica solo dopo aver dimostrato intransigenza persi­no superiore a quella degli uomini (Iran) o dove le donne sono state am­messe in magistratura ( Emirati Arabi Uniti) solo un anno e mezzo fa. Ed è un capitale che andrà gestito e speso con cura. L’influenza degli Usa è sta­ta decisiva per affermare certi princi­pi di pari opportunità nella legislazione irachena. Ma l’esito non sareb­be così clamoroso se nel Dna nazio­nale non ci fosse un primitivo ele­mento di emancipazione femminile. Le irachene rappresentano oltre il 60% della popolazione del loro Paese e fi­no alla Guerra del Golfo hanno godu­to di un pari diritto all’istruzione e di qualche apertura sociale superiore a quelle offerte alle altre donne del Me­dio Oriente. Per supportare la propria folle deriva dittatoriale e bellicista, Saddam Hussein tentò anche la carta di un islamismo forse di facciata ma, per le donne, ugualmente pesante nelle conseguenze. E dopo la sua cac­ciata, lo spettro del fondamentalismo di stampo talebano si è a lungo e cru­delmente agitato nell’Iraq che tenta­va di rinascere. La sorte delle donne, il loro inseri­mento nei ranghi di uno Stato che si consolida e di un’economia che ri­parte, sarà dunque il primo termo­metro del cambiamento rispetto al passato e della sua efficacia rispetto al futuro.

E potrà certo fare da traino al­l’evoluzione possibile in altri Paesi cui, forse, manca solo un esempio cultu­ralmente non troppo lontano.

Da Avvenire di domenica 7 marzo 2010

«Ho la sclerosi multipla ma vivo col sorriso»

Gian Carla è in carrozzina per la malattia: «I miei cari mi danno la forza, non mi voglio piangere addosso» DA MILANO ENRICO NEGROTTI

Una testimonianza di amore per la vita, forza di volontà e fiducia nel futuro, an­che della ricerca scientifica. Sono le im­pressioni che si ricavano dalla lettura delle pa­gine del libro di Gian Carla Bozzo («Flash. Fram­menti di vita». Istess-Fnism, Terni) per raccon­tare la sua esperienza di donna che passa da u­na spensierata gioventù a un’età adulta carat­terizzata dalle crescenti difficoltà causate dal­la sclerosi multipla, la malattia neurodegenerativa che l’ha colpita in modo particolarmen­te aggressivo, costringendola in sedia a rotelle. Gian Carla, laureatasi in Ingegneria elettroni­ca nel 1993 e moglie di Luca dal 1996, frequentando un laboratorio della Cooperativa Cultu­ra e Lavoro di Terni ha potuto scrivere attra­verso un computer comandato da sensori che rispondono al movimento della testa, al ritmo di 4-5 righe in un’ora e mezza: le fresche pagi­ne della sua storia sono animate di episodi lon­tani e recenti, lieti e faticosi, mai privi però di un sorriso. «Sono sempre sorridente e faccio tutto come se non avessi nulla – scrive Gian Carla –. Non mi sono chiusa in casa come tan­te persone che hanno la mia stessa malattia.

Non mi voglio piangere addosso». E a chi la de­finisce una donna forte replica: «Se guardo so­lo dentro me stessa, non vedo molta forza. So­no i miei cari, i miei amici, i miei affetti ad am­plificarla. In questo mi ritengo fortunata».

Come è stato l’impatto con la malattia?

Graduale. Mi rendo conto a distanza di anni che la diagnosi iniziale, fatta nel 1995, non mi sconvolse. Infatti a quel tempo mi sentivo be­ne, i sintomi erano scomparsi quasi del tutto, ero sicura che al massimo avrei fatto parte di quella percentuale di malati nei quali la malat­tia procede così lentamente, che quasi non se ne accorgono per tutta la vita. Andavo regolar­mente dal neurologo, mi stavo informando su alimentazioni particolari che mi potessero aiu­tare, ma credevo che non avrei mai avuto veramente bisogno di tutto ciò. Poi, già l’anno successivo, i sintomi hanno cominciato ad au­mentare, mi stancavo più facilmente a cam­minare, a scrivere, a lavorare. Fino al 2000 cir­ca ho mantenuto quasi una totale autonomia, iniziando però a convivere con le mie difficoltà e con una nuova e indesiderata compagna di vita.

Che cosa si sente di dire alle persone nelle sue condizioni, ma che non hanno la sua stessa attitudine a lottare?

Credo che non esista una risposta valida per tutti, però dalla mia esperienza direi che può aiutare il cercare di non scoraggiarsi, di avere interessi, sorridere alla vita e alle persone che ci stanno vicino. È con queste persone, e so­prattutto con i nostri cari, che è importante in­staurare un rapporto positivo. Se questo riesce, ci permette di dare ai nostri cari stimoli ed e­nergia per lottare con noi giorno dopo giorno. E ricevendo il loro appoggio noi ci sentiamo più forti, recuperiamo energia, possiamo dare loro ancora la carica, e il ciclo si ripete.

Quali sono le sue aspettative nei confronti del­la ricerca scientifica?

Pur sapendo che le probabilità che io riesca a riguadagnare qualcosa delle mie funzionalità perdute sono basse, non dispero.

Mi accon­tenterei soprattutto di recuperare un po’ l’uso delle braccia e di diminuire le mie difficoltà nel parlare. Soprattutto quest’ultimo ostacolo ne­gli ultimi tempi mi sta limitando molto. Sono sempre stata un tipo estroverso, a cui piace tan­to parlare e comunicare. Quando sono comin­ciate le difficoltà nei movimenti, ho sopperito con il telefono alla diminuita mobilità. Ora però è diventato difficilissimo farmi capire al telefo­no e anche di persona è molto faticoso. Sì, spe­ro proprio che la ricerca, con fatti concreti, mi restituisca un po’ di chiacchiere...

Il ricavato del libro è destinato alla onlus Neu­rothon (www.neurothon.com), che sostiene le ricerche di Angelo Vescovi per portare in spe­rimentazione clinica nei laboratori di Terni le cellule staminali cerebrali contro le malattie neurodegenerative.

Da Avvenire di mercoledì 10 marzo 2010

BUON TESTO, DA APPLICARE BENE

UNA RETE DI NORME E SOLIDARIETÀ PER SOSTENERCI NELL’ULTIMA FRAGILITÀ ASSUNTINA MORRESI

Da oggi in poi, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore sarà regolato nel nostro Paese da una delle poche leggi approvate in condivisione da maggioranza e opposizione, nei due rami del Parlamento. E ci au­guriamo che la ratifica finale del testo di legge su una problematica così par­ticolare – il prendersi cura delle per­sone nel momento più gravoso della propria vita – avvenuta nonostante il clima pre-elettorale letteralmente invivibile di questi giorni, sia un segno della sostanziale tenuta, nonostante tutto, della nostra classe politica.

Tutti d’accordo, quindi, una volta tan­to: la predisposizione di due reti nazionali di assistenza sanitaria, espres­samente dedicate alle cure palliative l’una, e alla terapia del dolore l’altra, come prevede la nuova legge, signifi­ca la possibilità per ciascuno di noi di poter essere sostenuto e accompa­gnato, concretamente, nei momenti di massima fragilità, quelli nei quali non c’è più speranza di guarigione, ma so­prattutto che non si possono affron­tare in solitudine. Come sappiamo, il termine 'palliative' deriva dal latino 'pallium', cioè 'mantello', una paro­la usata per evocare l’idea di proteg­gere, coprire, o meglio, di essere co­perti e protetti: un 'pallium' che non si è in grado di indossare da soli, per­ché in quei momenti abbiamo biso­gno di qualcuno che ce lo appoggi sul­le spalle, e sappia come farlo. La dignità della nostra vita, quando la vita se ne sta andando, non si misura dal grado residuo di autosufficienza, ma da se e da quanto siamo nelle condizioni di accettare e affrontare il do­lore, e la fine della nostra esistenza. È questo lo scopo ultimo del 'pallium', che implica una rete di rapporti che ci accoglie e ci sostiene. E se non può cer­to essere una legge, seppur buona, a ri­solvere il mistero del dolore e della no­stra finitezza, è anche vero che può aiutare a starci davanti, e ad averne meno timore. Perché le nuove norme siano real­mente efficaci, sarà necessario un mo­nitoraggio accurato della loro appli­cazione da parte delle autorità coin­volte, per evitare da un lato che gli ar­ticoli di legge rimangano sulla carta, i­nattuati, e, allo stesso tempo, per e­scludere tassativamente ogni possibi­le abuso, tenuto conto della tipologia e della potenza dei farmaci utilizzati in queste circostanze.

Saggiamente, la legge sulle cure pal­liative è stata separata dal testo Calabrò sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (la cosiddetta legge sul fi­ne vita), ancora in discussione in Par­lamento: la possibilità di rifiutare te­rapie mediche, anche anticipatamen­te rispetto a quando potrebbero esse­re somministrate, come prevista dalle Dat, riguarda la libertà di cura e il consenso informato, e il dibattito di que­sti mesi ha mostrato che chi chiede di non essere curato qualora si trovasse in condizioni particolarmente gravi, non lo fa per mancanza di terapie che rechino sollievo al dolore, ma piutto­sto per un’idea di autodeterminazio­ne spesso esasperata, che si dilata fi­no a comprendere il «diritto a morire». D’altra parte, proprio le storie di Pier­giorgio Welby ed Eluana Englaro, che hanno costretto l’opinione pubblica i­taliana a confrontarsi con queste problematiche, hanno mostrato quanto le cure palliative non c’entrino con le Dat: Welby ed Eluana non erano ma­lati terminali, e il problema del dolore si è posto per entrambi solo quando la loro vita è stata spenta da interventi e­sterni. Insomma, le idee sul fine vita hanno un contorno più netto, adesso, e qual­che alibi è caduto. Il Parlamento ha prodotto una buona legge, finanziata nonostante le difficoltà economiche del momento. Adesso bisogna applicarla al meglio.

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