sabato 29 maggio 2010
PortaParola Ravenna del 29/5/2010
Da PiùVoce.net di giovedì 27 Maggio 2010
Le cifre drammatiche dell`Istat sui giovani italiani senza lavoro e studio
di Domenico Delle Foglie
Due milioni di giovani italiani fra i 15 e i 29 anni (fra i quali un milione di meridionali) non lavorano e non studiano. Parola di Istat.
Il che ci rassicura sulla scientificità delle rilevazioni, ma non può tranquillizzarci sul versante sociale e soprattutto familiare.
Due milioni di persone destinate a sopravvivere per chissà quanti anni in una sorta di limbo sociale possono diventare una bomba a tempo. La storia ci insegna che quando intere generazioni sono tagliate fuori dalla vita sociale del proprio Paese, le conseguenze sono imprevedibili. E’ già accaduto nella storia italiana ed europea fra le due Grandi Guerre. E’ difficile immaginare che queste forze possano essere escluse dalla storia senza pesanti rivolgimenti. Del tutto imprevedibili, anche per gli analisti più raffinati.
Questa volta, purtroppo, non basterà la famiglia a fare da stanza di compensazione. Le famiglie italiane certamente non si tireranno indietro nel garantire la sopravvivenza ai figli in “fuorigioco”, ma nessuno si può nascondere che il tirare a campare è solo l’anticamera del fallimento e della disperazione. Fallimento economico delle famiglie, già messe all’angolo dalla più grande crisi del Dopoguerra, e costrette a erodere i risparmi. Ma già tante, troppe famiglie non arrivano alla quarta settimana. E poi la disperazione, cioè l’assenza di speranza nel futuro.
Ecco perché ci auguriamo che la manovra del governo sia quella giusta per rimettere in equilibrio i conti dello Stato, ma a nessuno può sfuggire la necessità di dare una prospettiva realistica a questi due milioni di giovani. Una classe dirigente degna di questo nome non può cavarsela dicendo “arrangiatevi”. Condannare due milioni di cittadini all’esclusione sociale, affidandosi esclusivamente ai poteri taumaturgici del mercato, può rivelarsi un suicidio. Politico, ma soprattutto sociale.
Da Avvenire di mercoledì 27 maggio 2010
LA CHIESA INVITA A VIVERE, NON A VIVACCHIARE
L’agenda di chi spera è piena di futuro
MARINA CORRADI
Se un amico straniero ci domandasse: allora, come va da voi in Italia?, forse non sapremmo rispondere che con imbarazzo, e un fondo di rassegnazione. Bah, diremmo, come vuoi che vada. Si sopravvive. Nonostante la crisi, non siamo la Grecia. La politica è in un affanno cronico, dentro a un interminabile travaglio che sembra non partorire niente; se non provvedimenti per far fronte a urgenze irrimandabili; se non rumore, scontri, uscite estemporanee che il giorno dopo sono già lettera morta. Come vuoi che vada, diremmo a quell’amico: sui giornali c’è ogni giorno un nuovo scandalo, nuove indagini, nuovi veri o presunti corruttori e concussi. Tuttavia, si sopravvive.
Lavoriamo, mandiamo a scuola i figli, pensiamo, chi può, alle vacanze. Tiriamo avanti. Quasi alla giornata. Un progetto comune, una condivisa speranza sembrano cose troppo ambiziose, e troppo proiettate in un futuro in cui non nutriamo gran fiducia.
Nei libri di storia leggiamo delle passioni e dello slancio di ricostruzione del dopoguerra; e pur sapendo da quali lutti e povertà veniva quell’Italia, noi, che non c’eravamo, ne proviamo rimpianto.
Ma c’è una profonda differenza fra «vivere, e vivacchiare», ha detto lunedì il cardinale Bagnasco alla assemblea generale della Cei.
Ha usato quella stessa espressione di Piergiorgio Frassati che Benedetto XVI aveva ricordato pochi giorni fa ai giovani in piazza San Carlo, a Torino. Come se, in questa Italia, lo sguardo della Chiesa fosse rimasto quasi il solo a ricordare che 'tirare avanti', in un Paese, non basta. Che la vita di un popolo chiede altro: un respiro più ampio, uno sguardo più lungo, dei progetti, e in fin dei conti una fondata speranza.
Lo sguardo della Chiesa italiana espresso da Bagnasco non calca su inchieste, corruzioni, rendimenti di conti, scandali. C’è un filo conduttore invece che parla di educazione, di famiglia, di contrasto al declino demografico, di lavoro da dare ai giovani. Un filo in cui la sfida della educazione è al primo posto, «decisiva anche sotto il profilo storico, sociale e politico». Una sfida che, non accolta, porta alla «decomposizione sociale». Come un’altra agenda, un’altra serie di priorità rispetto a quelle che si prendono i titoli più grandi sui giornali. Come una sottolineatura di ciò che davvero è vitale.
In che cosa consiste questa differenza di sguardo? È la stessa che spesso vediamo compiersi in chi mette al mondo dei figli.
Quando si diventa padri e madri si comincia a interessarsi, oltre che al presente e a ciò che possiamo trarne, a quel che sarà dei figli, quindi al futuro. La paternità è per quasi tutti la svolta per cui ci interessa e ci preme una scuola che funzioni, una televisione decente, un ambiente sociale in cui quei figli possano crescere, studiare, lavorare. Siccome teniamo ai figli, ci interessa l’avvenire.
Lo sguardo della Chiesa è segnato da questa stessa paternità: non si ferma al presente e ai suoi boati, ma indica un progetto, un da farsi, un futuro. (E forse non è un caso se un paese dove il 50% delle famiglie non ha figli appare così schiacciato sulle contingenze, banali o scandalose che siano; e così privo di slancio, così asfittico sui temi di scuola, educazione, demografia, occupazione giovanile. Che cosa importa il futuro, se non si hanno eredi?) Lo sguardo della Chiesa invece è segnato da questa paternità, da sempre incisa nel pensiero cristiano.
E’ lo sguardo di una continuità e di una speranza; di una radicale fiducia nella vita, di una tenace certezza di un destino che non è un caso cieco. In una società che sembra chiusa stancamente su lotte di potere, soldi, privilegi, vizi privati e scandali di cui non ci si riesce neanche più a stupire ma solo a sbadigliare, è, questo sguardo, un atteggiamento profondamente anticonformista.
I figli, l’educazione, la speranza: parole a bassa voce eppure così controcorrente, in questa Italia che tira avanti e sopravvive.
Da Avvenire di martedì 25 maggio 2010
LA CHIESA E L’ORIZZONTE DELLA SPERANZA
IMPEGNI AI QUALI NON SI PUÒ VENIR MENO
FRANCESCO D’AGOSTINO
Densa, come sempre, la prolusione del cardinale Angelo Bagnasco alla 61ª Assemblea Generale della Cei.
Le parole che egli ha pronunciato si muovono tutte nell’orizzonte della speranza: non la speranza, a volte dolce, ma ingenua di chi cerca di rimuovere le sofferenze del presente, augurando a sé e agli altri un generico futuro 'migliore', ma la speranza cristiana, di chi sa che sperare in modo autentico significa mettere alla prova se stessi con un serio e fiducioso operare nel mondo. Molteplici i temi trattati nella prolusione. A molti apparirà predominante, e non a torto, quello della pedofilia, affrontato dal cardinale in modo limpido ed esplicito e soprattutto in stretta connessione con le indicazioni che provengono dagli insegnamenti e dalle indicazioni pastorali del Papa. Il tema è conturbante, ma la Chiesa non deve esitare ad affrontarlo; non è del mondo che il cristiano deve aver paura, ma del peccato e delle sue tragiche conseguenze, nella consapevolezza che la più autentica risposta che è possibile dare al peccato, cioè la penitenza, appartiene anche essa all’ordine della grazia. Più che sulla pedofilia, sembra però opportuno soffermarsi oggi su altri due temi, non perché siano più rilevanti di questo, ma perché in essi, più ancora che in quello della pedofilia, siamo messi in grado di percepire la specificità dell’approccio ecclesiale a questioni che possiedono una rilevanza non solo antropologica, ma più spiccatamente 'civile'; questioni, cioè, per le quali alcuni potrebbero pensare che un intervento da parte della Chiesa debba essere ritenuto inessenziale, se non addirittura superfluo. Non è così.
La prima questione è quella demografica. Il presidente della Cei non rinuncia ai toni che gli sono propri, caratterizzati da una pacata fermezza. Ma non è possibile sottovalutare la forza di un’affermazione che egli fa, quella secondo la quale l’Italia sta andando «verso un lento suicidio demografico». All’affermazione seguono le cifre che le danno sostanza: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli; tra quelle che ne hanno, la metà ha un figlio solo; solo il cinque per cento delle famiglie con prole ha tre o più figli. Il cardinale non usa molte parole per spiegare il significato antropologico di questi dati: se viene meno la coscienza del valore che ha l’aver figli viene inevitabilmente meno la percezione del valore della vita stessa. I figli, dice Bagnasco, sono «doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani»; essi sono, in altre parole, il segno che la vita ha un senso e che ha un senso lottare per darle un senso. Il necessario e doveroso impegno dello Stato nel sostegno delle famiglie non va visto quindi solo in chiave economico-politica, ma in un orizzonte più ampiamente antropologico.
L’altra grande questione affrontata è quella dell’ormai prossimo anniversario dell’unità d’Italia: un tema sul quale, dice il presidente della Cei, è doveroso confrontarsi «da persone adulte». Che l’ unità del Paese sia una conquista irrinunciabile è un dato acquisito, così come è da ritenere acquisito che l’unità non vada interpretata come il prevalere di un progetto su altri progetti, ma come il «coronamento di un processo», di un lungo processo nazionale, culturale, artistico, e soprattutto religioso; un processo di cui i cattolici sono stati protagonisti, al punto da poterli qualificare – con un’ espressione a suo modo ardita – «tra i soci fondatori di questo Paese». Anche le questioni più laceranti che hanno tormentato tante coscienze nel corso del processo risorgimentale sono ormai ricomposte: l’esplicita citazione dei nuovi accordi concordatari tra Stato e Chiesa del 1984 serve a sottolineare come, anche in questo ambito, la «pacificazione» sia ormai completamente raggiunta. Tutte queste osservazioni, avverte però il cardinale, vanno intese non come rivolte verso il passato, ma come aperte al futuro, perché il nostro «stare insieme» si radichi sempre di più nella volontà di «volersi reciprocamente più bene». Questo è il grande insegnamento, nello stesso tempo 'politico' e 'meta-politico' che, tramite le parole di Bagnasco, la Chiesa rivolge a tutti i cittadini: il nostro vincolo nazionale non si fonda su meri interessi, o su accordi politico- procedurali, né meno che mai sulla condivisione di sentimenti nazionalistici o narcisistici. Esso si fonda sulla consapevolezza che esiste un bene comune di noi italiani, un bene che va costantemente promosso attraverso riforme concrete e intelligenti. A questo impegno i cattolici non vogliono, né possono venir meno.
Da Agorà supplemento di Avvenire di giovedì 27 maggio 2010
Scovare i semi di speranza negli «anni di piombo»: il ruolo della fede per il giornalista milanese assassinato 30 anni fa
Il cattolico Tobagi contro i «nonni» del ’68 DI GIUSEPPE BAIOCCHI
A trent’anni del suo assassinìo per mano dei A terroristi rossi, la figura di Walter Tobagi, cronista e storico e presidente del sindacato lombardo dei giornalisti, non è completamente impallidita dal trascorrere del tempo. Anche perché restano, e ancora ci parlano, le lucide analisi dei suoi libri, dei suoi saggi e dei suoi articoli. E, più si deposita la polvere delle polemiche politicogiudiziarie che hanno dolorosamente accompagnato nel corso dei decenni la vicenda del delitto, più emerge cristallina la dimensione religiosa di Tobagi, che ne costituiva la reale essenza e il solido fondamento sul quale naturaliter si sviluppò il suo impegno professionale e civile.
Eppure, in una produzione intellettuale straordinariamente intensa, Tobagi scrisse molto poco sul mondo cattolico e sulla Chiesa, allora inquieta e attraversata dai fermenti postconciliari. Neppure nei suoi anni passati ad Avvenire, che ricordava come i più sereni e forse più fecondi: allora c’erano stati il matrimonio e la paternità, la laurea in storia con una tesi di mille pagine sui sindacati confederali degli anni ’45-’50 e il suo primo libro, uscito nel 1970.
Ovvero la Storia del Movimento Studentesco e dei marxistileninisti in Italia , dove, da «storico del presente» coglieva nei fatti la drammatica contraddizione del Sessantotto.
Quella cioè di abbandonare ben presto la prospettiva del futuro da costruire per rivolgersi, nel magma della sinistra politica e culturale, soltanto al passato. E di costituire così la tragica rivincita dei «nonni», rivoluzionari e massimalisti, contro i «padri», democratici e costituzionali, scivolando inesorabilmente verso la violenza, prima verbale, poi fisica e quindi armata. E in quel contesto la fede cristiana, così considerata estranea al discorso pubblico, appariva solo un vezzo per chi indagava culturalmente nella tragedia della sinistra: eppure per Tobagi la condizione di cattolico (non esibita ma neppure nascosta) era fondamentale per discernere comunque e valorizzare i «semi di speranza» in un clima sociale tanto doloroso e rassegnato.
D’altronde, da semplice fedele, non mancava di partecipare alla vita della sua parrocchia e insieme a coltivare la conoscenza della Scrittura, nell’ambito di quei cenacoli-pilota che porteranno poi ai diffusi gruppi d’ascolto della Parola di Dio. Ed è a questa che fa riferimento quando si interroga con pochi colleghi (a quel tempo erano 7 i credenti «dichiarati» tra i 300 giornalisti del Corriere) sul significato profondo del ritrovarsi ad essere un «cristiano che fa il giornalista» in quella temperie storica.
Era l’estate del ’79, Tobagi era già nel mirino dei terroristi, e pativa la campagna di denigrazione dopo la sua vittoria alle elezioni del sindacato lombardo. Eppure sentiva la necessità di riflettere sul Vangelo: dove Gesù non fa programmi, non lancia messaggi: a chi gli chiede, risponde soltanto: «Venite e vedete…». E andare e vedere, magari con l’occhio lungo e l’orecchio attento, commentava Walter col suo quieto sorriso, non è forse l’essenza del nostro mestiere? Non solo: proprio quelle cronache che sono attuali da duemila anni suggerivano un’altra divisa professionale. Gli apostoli non ci fanno umanamente una gran figura: non capiscono, si addormentano e scappano; e perfino Pietro, che pure era già il capo della Chiesa, non nasconde di aver rinnegato il maestro tre volte prima che il gallo cantasse. E allora la lezione che ne veniva era quella di non edulcorare, di non occultare, di non subordinare la narrazione ad occhiali o pregiudizi ideologici o interessati. Piuttosto, coltivando la dote dello «stupore», il metodo restava quello di «lasciarsi riempire» dalla realtà complessa che si veniva ad incontrare, dandole ordine, forma, gerarchia e significato. In modo da fornire per questa via al lettore e al cittadino il servizio democratico e a tutto campo dell’informazione, così che ciascuno potesse formarsi in libertà e completezza il proprio autonomo convincimento. E in questo percorso di rigore professionale, il giornalista andava tutelato nella sua autentica indipendenza. Di qui l’impegno innovativo nel sindacato, un impegno teso a contrastare il comodo conformismo e a diffondere segni di speranza in un cambiamento positivo, graduale e partecipato.
Era riformismo? Certamente sì, ma intessuto dalla responsabilità di lavorare ovunque per costruire (anche per i propri figli) una società meno lacerata dalla violenza e più aperta al futuro. E insieme alla speranza davvero cristiana c’era, pur nell’affanno di una vita così impegnata, un abbandonarsi fiducioso alla Provvidenza. Negli ultimi mesi, a chi lo accompagnava spesso a casa dal Corriere (come chi scrive) confessava, oltre alle umanissime paure, la percezione lucida dei rischi che correva, accanto alla consapevole certezza di non potersi e non volersi sottrarre. «Non mi perdoneranno – ripeteva – di aver rotto il conformismo e l’unanimismo. Sia nelle analisi sulla galassia terroristica, che cerco di capire e di penetrare invece di limitarmi come troppi a maledire e a esecrare; e sia nel sindacato, che ha anche bisogno di rotture democratiche per crescere e per svolgere davvero il suo ruolo civile. E io ho il torto di aver sollevato un velo e di trovare il libero consenso di molti colleghi… Ma non mi sento solo: mi sento comunque nelle mani di Dio…».
Da Avvenire di giovedì 27 maggio 2010
«Piccole pesti» a lezione di galateo
Bambini spontanei, creativi, capaci di esprimere se stessi, aiutati a crescere con affetto, stimolati e coccolati. Tanti sforzi pedagogici spesso non ottengono i risultati sperati generando, piuttosto, veri campioni di maleducazione che in nome della libertà creativa – guai a frustrarla – imperversano prepotenti e sguaiati a scuola e al supermercato, per la strada e al parco, in casa propria e altrui. Rimproverarli non si può perché ha un effetto deleterio sull’autostima (la loro) e sopportarli neppure perché ha un effetto devastante sul sistema nervoso (il tuo).
Confondere la spontaneità con la villania, l’esuberanza con la grossolanità, far passare per fantasioso quel che che è banalmente sgarbato è un’abitudine comune a molti genitori: i maleducati sono sempre i figli degli altri. È innegabile che volgarità e rozzezza siano dilaganti, che sopravanzino la cortesia e le buone maniere ormai passate di moda.
E non certo per colpa dei bambini senza educazione ma per merito esclusivo dei genitori, che quell’educazione non possono insegnarla perché non l’hanno imparata mai. Lo dimostra perfino – se non bastasse mezz’ora in un qualsiasi ipermercato – una sentenza recente della Corte di Cassazione: riprendere i figli a suon di parolacce è un atteggiamento generalmente ricorrente nei rapporti familiari, hanno sentenziato i giudici arrivando persino a stabilire che reagire alle intemperanze dei bambini a suon di ingiurie non sia un’abitudine passibile di severa punizione.
Educazione e buone maniere, poche regole che venivano impartire dai genitori attraverso l’esempio e la pratica quotidiana, sono sconosciute ai più, la lingua universale della gentilezza – arricchibile a dismisura con l’esercizio e la pratica – è da annoverare tra quelle in via di estinzione. Non dovrebbe stupire, quindi, che fiorisca una manualistica rivolta ai giovani genitori che spiega cos’è l’educazione e come la si insegna.
A partire dalle regole più banali, per esempio che si risponde ai saluti e che li si porge per primi quando si entra in una stanza dove ci sono già altre persone. Chi non lo sa?
«Ci sono genitori che hanno bisogno di questi libri – spiega Nessia Laniado, scrittrice ed esperta di terapia della famiglia, autrice di Bon ton per bambini (Red, pagine 93, euro 12.90), l’ultimo dei suoi libri dedicato all’educazione dei più piccoli – e in genere sono quelli che cercano il consenso dei propri figli, che vorrebbero essere loro amici piuttosto che loro educatori, che si cullano nell’errata convinzione che lasciare i bambini liberi di scegliere sia il modo giusto per crescerli autonomi e giudiziosi. Non è così».
Già il termine bon ton sembra appartenere a un’altra epoca: «Sì, se lo si intende come una questione di pura forma e non di sostanza. Va da sé che il galateo moderno – chiarisce Laniado – non può essere un noioso elenco di norme cervellotiche né un manuale di rituali oziosi o di frasi fatte. Piuttosto, serve un’etica del concreto, calata nelle manifestazioni quotidiane, nei piccoli gesti e nella sollecitudine, una via per affinare se stessi e avere un’autentica attenzione ai bisogni di chi ci circonda».
Non basta la cortesia, manifestazione esteriore che implica un certo formalismo e una buona dose di distacco; per stare al mondo – e trovarcisi a proprio agio – bisogna ricorrere alla gentilezza, un atteggiamento mentale: «Si tratta di instillare nel bambino alcuni principi basilari di comportamento come autentica espressione di attenzione nei confronti dell’altro. Imparerà così – spiega l’autrice – una lingua universale che gli permetterà di destreggiarsi in ogni situazione e renderà gli altri più disponibili nei suoi confronti».
Un’etica delle piccole cose, di gesti semplici ma significativi riflessa anche in altri due manuali sullo stesso tema – l’educazione – ma rivolti direttamente ai più piccoli: Giusi Quarenghi spiega ai diretti interessati come si diventa un «gentilbambino», una persona che non ha bisogno di farsi dire, ripetere, urlare un milione di no in Manuale di buone maniere per bambini e bambine (Rizzoli, euro 12.50). Interessante la parte dedicata agli esempi, spietata con gli adulti ma efficacissima: «Per diventare un gentilbambino si ha bisogno di esempi. Se un papà ha l’abitudine di insultare gli altri automobilisti quando è al volante – scrive l’autrice – è molto probabile che il suo bambino prenda l’abitudine di insultare gli altri bambini. Se una mamma è un’urlatrice, è facile che la sua bambina sia un’urlatrice».
E via così... In sintesi: i divieti devono essere coerenti, reciproci e rispettosi e – comunque – un buon esempio vale più di mille parole. Anche se qualche spiegazione ci vuole: perché bisogna cedere il posto in auto o sul metro a chi ha più bisogno di stare seduto? E come mai non si deve interrompere chi sta parlando? Davvero è necessario aprire la porta a chi non è in grado di farlo? A queste e a molte altre domande – trenta in totale – risponde Annie Grove con Leon e le buone maniere (Giralangolo, 11 euro), un libro destinato ai piccolissimi molto illustrato e con poche ma azzeccate parole che descrivono le buone maniere (e che potrebbero tornare utili ai genitori tempestati dai perché).
Da Avvenire di giovedì 27 maggio 2010
CIÒ CHE IL MONDO NON PUÒ DARCI NÉ TOGLIERCI
Il centuplo quaggiù già qui, già ora
GIACOMO SAMEK LODOVICI
A gli occhi di chi crede nel successo a ogni costo il cristiano è un represso, un frustrato, in definitiva un infelice, perché rinuncia alle migliori e più intense gratificazioni della vita, rinchiudendosi in una gabbia di divieti.
Può sembrare dunque una clamorosa falsità quanto ha detto il Papa al Regina Coeli di domenica scorsa: «Chi si affida a Gesù sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare, e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate». In effetti, Benedetto XVI ha insistito su questo tema molte volte e lo aveva rimarcato già nella messa di inizio del pontificato: «Non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo, e troverete la vera vita». Già allora il neo pontefice sottolineava la promessa evangelica, fatta a chi segue fedelmente Cristo, non solo di ricevere la vita eterna ma anche, «già ora, in questo tempo, cento volte tanto» (Mc 10, 30), pur insieme ad alcune sofferenze e nonostante, talvolta, le persecuzioni.
Che il cristiano possa sperimentare sentimenti di felicità, o comunque di contentezza durevole, «intender [fino in fondo] non lo può chi non lo prova», come direbbe Dante; ma possiamo, sebbene solo in parte, provare a motivarlo.
In realtà, molto dipende da come si vive il proprio esser cristiani. C’è un modo legalista e frustrante di vivere il cristianesimo, quello di chi trascorre le sue giornate temendo di trasgredire doveri e curando di osservare norme; e c’è quello liberante di chi osserva – come è giusto – le norme, ma non le considera il fine della sua vita, perché quest’ultimo è piuttosto l’esercizio dell’amore a Dio e al prossimo. Ora, se si agisce per amore, ogni cosa diventa più lieve e, talvolta, diventa persino causa di felicità: lavorare per mero senso del dovere o solo per guadagnarmi da vivere può essere estremamente pesante, mentre farlo per amore di mia moglie e dei miei figli, e per amore di Dio se coltivo una vita interiore, è estremamente diverso.
È questo il vero senso della sentenza, tanto spesso travisata, di S.Agostino: «Ama e fa’ ciò che vuoi». Infatti, se amo qualcuno, quando faccio/ometto qualcosa per lui, faccio/ometto quello che voglio, perché l’amore mi fa agire volentieri. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma basta notare che ci sono persone accasciate dal dolore provocato da alcune malattie, che, nondimeno, si sentono interiormente felici, o almeno contente, perché, per amore, in vista del bene di qualcuno offrono a Dio il loro dolore.
Certo, la vita cristiana comporta anche delle rinunce, ma per raggiungere beni più profondi e durevoli, comporta un certo qual «perdere se stessi», ma per ritrovarsi più pienamente, come ha detto il Papa: «Perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente». È l’espressione del paradosso dell’amore, il quale, proprio donando, arricchisce chi dona.
I beni a cui rinuncia il cristiano appagano nell’immediato, ma, a lungo andare e – va sottolineato – non da subito, soddisfano sempre meno e lasciano sempre più assetati, come bere acqua salata. Tanto è vero che, spesso, gli uomini finiscono per disdegnarli una volta che li hanno conseguiti e ne cercano altri, e poi altri ancora, procedendo così «di brama in brama», come diceva un filosofo non certo cattolico come Hobbes.
La relazione (beninteso se sostanziata di amore) con Dio, invece, non delude mai.
Da E’ Vita supplemento di Avvenire di giovedì 27 maggio 2010
Aborti oltre il termine: ci sono, ma chi li scova?
di Fabrizio Assandri
Certificati medici fasulli che retrodatavano il giorno del concepimento per giustificare falsi «aborti terapeutici» presso la struttura pubblica. 'Suggerimenti' alle pazienti per eludere i termini temporali stabiliti dalla legge 194, ma anche una paziente straniera costretta a firmare il consenso informato – nonostante non capisse l’italiano – e ad abortire contro la sua volontà. Sono le accuse di cui dovrà rispondere un ginecologo perugino insieme con la sua segretaria, un’ostetrica, un dipendente ospedaliero e un immigrato, al centro dell’inchiesta dei Nas denominata 'Erode' e della quale si è molto parlato in questi giorni. l’ultimo caso giunto alla ribalta delle cronache, ma non è certo il solo. Il più famoso resta quello di «Villa Gina» a Roma, dove Ilio e Marcello Spallone, condannati nel 2002 per omicidio volontario e violazione della legge 194 sopprimevano bimbi nati vivi dopo aborti provocati illegalmente fino all’ottavo mese.
Ermanno Rossi, ginecologo di Genova, morì suicida nel marzo del 2008 mentre era in corso un’inchiesta sul suo conto per aborti illegali oltre i limiti, che erano fatti apparire come spontanei.
Tre medici e un’infermiera, a Napoli, nel giugno 2008, sono stati fermati per aborti illegali: per le pazienti oltre i tre mesi di gravidanza organizzavano viaggi in Spagna e Olanda. La violazione delle norme sulla tempistica per l’aborto s’inserisce all’interno della zona grigia degli aborti clandestini, un fenomeno che si presume «largamente diffuso e praticato anche in strutture sanitarie private», come afferma la relazione 2010 del Ministero della giustizia sulla 194 inviata al Parlamento.
«Non abbiamo dati sulla distinzione tra aborto clandestino tout court e aborti praticati oltre il limite temporale di legge –fanno sapere fonti del Ministero – però ci appare scontato che in una situazione di illegalità i due fenomeni vadano sommandosi». partire da quando per la legge un aborto è illecito? «Dal momento in cui il feto ha la possibilità di sopravvivere a un parto prematuro, l’interruzione della gravidanza non può essere praticata – spiega Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica – salva la sola eccezione, molto rara, in cui risulti in pericolo la vita della donna: ma adottando, in tal caso, 'ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto', come prescrive la legge. La 194 parla di 'possibilità' e non di 'probabilità', per cui ha rilievo anche un livello minimo di tale possibilità».
La legge non pone dunque un limite temporale prestabilito, anche se alcuni ospedali si sono dati regolamenti interni.
Rispondendo a un’interpellanza relativa al caso del bambino sopravvissuto 24 ore a un aborto terapeutico alla 22esima settimana a Rossano Calabro, il sottosegretario Roccella aveva annunciato che il governo sta «valutando quale strumento utilizzare per vietare gli aborti oltre la 22esima settimana».
Secondo Eusebi, «fissare un’epoca precisa della gravidanza oltre la quale la possibilità di sopravvivenza si consideri sempre sussistente può costituire un passo in avanti, ma anche prima di una simile epoca che venisse formalizzata, l’aborto resterebbe pur sempre non praticabile ove le condizioni concrete del feto lasciassero comunque supporre il sussistere della possibilità di cui parla la legge. Si tenga conto, inoltre, del fatto che comunque, dopo il 90° giorno di gravidanza la non punibilità dell’aborto esige una 'rilevante' anomalia o malformazione, la quale provochi un 'grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna' in caso di prosecuzione della gravidanza: sarebbe dunque doveroso assicurare che il requisito della 'rilevanza' sia reale».
Da Giovani GMG speciale di Avvenire di martedì 25 maggio 2010
Cinque modi per dire «speranza»
Dalla partecipazione ai forum regionali a quello nazionale di aprile: così è nato il documento scritto dai giovani che parteciperanno alla Settimana sociale dei cattolici. Un contributo all’«Agenda» di speranza
DI DANIELA POZZOLI
Un gran numero di giovani si sono dati appuntamento nei mesi scorsi per discutere del loro futuro negli incontri organizzati per regioni, poi confluiti nel Forum nazionale che si è tenuto in aprile a Roma. Da qui è nata la bozza di un documento che sta circolando nelle diocesi e che sarà portato alla Settimana sociale dei cattolici italiani, in calendario in ottobre a Reggio Calabria. Cinque i punti nei quali è organizzato il testo, cinque strade che la pastorale giovanile vuole esplorare per contribuire a comporre un’«Agenda di speranza per il futuro del Paese », come recita il titolo della Settimana. Prima di ogni azione, la persona va riportata al centro, come viene suggerito nell’introduzione. Solo così «è possibile realizzare una riflessione e un dialogo che vada al di là della fede cristiana, aperto anche a chi non è credente ».
1) Fraternità, incontro, relazione, unità, comunione.
Una critica sociale viene subito espressa: «La società di oggi è segnata da un profondo individualismo che spesso degenera in egoismo ». Dunque è necessario agire per la ricomposizione, a tutti i livelli, di questa «rete di relazioni... La comunità cristiana in questo senso deve fare molto. È necessario scegliere come priorità lo stare insieme, il pensare insieme, il lavorare insieme». Un modo di relazionarsi che può concorrere alla costruzione del bene comune.
2 ) L’onestà, la legalità, la trasparenza
È evidente – sottolineano i giovani del Forum nazionale – che la nostra società ha bisogno di riscoprire «un clima di legalità, di giustizia, di trasparenza». Attenzione però: «La giustizia va intesa anche come distribuzione delle risorse ed equità nei guadagni, capace di tenere in considerazione prima di tutto chi è in difficoltà». A corollario si precisa che la legalità e la giustizia vanno vissute «fin dalle piccole cose di ogni giorno»: nella scuola, nel lavoro, nello sport e nel tempo libero. È qui che «vanno proposte e realizzate piccole scelte quotidiane di onestà».
3 ) La vita sociale e politica.
C’è bisogno che ogni cittadino si appassioni alla vita della città «in modo responsabile, competente e concreto». In questo senso «l’impegno politico è un servizio alla comunità», che va vissuto senza privilegi e con sobrietà. Il testo sottolinea la necessità di promuovere a tutti i livelli «la formazione socio-politica». Con una raccomandazione: «Le varie realtà ecclesiali sono invitate a non chiudersi» e a «dare vita a percorsi e scuole di formazione». I giovani passano dunque all’azione: «Oltre alla partecipazione concreta alla vita sociale e politica » chiedono di potersi confrontare con «chi ha responsabilità socio-politiche» e di sostenere «i media cattolici affinché diffondano le buone prassi che generano speranza».
4) L’educazione.
Il cambiamento e il rinnovamento della società necessitano di un processo di educazione integrale della persona. «Nella condivisione della responsabilità educativa, la comunità cristiana, guidata dai Vescovi – si legge ancora nel documento –, deve sostenere concretamente quanti sono più direttamente coinvolti nel servizio educativo», con un ruolo di primo piano assegnato ai valori della gratuità e del dono. Il denaro non è la garanzia per il buon funzionamento di una comunità, «lo è invece l’amore». Va riconosciuto infine «l’inestimabile valore della dignità della persona e della vita», mentre «la famiglia deve essere sostenuta e aiutata».
5) Il lavoro.
Il documento si apre alla speranza: «Il mondo degli adulti deve continuare a offrire la propria esperienza affiancando e sostenendo la crescita professionale dei giovani». La ricetta suggerit a per creare lavoro è semplice, ma non per questo è facile da realizzare: «Rompere il corporativismo», chiedono i giovani al mondo degli adulti, e garantire nuova vita alla «mobilità sociale intergenerazionale».
Da Avvenire di martedì 25 maggio 2010
INTERCETTAZIONI: COMUNICATO DELLA FNSI, CON POSTILLA DEL DIRETTORE
No alla logica del bavaglio Ma sì a una vera responsabilità
Del Direttore di Avvenire Marco Tarquinio
I direttori e le redazioni dei giornali italiani, con la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, denunciano il pericolo del disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche per la libera e completa informazione.
Questo disegno di legge penalizza e vanifica il diritto di cronaca, impedendo a giornali e notiziari (new media compresi) di dare notizie delle inchieste giudiziarie – comprese quelle che riguardano la grande criminalità – fino all’udienza preliminare, cioè per un periodo che in Italia va dai 3 ai 6 anni e, per alcuni casi, fino a 10. Le norme proposte violano il diritto fondamentale dei cittadini a conoscere e sapere, cioè ad essere informati.
È un diritto vitale irrinunciabile, da cui dipende il corretto funzionamento del circuito democratico e a cui corrisponde – molto semplicemente – il dovere dei giornali di informare.
La disciplina all’esame del Senato vulnera i principi fondamentali in base ai quali la libertà di informazione è garantita e la giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giornalisti esercitano una funzione, un dovere non comprimibile da atti di censura. A questo dovere non verremo meno, indipendentemente da multe, arresti e sanzioni. Ma intanto fermiamo questa legge, perché la democrazia e l’informazione in Italia non tollerano alcun bavaglio.
Non mi sento di sottoscrivere in tutto e per tutto il testo sopra riportato. Da direttore di Avvenire, fatico a riconoscermi in esso soprattutto per un motivo: nella riunione convocata dalla Fnsi ci sono stati anche accenti riflessivi e saggiamente autocritici da parte di vari autorevoli colleghi, ma di questi nel comunicato finale non v’è la minima traccia. Peccato. Credo che noi giornalisti non dovremmo perdere occasioni al cospetto dell’opinione pubblica per affermare il nostro lavoro più come servizio che come potere, più come responsabilità liberamente assunta e liberamente attuata che come libertà tout court.
Non voglio essere equivocato e perciò ribadisco anche qui, chiaro e tondo, che neanche a chi fa Avvenire piace l’idea di un possibile lungo 'silenziatore' mediatico alle inchieste su malavita, malafinanza e malapolitica: sarebbe pericoloso tentare di imporre un simile 'tappo' e, alla fine, in un grande Paese democratico come il nostro, sarebbe anche tormentosamente inutile. So però – lo dico da cittadino prima che da giornalista – che lo statu quo è ingiusto e insopportabile. Ci sono un bene da tutelare e un bene da recuperare. Va preservata l’efficacia dell’azione della magistratura, che non può e non deve ritrovarsi con armi spuntate nel suo impegno contro ogni forma di criminalità. E va ripristinato l’ossequio assoluto al principio di presunzione d’innocenza e, dunque, il rispetto delle persone coinvolte in inchieste anche scottanti che non possono e non devono più essere oggetto di incivili e inappellabili processi mediatici spesso segnati, grazie alla divulgazione di conversazioni telefoniche intercettate, da devastanti incursioni nella loro sfera privata. Anche questo dobbiamo sentire come dovere.
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