Da Avvenire di domenica 25 Aprile 2010
LA LEZIONE DI NAPOLITANO E I «SOLITI NOTI»
La vera coscienza del «25 aprile» GIOVANNI GRASSO
Contestazioni indegne ma la Liberazione (e riunificazione) è festa e vicenda comune
Le brutte, antidemocratiche e – per dirla tutta – 'fasciste' contestazioni a Roma e Milano contro esponenti istituzionali durante le celebrazioni del 25 aprile sono, probabilmente, un fenomeno marginale dal punto di vista numerico, visto che si tratta dei 'soliti noti', tempestivamente isolati e condannati da tutti gli altri. Ma non per questo risultano meno indegni e insopportabili, poiché negano nella sostanza i valori stessi di democrazia e convivenza che sono alla base dei festeggiamenti della ricorrenza della Liberazione. E attestano che ancora oggi in Italia esistono sacche di intolleranza politica contrarie alla pacificazione e all’unità nazionale: valori ai quali, sabato scorso a Milano, si è esplicitamente richiamato, con un discorso di altissimo spessore, il presidente Giorgio Napolitano.
Il dibattito sulla Liberazione e sulla Resistenza, che ha animato tutta la storia repubblicana, sembra essere finalmente giunto a una svolta. La prima fase è stata contraddistinta da un’enfasi retorica probabilmente eccessiva, ma funzionale alla creazione di una sorta di mitologia resistenziale.
Una seconda fase ha cominciato a mettere in evidenza alcune gravi pecche nel movimento partigiano, ma con un’ottica talvolta negazionista che offendeva la memoria delle circa 80 mila vittime dei combattenti per la libertà. Più recentemente si è espresso un giudizio più equilibrato, che ha preso atto delle molte luci e delle ombre che segnarono la lotta partigiana e che ha contribuito a riconoscere e valorizzare il ruolo di alcuni soggetti a lungo trascurati, come i militari, gli internati e la popolazione civile, che appartengono a pieno titolo alla vicenda, per usare le parole del capo dello Stato «della liberazione e della riunificazione d’Italia a conclusione di una drammatica divisione in due e di una profonda lacerazione del nostro Paese». Si sono, infine, levate molte voci di rispetto per i morti in buona fede da una parte e dall’altra, senza che questo implicasse una sorta di neutralità o equidistanza tra le ragioni di chi combatteva a fianco dei nazisti e chi a fianco delle truppe alleate. Un’impostazione , insomma, storico-politica rigorosa, frutto di ricerche e di studi, che sarebbe un errore liquidare come una sorta di compromesso accomodante e al ribasso.
Un equilibrio, raggiunto con molta fatica, che ha permesso alla stragrande maggioranza degli italiani di riconoscersi finalmente nei valori fondanti del 25 aprile, ovvero: sì alla libertà, alla democrazia, all’unità nazionale; no alla sopraffazione, alla dittatura, al razzismo. È un destino tutto italiano quello di usare la storia come clava nella competizione politica. E probabilmente la causa di questo non sempre commendevole sport nazionale va ricercato in motivazioni profonde, ovvero che i conti con la democrazia (di stampo liberale e occidentale) molte forze li hanno fatti solo in tempi piuttosto recenti (come non ricordare la presenza devastante per anni del terrorismo rosso e nero che ha insanguinato il nostro Paese, uccidendone gli uomini migliori?). È stato per molti necessario, insomma, un processo di depurazione lento, complesso, a volte contraddittorio, ma sincero e coraggioso. Un processo che ha lasciato, qua e là, qualche scoria di irriducibili e qualche inaccettabile strascico. Ma che si è , nel suo complesso, finalmente compiuto, a destra come a sinistra. E che sarebbe, oggi, un delitto grave, davvero antipatriottico e anti-italiano, negare (come qualcuno ha tentato di fare in piazza, domenica scorsa) o, a livello politico più generale, sottovalutare.
Da Avvenire di domenica 25 Aprile 2010
LA PAROLA DI PIETRO
«TORNARE AI VOLTI» NEL TEMPO DELLE ILLUSIONI
FRANCESCO OGNIBENE
Saranno pure digitali, ma i testimoni che a migliaia ieri mattina hanno colmato l’Aula Paolo VI fino all’ultimo posto in piedi sono sembrati anzitutto cristianissimi testimoni di gioia. Un colpo d’occhio, qualche parola scambiata tra la gente: e tra lombardi e siciliani, calabresi e veneti, gente che ha attraversato l’Italia dalla notte precedente per esserci, è parso subito evidente che hanno tutti fortemente voluto dire al Papa che gli vogliono un bene dell’anima.
Quella che ha accolto Benedetto XVI al suo apparire nella grande sala delle udienze è stata una carezza a lungo preparata, un’indiscutibile ondata di affetto. Il Papa ne è stato come avvolto: la Chiesa italiana – e la sua rappresentanza concentrata ieri in Vaticano la esprimeva in modo efficace – ha saputo dire la parola che portiamo tutti nel cuore accompagnando Benedetto nel suo sofferto cammino di queste settimane, un cammino faticoso che ad alcuni è parso vedergli trasparire sul viso. E il Papa ha colto questo flusso di sentimenti profondi, parlando subito della «fedele adesione a Pietro di tutti i cattolici di questa amata nazione». Di comunicazione si è riflettuto in questi giorni di convegno ecclesiale sui «Testimoni digitali»: e la comunicazione tra il pastore e il suo popolo raramente è parsa più intensa di ieri.
Anche per questo è suonato familiare, possibile, entusiasmante il compito assegnato dal Papa a quanti tra gli ottomila accorsi ieri si adoperano per dar voce al Vangelo dentro tutti i media in funzione. La missione, ancor più di ieri, è di saper «riconoscere i volti» di donne e uomini resi senza nome dal flusso immenso della comunicazione digitalizzata, e quindi «superare quelle dinamiche collettive che possono farci smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie ».
Ecco il punto: «Tornare ai volti », proprio mentre le relazioni si moltiplicano facendosi impalpabili e illudendo che la connessione permanente sia garanzia di non essere mai soli.
Ma quanto può essere davvero «uomo» – riconosciuto e rispettato come tale – chi galleggia su una nuvola di parole leggere, di informazioni senza mèta, di messaggi lanciati nel vuoto? Se è questo il modo in cui si estenua la comunicazione nell’era della tecnologia digitale, che la fa esplodere in un’infinità di coriandoli, le persone – avverte Benedetto – sono destinate a restare fantocci inerti, «corpi senz’anima, oggetti di scambio e di consumo». Cose, non persone. E ci stupisce ancora che, quando davvero conta la visione dell’uomo che uno si è lasciato costruire dentro, non si trovino le categorie per difendere la vita, la famiglia, la donna, i più piccoli? Per questo oggi non servono «tecnocrati » del comunicare ma «testimoni » credibili, convinti che questo «inquinamento dello spirito» vada bonificato a partire da un’idea chiara del mondo, un’antropologia coltivata, argomentata, convinta.
Come si fa? Basta guardare chi tiene saldamente il timone: è il Papa, che una volta ancora ci ha invitati a impegnarci «senza timori» a «prendere il largo nel mare digitale, affrontando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni governa la barca della Chiesa». Basta seguirlo, imitarne il coraggio e la limpidezza, e il più è fatto. È lui che mostra quale stile serva ad abitare «questo universo con un cuore credente». È lui che spiega come «non stancarsi di nutrire nel proprio cuore quella sana passione per l’uomo che diventa tensione ad avvicinarsi sempre di più ai suoi linguaggi». È lui, ancora, che chiede di saper vibrare di «profonda e gioiosa passione per Dio, alimentata nel continuo dialogo col Signore». Un testimone massimamente credibile. Ovvio che i «testimoni digitali» ne vogliano sostenere, oggi ancor più di prima, ogni risoluto passo.
Da Avvenire di venerdì 30 Aprile 2010
Agesci, chiamati a costruire il bene comune
BRACCIANO. Un cammino per diventare adulti nell’associazione e nel mondo, un impegno che ha come punto focale il bene comune. Sono questi alcuni dei temi che da oggi fino a domenica saranno al centro del 36° Consiglio generale dell’Agesci, l’Associazione guide e scout cattolici italiani.
L’appuntamento per i 300 delegati è, come di consueto per questo eventi annuale, a Bracciano (Roma), che è la località dove nel 1974 dall’unificazione dell’Asci (Associazione scout cattolici italiani), maschile e l’Agi (Associazione guide italiane), femminile, è nata l’Agesci. «Saranno due le questioni principali al centro dei lavori di Bracciano – spiega don Francesco Marconato, assistente nazionale dell’Associazione –: da un lato tenteremo di ridefinire dal punto di vista dello statuto la presenza degli adulti e dei capi nell’Agesci ma anche il ruolo dei ragazzi maggiorenni in associazione. A questo tema si affiancherà la riflessione sulle nuove Linee guida verso un nuovo Regolamento metodologico della Branca Rover e Scolte (fascia d’età dai 17 ai 21 anni)».
Ma il Consiglio generale, organo «legislativo» dell’Agesci, sarà anche l’occasione per riflettere su alcuni temi educativi di particolare attualità: «I chiari segni di disagio economico, sociale e valoriale che emergono anche nel nostro Paese, le difficoltà a progettare e costruire con e per i giovani un futuro ed una prospettiva positiva e solidale – spiegano gli organizzatori –, indurranno il Consiglio generale a concentrare gli sforzi dell’Associazione per valorizzare lo stile educativo e lo spirito di servizio al bene comune propri dello Scautismo. Un punto importante in trattazione è rappresentato dal tema, dell’educazione alla legalità». Non solo, sottolinea don Marconato, «ci soffermeremo anche sull’educazione all’affettività, un tema da sempre caro all’Agesci sul quale oggi serve un supplemento di riflessione davanti ai rapidi mutamenti sociali e culturali e alle nuove sfide educative». Un lavoro prezioso, quindi, quello del Consiglio generale dell’Agesci, che ben si inserisce nel cammino della Chiesa italiana, decisa a porre al centro del prossimo decennio proprio la questione educativa.
Da Avvenire di giovedì 29 Aprile 2010
Risparmi da incubo per una famiglia su tre
Ricerca Acli-Caritas: crescono i nuclei familiari costretti a tirare la cinghia anche su acqua, luce, gas e alimentazione
DAL NOSTRO INVIATO A SAN BENEDETTO DEL TRONTO (AP) PAOLO LAMBRUSCHI
Un’alleanza tra Acli e Caritas per la famiglia. In Italia lo impone la crisi che ha colpito soprattutto chi ha un mutuo o un affitto da pagare. Che quindi non riesce più a risparmiare e a progettare il proprio futuro e quello dei figli. Un quadro difficile, quello che emerge dalla ricerca delle due organizzazioni, presentata ieri al convegno nazionale delle Caritas diocesane e San Benedetto del Tronto, che si concluderà stamane. Dati raccolti dai due principali osservatori della povertà oggi in Italia in un’indagine compiuta da settembre 2009 allo scorso febbraio per capire come la difficile congiuntura abbia influito sui consumi famigliari. Acli e Caritas ieri hanno perciò sancito un’alleanza per aiutare chi stringe la cinghia, peraltro già avviata nei fatti a livello diocesano con la collaborazione nei fondi famiglia e lavoro.
Presentato dal presidente delle Acli Andrea Olivero, lo studio rivela che rimane elevata e stabile la quota di famiglie che hanno acquistato prodotti a basso costo, oltre il 66%. Italiani più risparmiosi, mentre sale di oltre dieci punti la percentuale che afferma di aver risparmiato sulla cura personale (dal 33% del settembre 2009 al 44,5% rilevato a febbraio) e, allo stesso modo, si nota un incremento della percentuale di famiglie che hanno risparmiato su acqua, luce e gas, il 32% nel 2010, ovvero +11,5% rispetto al periodo precedente. Infine, sempre due mesi fa, più di una famiglia su tre ha risparmiato sull’acquisto di pane, pasta e carne.
La differenza in Italia oggi corre tra chi possiede un immobile e chi non ce l’ha e sta facendo sacrifici superiori a qualche anno fa per pagarselo. Tra le famiglie proprietarie della propria abitazione, infatti, la percentuale che ha ridimensionato la spesa sui generi di prima necessità non arriva al 20%. In assenza di una casa di proprietà e di risparmi, la percentuale di famiglie fragili a dieta forzata sfiora il 70%. Se si deve insomma far fronte a un impegno di spesa periodico, come quello di un affitto o di un mutuo, occorre risparmiare anche su pane, pasta e carne.
La crisi non è finita per le famiglie. L’incubo che funesta la primavera del 2010 è la diminuzione del reddito familiare e quindi la povertà. Sette su dieci temono infatti concretamente di perdere il lavoro., soprattutto i nuclei con figli, sia le coppie che le famiglie mono- genitoriali. Su fronte dell’aiuto, il 65% delle famiglie intervistate ritiene che le strutture territoriali della Caritas debbano continuare a concentrarsi sul dispensare cibo e vestiti alle famiglie bisognose. Oltre il 30% chiede un’azione di sostegno psicologico e socio-assistenziale e interventi a sostegno dei redditi. Quanto ai provvedimenti governativi, tre famiglie giovani su quattro sono informate su social card e buono elettricità, ma solo una coppia anziana su tre è informata.
«Una nota di speranza tuttavia, arriva dalle famiglie sotto i 40 anni, - ha rivelato Olivero - il 62% di esse vuole fare progetti per il futuro. La crisi di fiducia non è quindi generalizzata: ci sono ancora famiglie che guardano più in là di oggi». Olivero ha rilanciato la proposta al governo di rivedere la social card per contrastare la povertà assoluta del 2% delle famiglie. Il presidente della Caritas, il vescovo di Lodi Giuseppe Merisi, ha accolto la proposta di un fronte comune con l’associazione, allargando ad esempio la partecipazione ai tavoli sull’immigrazione e all’Europa. Sui territori, la più grande associazione cattolica italiana e la realtà pastorale più diffusa possono già contare sui punti famiglia e i centri d’ascolto parrocchiali, dal quale avviare il lavoro sul campo a favore dei nuovi poveri.
Il 30% sollecita anche aiuto socio-assistenziale e psicologico oltre a interventi a sostegno dei redditi. Per il 65% le strutture territoriali devono continuare a dare generi di prima necessità.
Da Avvenire di mercoledì 28 Aprile 2010
LA FORZA DI CARITÀ E VOLONTARIATO
È’ INOSSERVATA E POSSENTE LA MACCHINA DEL BENE MARINA CORRADI
Da una ricerca condotta da Caritas e Acli presentata ieri emerge la tenuta e la robustezza del volontariato nel nostro Paese: quattro milioni e 400 mila volontari in Italia, il che, togliendo i bambini e gli ottantenni, vuol dire approssimativamente che una persona su dieci dà un po’ del suo tempo, gratis, a spesso sconosciuti altri. Nello stesso convegno si è ricordato che la colletta per i terremotati di Abruzzo indetta dalla Cei ha devoluto alla Caritas 27 milioni di euro: cifra tanto più considerevole se si pensa per quale anno di crisi il Paese è passato.
Notizie, verrebbe da dire, da un’Italia silenziosa, scarsamente visibile, non rilevata dai riflettori dei media, e che pure c’è. Oggi come domani i titoli più evidenti saranno per la rissa di palazzo, o per l’ultimo scandalo. Eppure sotto a questo rumore un altro Paese vive, lavora, fa del bene. Milioni di italiani, anche in un anno magro, hanno voluto dare il loro aiuto per la gente dell’Abruzzo. Milioni di persone dedicano qualche ora al mese a chi ne ha bisogno. I titoli dei giornali gridano, a volte assordano. L’esercito di pace che assiste malati o carcerati, o affida alla Chiesa la sua offerta per i senzatetto abruzzesi, procede invisibile, e non fa rumore – come non lo fa un bosco che cresce.
Non tutta questa Italia, certo, è riconducibile al mondo cattolico, che pure ne forma una consistente parte. Ma anche la carità 'laica', in un Paese come il nostro, affonda le sue radici in un humus da secoli impregnato di carità cristiana – quasi naturaliter cristiano. Non era degli antichi pagani, la pietà per i figli nati storpi; e ancora oggi in certe culture tribali i folli e certi malati vivono da paria, poveri 'demoni' non degni di misericordia. Quello sguardo diverso, che dà da mangiare ai poveri e va a trovare in galera gli assassini, da noi è eredità, magari anche inconsapevole; è un respiro tramandato. Fin da quando Tertulliano, nel secondo secolo, scriveva di come la sollecitudine dei cristiani per i miserabili lasciava stupefatti i pagani. Fin da quando i moribondi, un tempo abbandonati nelle strade, venivano accolti nel Medioevo nei primi ospedali cristiani. E in questa Italia oggi così diversa, spesso dimentica delle sue radici, e così travagliata da scontri di potere, accuse e divisioni profonde, tuttavia permane e opera come una macchina possente la carità di tanti. Inosservata, generosa, indifferente al rumore, ai veleni, alla crisi, anche all’età. La ricerca della Caritas rileva come sia considerevole il numero dei pensionati che vanno a fare volontariato: come avendo capito che a nessuna età si vive per sé soli. C’è stato chi, nell’auge del marxismo, teorizzava che in una società davvero giusta di carità non ci sarebbe più stato bisogno, quando lo Stato avesse assolto equamente ogni suo compito e dovere. Quel mondo perfettamente 'giusto', non lo si è visto mai, è utopia, idea che non trova modo di incarnarsi su questa Terra. Ma, ha scritto Benedetto XVI nella Deus caritas est, anche nella società più giusta l’amore sarà sempre necessario: «Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore».
Quell’amore che riconosce nell’altro, sconosciuto e ultimo, uno che ti assomiglia, come parte di te, generato dalla tua stessa radice – figlio dello stesso padre. In questa logica, consapevoli o magari no, milioni di uomini e donne in questo Paese ancora vivono. Senza vantarsene e senza stupirsene. In quel respiro ereditato, quotidiana abitudine al dare. Che ricchezza. Sotto alle granate degli scandali e delle risse che fanno notizia, ricchezza quasi invisibile agli occhi; caratteristica, come diceva Saint-Exupery, che è propria delle cose essenziali.
Da Avvenire di martedì 27 Aprile 2010
IL PICCOLO PREMATURO DI ROSSANO: ABORTITO, NATO VIVO E ABBANDONATO
Su quel minuscolo neonato lo sguardo che sa vedere un uomo
ASSUNTINA MORRESI
Quando è venuto al mondo non l’hanno guardato, un oggetto senza valore. Forse un essere umano, pur malformato, non merita attenzione?
Non ce l’ha fatta, ma ce l’ha messa tutta, il piccolo sopravvissuto a un aborto a ventidue settimane di gravidanza a Rossano Calabro: il primo giorno di vita – sabato – l’ha passato da solo, dimenticato da tutti, abbandonato in un angolo, avvolto in un fagottino da qualche parte nell’ospedale in cui era stato abortito, finché un prete, venuto la mattina dopo a pregare per lui, si è accorto che era ancora vivo e ha dato l’allarme, ma non è bastato a salvarlo. Ed è morto la notte stessa, in un altro ospedale dove era stato trasferito per tentare un salvataggio tardivo, ormai impossibile.
Nel diffondere la notizia, ieri, i media hanno cercato di mascherare l’orrore usando un linguaggio surreale: si tratterebbe di un «errore» del personale sanitario che «non ha monitorato il feto dopo l’espulsione». Ma un essere umano lo chiamano 'feto' finché sta nella pancia della sua mamma: una volta che ne viene fuori è un neonato. E poiché l’aborto a ventidue settimane è in sostanza un parto indotto, la verità è che sabato scorso è venuto al mondo un piccolissimo neonato fortemente prematuro, e nessuno si è accorto che era vivo perché non doveva esserlo: era 'solo' un aborto.
E invece avrebbero dovuto far di tutto per salvargli la vita, addirittura secondo quella stessa legge 194 invocata per abortirlo: se c’è possibilità di vita autonoma per il nascituro – si legge all’articolo 6 – la gravidanza si può interrompere solo se la madre è in «grave pericolo di vita» – si badi bene, solo in questo caso – e il medico deve «adottare ogni misura idonea» per salvare il figlio.
Sostanzialmente, la legge dice che se una donna con una gravidanza avanzata rischia di morire, ma il figlio che ha in grembo ha qualche possibilità di sopravvivere, l’aborto è vietato e il medico la fa partorire per salvarle la vita, cercando di salvare pure il piccolo. Un parere recente del Comitato nazionale per la bioetica – che riguardava le cure riservate ai grandi prematuri, cioè ai nati molte settimane prima del termine naturale della gravidanza – invitava a una adeguata applicazione di questa parte della 194, ribadendone la forte indicazione per una salvaguardia della vita del nascituro, quando ce n’è la possibilità Sembra però che l’aborto sia stato effettuato perché il piccolo era malformato: una pratica eugenetica, quindi, che non è consentita dalla legge ma che purtroppo pare essere la realtà della stragrande maggioranza degli aborti tardivi.
Sicuramente bisognerà verificare con il massimo rigore se la legge è stata rispettata. Ma non è solo questo il punto che ci interessa: la gravità assoluta di quanto successo, se tutti i fatti fossero confermati, è che quando il piccolo è nato, a quanto pare, non l’hanno neppure guardato. L’hanno lasciato in un angolo, come un oggetto senza valore. Forse un minuscolo essere umano, pur abortito e malformato, non merita attenzione? Non a caso, ad accorgersi che era vivo è stata una persona che era andata a pregare per lui, e che voleva farlo accanto a lui: quel sacerdote era andato a pregare per un altro essere umano. Gli è andato vicino, lo ha guardato, e ha visto che era un proprio simile.
Piccolissimo, ma esattamente come lui. Non è stato un clinico particolarmente abile a riconoscere i segni di vita del piccolo, ma un uomo che ne ha guardato un altro e che lo ha riconosciuto, così diverso e al tempo stesso così uguale. Non servono specialisti per 'vedere' il prossimo, né leggi severe, o pareri pensosi: è sufficiente l’umana pietà, che forse è morta ieri notte, insieme a quel neonato.
Da Avvenire di martedì 27 Aprile 2010
Educare a essere liberi per il bene e il vero
Da LA SPEZIA Francesco Bellotti
Partecipazione ed entusiasmo, a La Spezia, per la «due giorni» sulla «Sfida educativa».
Duecentocinquanta delegati hanno preso parte ai gruppi di lavoro tematici (su Chiesa, famiglia, scuola, media e cittadinanza), condividendo analisi e proposte sulla base del lavoro svolto nelle parrocchie e nei movimenti con il coordinamento della diocesi.
Nelle conclusioni, il vescovo di La Spezia-Sarzana Brugnato monsignor Francesco Moraglia, ha detto che intende ragionare sui contributi del convegno per l’elaborazione della proposta pastorale per i prossimi due anni. Aprendo i lavori, il presule aveva invece richiamato le lineeguida del cammino formativo, sottolineando l’importanza dell’educazione per portare a compimento le potenzialità specifiche della natura umana: ragione, coscienza, libertà. Per costruire l’identità di una persona serve una «libertà-per», aperta all’appartenenza ad un progetto buono e vero. La «libertà-da» definisce l’uomo solo in termini negativi (quello che non si vuol fare), e pertanto non basta. Bisogna quindi armonizzare diritti, doveri e responsabilità. Il pensiero debole attuale, attraverso il relativismo, prende le distanze dalla verità e porta alla perdita di centralità della persona e all’impossibilità dell’educazione. Per i credenti è invece necessario proporre pubblicamente un’antropologia che esprima la relazione uomo-Dio.
Non per imporre una fede, ma per promuovere valori condivisibili dalla ragione umana: la centralità della persona (in quanto tale, non solo in certe condizioni); la solidarietà; la legge di natura (perché se la abbandoniamo, tutto diventa possibile).
Tutte le informazioni e gli aggiornamenti sul Convegno si trovano all’indirizzo internet:
http://sfidaeducativalaspeziablog.wordpress.com
sabato 1 maggio 2010
PortaParola Ravenna del 1/5/2010
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