Festa della Madonna greca
A 910 anni dal suo approdo
FESTA DELLA MADONNA GRECA patrona della città di Ravenna
settimana mariana 9 - 18 aprile 2010
11 APRILE DOMENICA IN ALBIS
PORTO CORSINI
11.00 Santa Messa celebrata da S.E. Mons. Giuseppe VERUCCHI, Arcivescovo di Ravenna - Cervia
15.00 Trasferimento via mare della Sacra Immagine al Faro di Marina di Ravenna
MARINA DI RAVENNA – FARO
15.30 Arrivo della Sacra Immagine della Madonna Greca Segue la Benedizione "MARIS GENTIUM BENEDICTIO" impartita dall'Arcivescovo
15.45 Partenza con la motonave per processione lungo il Canale Candiano
RAVENNA
17.00 Processione in città verso la Basilica di Santa Maria in Porto Accompagna la Banda musicale di Ravenna
18.30 Celebrazione Eucaristica presieduta da S.E. Mons. Giuseppe VERUCCHI, Arcivescovo di Ravenna - Cervia
Benedizione della statua di Giovanni Paolo II
Annullo speciale di Poste Italiane in occasione dei 910 anni dell'approdo della Sacra Immagine
Il programma della settimana mariana è nella tua parrocchia e sul sito web www.santamariainporto.it
La storia e la descrizione dell'icona
La Madonna Greca, la Vergine che viene dal mare
La "Madonna Greca" è la patrona della città di Ravenna.
Si deve a questa Madonna l’aver reso saldo nel tempo il legame tra Ravenna e l’Oriente.
L' immagine della Madonna Greca, venerata nella basilica-santuario di Santa Maria in Porto, è un delicato bassorilievo bizantino scolpito su marmo pario, che rappresenta la Madonna in atteggiamento di preghiera con le braccia alzate è vestita di una lunga e ricca tunica, fermata in vita da una cintura, che lascia intravedere alcune tracce di color porpora e di oro lungo i bordi del manto stesso e sulla quale sono distribuite undici piccole croci di metallo dorato ed il nimbo oggi coperto in parte dalla corona aurea che Giovanni Paolo II appose nel 1998 in onore della Vergine.
Ai lati del capo della Madonna, circondato da un’aureola, vi sono due scudi rotondi che recano inciso a lettere greche il monogramma Mπ ΘY "Madre di Dio".
La festa della Madonna Greca viene celebrata a Ravenna la prima domenica dopo Pasqua (Domenica in Albis) perché, secondo la leggenda, l'immagine della Vergine apparve sul litorale di Porto Fuori, nei pressi di Ravenna, proprio la Domenica in Albis del 1100.
Poco prima dell'alba dell'8 Aprile 1100, Domenica in Albis, Pietro degli Onesti, secondo la leggenda tramandata dalle Carte Portuensi, stava recitando con altri sei monaci il mattutino, quando l'abside venne rischiarata da una luce. Non trattandosi della luce del sole, i monaci uscirono sulla spiaggia per seguire il chiarore che aveva ferito la notte e grande fu la loro meraviglia quando videro che sulle acque galleggiava un’immagine della Madonna, scortata da due angeli, ognuno dei quali recava una luminosissima fiaccola. Di fronte al prodigio i monaci si inginocchiarono e dopo aver salutato la Vergine con preghiere e canti, esortarono il beato Pietro a prendere la sacra immagine. Pietro, però, non si riteneva degno di accogliere la Vergine (si considerava "peccatore" e come "Pietro peccatore" sarebbe passato alla storia) ed invitò i suoi confratelli ad andare incontro alla sacra immagine. Questi, però, non riuscirono nell' intento perché la Vergine si allontanò di fronte al loro avvicinarsi. Sollecitato di nuovo dai confratelli ad andare incontro alla Vergine, il beato Pietro protese le braccia ed a questo gesto gli angeli scomparvero e la sacra immagine gli si fece incontro.
Così narra la leggenda, unica testimonianza scritta che racconti l'approdo sulle spiagge ravennati dell'immagine sacra. È certo, comunque, che il bassorilievo venne realizzato in qualche "officina" sulle rive del Bosforo, da dove si imbarcò su di una nave ai tempi della prima crociata, probabilmente per sfuggire allo scempio dell'iconoclastia. Non si esclude l'ipotesi che sia stato uno dei crociati a portarla dall'Oriente fino a noi.
Unico dato certo è che nei dintorni di Ravenna esisteva sin dal XII secolo un tempio dedicato a Maria, eretto da Pietro degli Onesti sul luogo dove successivamente sarebbe sorta quella "casa di nostra Donna in sul Lido Adriano" (Dante, Paradiso, Canto XXI), oggi Santa Maria in Porto Fuori, che andò interamente distrutta durante un’incursione aerea notturna il 6 Novembre 1944.
In questa chiesa, che per diverso tempo custodì l'immagine della Vergine Greca, si conservavano il sarcofago di Pietro "peccatore" (ancora oggi visibile) ed alcuni affreschi della scuola giottesca romagnola, dei quali oggi è possibile ammirare solamente alcune tracce. Presso la stessa chiesa, inoltre, era fiorente la pia unione dei "Figli e delle Figlie di Maria", fondata dallo stesso Pietro degli Onesti allo scopo di promuovere il culto della Vergine e di ricordarne l'arrivo ogni Domenica in Albis.
La pia unione, all'inizio del Trecento, poteva contare su ben 700 mila iscritti, in tutta Europa.
Verso la metà del XV secolo, Ravenna passava sotto il dominio dei Veneziani ed il nuovo priore veneto del tempio dedicato a Maria, Silvano Morosini, iniziò la costruzione di un nuovo monastero in città per sfuggire alle incursioni dei pirati che andavano infestando il litorale. La posa della prima pietra avvenne il 5 Agosto 1496 e nel 1503 l'immagine della Madonna Greca lasciò la chiesa di Porto Fuori per trovare nuova sistemazione in una cappella all'interno del nuovo chiostro.
Nel febbraio 1511, alla vigilia del "sacco di Ravenna" del 1512 ad opera delle truppe francesi di Gastone de Foix, Papa Giulio II fu ospite dei canonici di Porto e con una solenne bolla, il cui testo si trova inciso su una tavola di marmo nell'ambularco della sacrestia, concesse favori spirituali a quanti avrebbero esarcito elemosine in favore della fabbrica del nuovo tempio che sarebbe sorto in onore della Vergine Maria.
La prima pietra del nuovo tempio, sulla quale stava inciso "Maria Graeca Portuensium Mater, Ravennatum Protectrix", venne posata il 13 Settembre 1553 dal priore Vitale Mercati il quale aveva ottenuto da Papa Paolo III, che pochi anni prima era stato ospite dei canonici, la concessione di poter demolire l'ormai labente basilica di San Lorenzo in Cesarea, per poter utilizzare il materiale ed ereditarne i privilegi.
Nel 1570 Vitale Mercati, promosso alla dignità di Abate da Pio V, poté compiere la solenne traslazione dell'immagine della Vergine Greca dalla cappella interna del chiostro al tempio ormai in via di ultimazione.
Il culto della Vergine fu continuato anche dal successore di Mercati, l'Abate Serafino Merlini, tant'è che dopo la sua morte, avvenuta nel 1623, le pareti della cappella erano ricoperte di ex voto per grazie ottenute. La basilica, intanto, fu ultimata nella facciata e nella gradinata solamente nel 1784, pochi anni prima della "rivoluzione francese" che lasciò anche a Ravenna i suoi segni. Il santuario, infatti, fu spogliato e depredato, ed i monaci vennero espulsi. Vi fecero ritorno, però, nel 1828 e vi restarono fino al 1870; ma a causa dell'incameramento dei beni ecclesiastici si trovarono nell' impossibilità di sostenersi e pertanto lasciarono il convento al clero diocesano. L'arcivescovo Vincenzo Moretti ed i suoi successori si fecero promotori del culto della Vergine che venne solennemente incoronata il 21 Aprile 1900 dal Capitolo Vaticano nella basilica Metropolitana.
Nel 1947 fu eletto arcivescovo di Ravenna monsignor Giacomo Lercaro, che il 1 Febbraio 1948 promosse la consacrazione della città di Ravenna al Cuore Immacolato di Maria ed affidò il santuario di Santa Maria in Porto ai sacerdoti salesiani di Don Bosco.
Nel 1952, per l'instancabile opera di Don Spartaco Mannucci, fu rinnovata la solenne incoronazione ad opera del cardinale Idelfonso il quale consacrò la città e la diocesi alla Madonna.
Da www.CulturaCattolica.it di sabato 3 aprile 2010
Gli esami non finiscono mai
di Mangiarotti, Don Gabriele
Sarà pur vero che “molti nemici, molto onore”, ma, ad essere sinceri, non ne possiamo più di questo accanimento nei confronti della Chiesa da parte di chi vorrebbe continuamente trasformarla a propria immagine.
Già Eduardo de Filippo, in una indimenticabile opera teatrale da lui scritta ed interpretata, affermava che gli esami non finiscono mai! E sembra che la Chiesa, i suoi esponenti di prestigio, ma anche i singoli fedeli debbano continuamente rispondere a chiunque pretenda da loro spiegazioni, e non sia d’accordo con quanto vanno affermando (e questo non è certamente il caso indicato dalla lettera di San Pietro).
Abbiamo assistito alle denunce nei confronti di chi chiamava omicidio legalizzato la morte procurata ad Eluana (ed ora, anche dopo lo splendido lavoro di Lucia Bellaspiga e di Pino Ciociola, sembra che di ragioni per tale giudizio ce ne siano da vendere); abbiamo assistito alla continua denuncia, che ha persino raggiunto il vertice della Chiesa, il Papa, per quanto ha fatto nei confronti dei preti pedofili (con la pretesa che la Chiesa agisca secondo il parere degli opinion leaders, valido però solo riguardo ai preti, perché, altrimenti, tale reato gode di tolleranza quasi assoluta). Ma ora assistiamo al colmo: padre Cantalamessa, nella omelia del Venerdì Santo in San Pietro, non può equiparare l’odio alla Chiesa all’odio antisemita, ed è necessario che la sala stampa vaticana produca le sue scuse a tutti gli indignati.
Non conosco padre Cantalamessa, ma esprimo a lui tutta la mia solidarietà. L’odio antisemita, che si è scatenato in Germania ai tempi di Hitler, è cominciato dall’odio nei confronti di quei vescovi cattolici che si sono opposti allo sterminio degli handicappati (rifulge la figura del cardinale Von Galen, il leone di Munster). È stato in seguito a tale denuncia che è iniziata la feroce campagna contro i preti che si sarebbero macchiati di gravissimi abusi sessuali, orchestrata da Goebbels. Ed anche in questa situazione quanti sono stati i benpensanti che si sono, allora come ora, uniti al coro di disprezzo e riprovazione!
Rivendico il diritto di esprimere un proprio personale giudizio, allorché non offensivo e motivato, sui fatti della storia e su quanto accade nel presente. Senza censure preventive o postume. Non abbiamo il bisogno di passare ogni volta l’esame del “politically correct”, desideriamo solo testimoniare la verità, consapevoli che possiamo sbagliare, ma certi di un dovere a cui non possiamo sottrarci. Nella speranza che, invece che farci le scarpe reciprocamente, ci si decida a un lavoro comune per il bene dell’uomo. Oggi, di questo impegno, c’è un bisogno inaudito. Forse la Pasqua può ancora indicare, all’uomo di oggi, la strada.
Da www.Cittànuova.it di mercoledì 7 aprile 2010
E adesso chi paga?
di Giulio Meazzini
Soppresse le agevolazioni per le spese postali di quotidiani e periodici. Colpite soprattutto le organizzazioni no-profit. Il dilemma ora è: aumentare il prezzo degli abbonamenti o uscire più di rado?La protesta si diffonde in rete.
Anche Città Nuova, come molti altri periodici, è nei guai. La spedizione del numero 7, che sta arrivando in questi giorni nelle case, è costata diverse migliaia di euro in più del solito. Colpa del decreto del governo del 30 marzo 2010, immediatamente valido, che ha soppresso le tariffe agevolate postali per l’editoria libraria, quotidiana e periodica.
In più, come casa editrice, Città Nuova deve sopportare oneri supplementari di spedizione postale per ogni libro inviato.
Colpite in modo particolare le associazioni no-profit che hanno calcolato rincari del 500 per cento per qualsiasi iniziativa che passi per l’invio di opuscoli lettere o volantini via posta.
Sull’onda delle preoccupazioni per le pesanti conseguenze immediate, molte associazioni, dalla Fondazione Don Gnocchi a Telethon, da Medici senza frontiere a Telefono azzurro hanno fatto sentire la loro voce chiedendo al governo di ritirare il decreto.
Sul web la protesta corre, con molte iniziative, tra cui un appello lanciato dal settimanale Vita contro l’aumento delle tariffe postali. Città Nuova aderisce a questo appello.
da Vita Pastorale di aprile 2010
Convegno della Cei Roma, 22-24 aprile
Testimoni digitali di DOMENICO POMPILI direttore dell’Ufficio nazionale delle comunicazioni sociali Cei
Presentiamo il grande appuntamento che attende la Chiesa italiana nell’ambito delle comunicazioni sociali, delineandone gli obiettivi, i principali contenuti, e alcuni accenni alle relazioni.
Un nuovo continente da evangelizzare: ecco come la Chiesa guarda a Internet. Benedetto XVI lo ha ripetuto più volte invitando i giovani prima e i sacerdoti poi ad "abitare" la Rete e a essere anche lì araldi del Vangelo. Quello delle comunicazioni sociali è un mondo in costante, rapidissima evoluzione. Mentre prima i mass media erano ben definiti nella loro individualità, ora si sono come liquefatti nel nuovo ambiente tecnologico. Internet e i social network, in un modo che per certi aspetti può essere percepito quasi come "magico", rappresentano degli straordinari catalizzatori di rapporti, capaci di azzerare le distanze spazio-temporali tra le persone.
Allo stesso tempo, possono mettere in crisi il significato della "presenza", nella misura in cui la semplice connessione non riesce a compiere il decisivo salto di qualità che la trasforma in una relazione interpersonale. Anche la missione della Chiesa si sta rapidamente evolvendo. Oggi non basta più soltanto "stare" dentro il mondo dei nuovi media, "occuparlo"; bisogna starci con un profilo riconoscibile perché il contesto pluralistico nel quale ci troviamo esige che siamo chiaramente riconoscibili.
La Chiesa è chiamata a comunicare, anche attraverso le nuove tecnologie, il suo sguardo assolutamente originale sulla realtà: lo sguardo della fede. Internet diventerà sempre più un luogo in cui l’annuncio del Vangelo trova cittadinanza, oltre che un "cortile dei gentili" per incontrare i lontani, nella misura in cui noi cristiani sapremo starci "da cristiani" e sapremo passare dallo "stare in rete" all’essere rete, prima di tutto tra di noi. C’è anche questo tra gli obiettivi del prossimo convegno nazionale Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale, promosso dalla Cei, che si terrà a Roma dal 22 al 24 aprile e chiamerà a raccolta quanti si occupano di comunicazione e cultura nel nostro Paese. L’obiettivo che il convegno si prefigge è racchiuso già nel titolo che è stato scelto. "Testimoni digitali": un sostantivo e un aggettivo.
Perché digitali?
Partiamo dall’aggettivo "digitali": esso indica la nuova condizione in cui oggi i mass media sono in qualche modo sciolti. La tecnologia digitale, infatti, sta ridefinendo i vecchi e i nuovi media, cambiando anche la nostra vita quotidiana e relazionale. Il convegno intende mettere a tema questa nuova condizione culturale profondamente connotata dal digitale. L’aggettivo, però, è preceduto dal sostantivo "testimoni", che è l’elemento fondamentale: esso evoca un atteggiamento, di fronte ai cambiamenti che stanno avvenendo sotto i nostri occhi, che non deve essere né pregiudiziale né rassegnato. Anzi: dentro questa nuova condizione noi dobbiamo essere dei testimoni, cioè dei soggetti che siano in grado d’interpretarla. Non solo! Essere testimoni significa rimandare a qualcosa di ulteriore e nell’accezione cristiana il testimone fa riferimento al Vangelo. La sfida è di essere dentro il contesto digitale facendo risuonare la parole del Vangelo di cui ciascuno è testimone.
Il convegno sarà articolato in quattro fasi. In un primo momento, introdotto da mons. Crociata e centrato sulla relazione di Nicholas Negroponte (uno dei massimi esperti mondiali di media), si cercherà un’analisi tecnologica dei nuovi scenari mediatici, che in un secondo momento saranno esaminati da un punto di vista antropologico (con la presentazione di una ricerca curata apposta per "Testimoni digitali" dall’Università cattolica).
L’obiettivo si sposterà poi su come i volti e i linguaggi dell’era crossmediale interpellino l’annuncio del Vangelo da un punto di vista teologico, pastorale e pedagogico: a tirare le fila di questo momento sarà la relazione del cardinale Bagnasco.
Infine, Benedetto XVI riceverà in udienza i partecipanti al convegno e conferirà loro il mandato di evangelizzare il continente digitale. Durante il convegno (e fin da ora attraverso il sito www.testimonidigitali.it) tutti potranno contribuire in modo interattivo alla riflessione.
Da Avvenire di venerdì 9 Aprile 2010
L'INTERVISTA A GIUSEPPE GHIBERTI
La Sindone, messaggio d'Amore
di Mimmo Muolo
Si potrebbe dire che davanti alla Sindone ha passato più di vent’anni. A studiare i rapporti tra la preziosissima reliquia e il Vangelo, fin dai tempi dell’ostensione del 1978. Poi negli ultimi due decenni monsignor Giuseppe Ghiberti è stato l’incaricato delle questioni sindoniche per conto dagli arcivescovi di Torino. Chi dunque meglio di questo sacerdote 76enne (è nato nel 1934) e ordinato sacerdote nel 1957 per la Chiesa di Torino, presidente della Commissione diocesana per la Sindone, può parlare della devozione per il Sacro Lino? Tra l’altro con grande cognizione di causa, poiché fin dall’inizio del suo ministero presbiterale si è dedicato allo studio e all’insegnamento del Nuovo Testamento. E così il suo punto di osservazione diventa qualcosa di veramente privilegiato per poter affermare che l’Uomo della Sindone, chiunque egli sia, ha molto da insegnare anche agli uomini e alle donne del nostro tempo. Proprio perché, in quanto immagine di una sofferenza estrema, in grandissima parte coincidente con quella della Passione di Cristo, è un testimone attendibile di tutto quello che Gesù ha dovuto subire per la nostra salvezza.
Monsignor Ghiberti, in questi anni la devozione alla Sindone si è accentuata rispetto al passato o la prova del carbonio 14 ha avuto qualche effetto anche sotto tale profilo?
Qualche segno di maggiore serenità di fronte alle polemiche passate mi pare di intravederlo, pur accompagnato da uguale entusiasmo e commozione. La diffusione della conoscenza della Sindone e anche del suo messaggio mi sembra notevolmente cresciuta, soprattutto in qualche strato, come la popolazione scolastica.
Che cosa rappresenta la Sindone per i fedeli?
A Gesù i fedeli che guardano la Sindone si riferiscono in ogni modo, anche se distinguono più facilmente fra quanto è scientificamente acquisito e quanto si trova ancora allo stato incompiuto. La Sindone è la testimonianza più toccante della sofferenza affrontata da Gesù per amore; inoltre provoca anche il salutare disagio di un richiamo a conversione seria.Che cosa insegna l’Uomo della Sindone a colore che si soffermano a contemplare il suo mistero?
Insegna che il peccato non è un modo di dire, insegna che l’amore da parte del nostro Redentore ha avuto un grande prezzo; che quella sofferenza ha qualcosa da dire alla mia, che il suo silenzio vuole essere imitato in una ricerca di interiorità di vita che sappia distinguere il passeggero dall’eterno.
Come si può utilizzare pastoralmente questo oggetto?
La Sindone è un richiamo alla serietà: dell’annuncio, della vita, dei valori che abbiamo sempre in bocca e che rischiano di diventare parole vuote. Un fatto di tale concretezza non può lasciare indifferenti, se ci si misura seriamente con esso. Anche oggi, come già nella storia passata, vedere Gesù soffrire a quel modo, uomo a causa degli uomini e in favore degli uomini, spinge a uscire dal chiuso delle nostre preoccupazioni private e a programmare in favore di tanti che non hanno né conoscenza né mezzi.
Ci racconta qualche episodio di devozione che l’ha particolarmente colpita?
La Sindone, a detta della nostra gente, sembra che non faccia miracoli; poi però si sente sempre la confidenza di chi confessa di avere ricevuto tanta pace dalla contemplazione di quell’immagine. Tra gli esempi più silenziosi e commoventi mi colpiscono i comportamenti di molti dei nostri più che quattromila volontari: ore e ore in piedi, con la corona del rosario in mano e tanta pazienza nella bisaccia...
Che cosa hanno aggiunto alla devozione popolare le visite dei Pontefici e che cosa ci si deve attendere da questa nuova Ostensione e dalla prossima visita di Benedetto XVI?
I miei ricordi giungono solo fino a Giovanni Paolo II, che venne a Torino poche settimane prima di essere eletto Papa, nel 1978, e poi ebbe un’Ostensione privata nella sua visita del 1980. Ma la visita per eccellenza fu il pellegrinaggio del 1998. Erano giorni di evidente sofferenza, eppure sostenne il peso della giornata con grande coraggio, rifiutando di servirsi dell’ascensore per salire in Duomo. Anche la parola venne con difficoltà, ma ciò che disse rimase nel cuore di tutti ed è insegnamento rivisitato anche oggi, per una sana distinzione fra quanto è essenziale e quanto lo è meno nella devozione sindonica. L’esempio dell’adorazione al Santissimo Sacramento che precedette la venerazione della Sindone fu accolto da tutti con commozione. La visita di Benedetto XVI che attendiamo per il 2 maggio ci porterà certamente nuovo aiuto alla riflessione e incoraggiamento nella pastorale ispirata al messaggio della Sindone.
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