sabato 17 aprile 2010

PORTA PAROLA 17 APRILE 2010

Da Avvenire di venerdì 16 Aprile 2010
GLI 83 ANNI DI BENEDETTO XVI
MILLE VOLTE GRAZIE LA NOSTRA SPERANZA È TAGLIATA DA ROCCIA ANTICA
MARINA CORRADI
Oggi il Papa compie 83 anni. Tanti ne sono pas­sati da quel giorno di Sabato Santo a Marktl am Inn, in Baviera, quando si aspettò, in una not­te di neve, l’alba di Pasqua per fare battezzare quel bambino con l’acqua appena benedetta, con l’ac­qua 'nuova'. E già questo particolare dice della provenienza da un cristianesimo profondo, ere­ditato con il respiro prima che con le parole da u­na madre e da un padre. Da questo humus viene Benedetto XVI, e da una storia che a noi, che po­tremmo essere suoi figli, appare remota e spa­ventevole. La guerra, e il nazismo incalzante. E un ragazzo di 17 anni, richiamato al Servizio lavora­tivo del Reich, che un vecchio ufficiale una notte in caserma cerca di indurre all’arruolamento 'vo­lontario' nelle SS. «Io con alcuni altri ebbi la for­tuna di poter rispondere che volevo diventare pre­te cattolico», ha raccontato Ratzinger nella sua autobiografia, e ha aggiunto: «Venimmo ricoper­ti di scherni e di insulti». Agli insulti e agli attacchi in ragione della sua fe­de il Papa s’è abituato presto; e non sono quelli di oggi, crediamo, a poterlo turbare – se non, forse, per l’eco di una avversione più grande, oltre la sua persona, alla Chiesa intera, di cui alcuni titoli mo­strano il riverbero. Più degli attacchi forse pesa il dolore per un male per cui, ancora ieri, il Papa ha invocato «penitenza». E allora per i suoi 83 anni, Santità, più che una solidarietà oggi vorremmo dirle di una gratitudine. Una gratitudine profon­da per ciò che lei testimonia ed è; con quella sua storia iniziata per noi in un tempo lontano, ma arrivata limpida e fedele ad oggi. Per una sensibi­lità che si incontra nelle sue parole, dalla ' Spe Sal­vi ' al 'Gesù di Nazareth', e che va diritta alle domande e ai dub­bi dei cristiani di questo mo­mento storico. Perché è stra­no: stupisce, in un uomo cresciuto naturaliter cri­stiano, che sia così inten­samente cosciente dei dubbi della generazione successiva, quasi inconsa­pevolmente invece forma­ta nel relativismo. Un Papa che in una enciclica do­manda: «La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la vita, o è ormai soltanto una informazio­ne accantonata?» mostra di ben conoscere il tarlo che educatamente ci ro­de e sussurra che, via, la verità dei Vangeli è anti­quata, e non regge il confronto con le splendide sorti dell’umano progresso, e del 'libero' pensie­ro. Ma poi che appassionata istruttoria, nella stes­sa ' Spe salvi ', a mostrare la bruciante contem­poraneità delle antiche parole: « Spe salvi facti su­mus », nella speranza siamo stati salvati.
Passione e insieme lucidità, rigoroso uso della ra­gione. Anche di questo, grazie. Per la sfida che da anni conduce, prima e dopo Ratisbona: il Dio in cui crediamo non mutila, in niente, l’uso pieno della nostra umana ragione. (Grazie, perché nei li­cei del dopo ’68 a molti di noi hanno insegnato che il cristianesimo era una speranza da illusi).
E grazie, in questo compleanno in giorni amari, della disarmante audacia della Lettera ai cattoli­ci d’Irlanda. Della sollecitudine per gli innocen­ti, in realtà già mostrata nelle linee guida della Congregazione per la dottrina della fede, dove si affermava che in qualsiasi momento del proce­dimento canonico al vescovo locale è conferito «il potere di tutelare i bambini». Della coscienza, nella Lettera agli irlandesi evidente, che «nulla può cancellare il male sopportato» dalle vittime. (Nulla, tranne Cristo: il cui amore è più grande di ogni male).
E grazie, ancora, dell’esempio indicato nel 'Gesù di Nazareth': il «vir desideriorum» del Libro del profeta Daniele, l’«uomo dei desideri», che «non si accontenta della realtà esistente e non soffoca l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande».
E lo sappiamo in fondo, che tanti attacchi affon­dano radici in qualcosa che va oltre tutte le accu­se espresse. È la radicale opposizione della Chie­sa alla mentalità del 'mondo', ciò che alimenta una ostilità che cova e lievita, e a tratti sbuca alla superficie. È la pretesa cristiana di insegnare ai fi­gli un altro senso, e tutta un’altra logica, da quel­la che ci vorrebbe docilmente allineare. È la fe­deltà al «non conformatevi» di Paolo, il duro an­tico nodo dello scontro. Quel «non conformate­vi » che vede in lei, Santità, un testimone. Tenace nella storia attraversata. Come tagliato da una roc­cia antica.


Da Avvenire di venerdì 16 Aprile 2010
VIANELLO E NON SOLO L’UOMO GIUSTO
Quella «vecchia» tv ricca del suo stile
UMBERTO FOLENA
Era stato l’uomo giusto nato nel Paese giusto.
L’Italia del dopoguerra aveva bisogno di scrollarsi di dosso la tristezza e a riuscirci ci pensava anche quel giovanottone lungo lungo, dalla faccia tutt’altro che italiana, semmai britannica, proprio come il suo humour giocato sul paradosso raffinato e sull’ironia, digeribile da chi ne è bersaglio perché è innanzitutto autoironia.
Era diventato l’uomo giusto nella televisione giusta, nel 1954, proponendo con Ugo Tognazzi, nel varietà 'Un due tre', una delle coppie meglio assortite: due protagonisti, nessun comprimario. Fece il bis accanto a Sandra Mondaini, coppia giusta nella televisione giusta, ancora due protagonisti alla pari senza gregari, a dare un tocco di intelligente leggerezza al mitico 'Studio Uno'. Ma quella televisione, la vetero-tv, non era ancora il centro dell’universo. Sapeva di non essere la realtà ma di doversi limitare a rappresentarla, in appena alcuni suoi aspetti, comunque in modo incompleto. In quella tv, Raimondo Vianello appariva ammiccando e scompariva sorridendo. Intanto girava una cinquantina di film, attore giusto nel cinema giusto, quando le città pullulavano di sale cinematografiche, l’Italia produceva film a palate e gli italiani andavano a vederli.
Era un’Italia non priva di difetti, meschinità e mediocrità; ma forse ne era più consapevole di oggi. E per sorriderne bastava accennarli. La battuta, per Vianello, doveva solleticare il cervello, non tramortire come un cazzotto al ventre. Mai un greve doppio senso, mai una volgarità, mai una parolaccia, mai una di quelle facili scorciatoie alla risata a cui ricorrono i comici bolliti, privi di idee, abbandonati (forse mai visitati) dal genio.
Poi fu l’uomo giusto nella televisione sbagliata. La neo-tv, la tv commerciale, non aveva né tempo né denaro per i prodotti raffinati, di qualità; mirava al sodo, alla quantità, ossia agli ascolti e al denaro. Eppure Raimondo resisteva, con Sandra, un po’ come certi brand palesemente fuori moda che ancora compaiono sugli scaffali dei supermercati, immutabili eppure efficaci. Perché? Perché dotati di una verità interiore.
'Casa Vianello' e i suoi seguiti erano un modo bonario, non oleografico né distruttivo, di rappresentare la famiglia facendone emergere tic e nevrosi. Fu, infine, l’ultimo uomo giusto nella tv più sbagliata possibile quando finì a condurre 'Pressing', la serata di calcio della domenica di Mediaset. Nessuno ci toglie dalla testa che toccò a lui perché nessun altro aveva voglia di giocare una partita ritenuta persa in partenza contro il moloch Rai della 'Domenica sportiva'. Raimondo l’eretico trattava il calcio come una cosa normale, di cui sorridere, togliendogli con ostinata tenacia ogni alone di enfasi e retorica. Un autentico godimento, ma per i palati fini; non certo per i telespettatori infettati dal virus dei talk-show rissosi, delle radio blateranti, dei processi e processoni fatti di nulla. Fu spazzato via dallo tsunami di denaro che la tv satellitare riversò sul calcio, finalmente divenuto un prodotto da spremere fino all’ultima stilla di sugo. (Simile a lui, felice anomalia, è rimasto Gene Gnocchi).
Nella tv giusta o sbagliata, nell’Italia giusta o sbagliata, a morire ieri è stato comunque l’uomo giusto. Siamo certi che ieri, leggendo da Lassù i ricordi commossi, fatti a fotocopia, di personaggi televisivi 'sbagliati', dei maestri dell’enfasi e della volgarità, non sia stato capace di prendersela. Li avrà liquidati con una battuta; troppo sottile perché quelli là sotto, giù in basso, possano comprenderla.

Da Avvenire di mercoledì 14 Aprile 2010
L'incidente ferroviario di Merano
Pure nel mondo perfetto la vita non ci appartiene

Quella zona dell’Alto Adige appare al visitatore come un mondo da fiaba. Distese di meli in filari geometricamente perfetti; belle case linde e puntualmente rinfrescate; campi verdissimi, in cui anche l’erba sembra rasata con millimetrica precisione. E nel mondo da fiaba correva il trenino colorato come un giocattolo, di fabbricazione svizzera, tutto nuovo, inaugurato nel 2006; dotato dei più recenti sistemi di sicurezza, tali che, se qualcosa di più grosso di un sasso fosse caduto sui binari, l’allarme sarebbe scattato bloccando immediatamente la linea. Il tratto dove si è staccata la frana era stato recentemente monitorato dai geologi. E dunque il treno R108 da Malles a Merano era il più sicuro dei treni.
Sennonché, un tubo d’irrigazione, forse, pare, si è rotto; un guasto banale, e però il terreno sopra la massicciata ha cominciato a impregnarsi, il fango a tendere, pesante, verso il basso. Poco dopo le otto è transitato sui binari un convoglio di studenti e pendolari: gremito di ragazzi con gli zaini in spalla, vocianti, spensierati. La massa di fango già fradicia ha tenuto, quel treno è passato (e oggi forse qualche madre e qualche padre, in Val Venosta, tra sé ringrazia Dio, per quei quattrocento figli salvi). Pochi minuti, ore nove e tre. La frana precipita nell’istante in cui arriva il treno R108, lo prende in pieno. Se solo fosse stato di un minuto in ritardo. Ma nel paese delle fiabe i treni viaggiano in rigoroso orario. Nessun allarme può fermare i due vagoni, è troppo tardi. «Una serie incredibile di coincidenze negative», diranno gli esperti. Nel paese perfetto, dove ogni cosa è precisa e ordinata e disciplinata, è avvenuto l’imperscrutabile. E per una volta sembra mancare sui giornali quella consueta caccia al colpevole che, a ragione o a torto, scatta dopo una sciagura. Come se si fosse rimasti senza parole: sul treno più controllato, più protetto, tuttavia si può morire. Come se tutte le nostre leggi e regole e misure di sicurezza non garantissero, alla fine, alcunché. Come se nemmeno in un mondo eccellente la nostra vita ci appartenesse. Lo sbalordimento davanti alla sciagura di Merano è il silenzio di questa impotenza. La nostra vita, non nelle nostre mani. Ma nelle mani di un altro. Di un destino cieco e casuale?
Judith Tappeiner, 20 anni, lunedì mattina si è svegliata in ritardo, ha perso il treno dei salvi e ha preso il treno su cui è morta. Commenta un cronista da Merano: «Ad attenderla, solo un cinico, crudele destino». E la mamma che andava a allattare il s/uo bambino di tre giorni, nato prematuro? È umano, è istintivo pensare a un destino maligno, e a un Dio che, se davvero c’è, si è distratto. E però anche di fronte a queste sorti, apparentemente così casuali, come estratte in una feroce lotteria, occorre ricordarsi che il Dio in cui noi crediamo è buono. I suoi pensieri, lo annuncia già l’Antico Testamento, non sono i nostri pensieri, e le sue vie sono spesso assolutamente incomprensibili per noi. E però sappiamo dalla Croce che il dolore ha un senso; è terribile, misterioso, ma non inutile. Non è possibile che quel neonato rimasto orfano a tre giorni sia stato dimenticato da Dio. Noi non capiamo, ma nel non capire ricordiamo che «ogni sofferenza, ogni dolore racchiude una promessa di salvezza, una promessa di gioia», come ha scritto Giovanni Paolo II. E la nostra vita non ci appartiene, nemmeno nel più perfetto dei mondi, dove ogni legge è rispettata. La fatica più grande, oggi, è riconoscerlo; vedere il dolore, non capire, e tuttavia fidarsi.

Da Tempi di martedì 13 Aprile 2010
Dipingono una Chiesa mangiabimbi perché la vogliono a caccia di farfalle
Sacerdoti al forno
Per la Chiesa di papa Ratzinger è stata una dura ma anche purificante e istruttiva Pasqua. Benedetto XVI e, con lui, tutti i vescovi dell’ecumene, sono stati nettissimi nel riconoscere gli abusi di cui si sono macchiati alcuni loro preti e a prendersene in carico la loro repressione e l’allontanamento di quanti, anche tra le alte gerarchie ecclesiali, se ne siano fatti complici. Voleranno teste e certo lo scandalo accelererà la riforma ratzingeriana delle curie, della liturgìa e dei seminari.
Resta la distanza abissale tra i fatti e il lungo latrare e abbaiare del circuito mediatico contro la Chiesa cattolica. Fatta apparire come una casta di mangiabambini, quando già le semplici statistiche dimostrano l’irrisorietà del contributo che gli uomini di Chiesa offrono alla pedofilìa e a tutti gli altri generi di perversioni in cui è specializzata la teoria e la prassi dell’umanesimo secolare (basti pensare alla buona fama che gode la pornografia o a quel partito politico pedofilo che non si presenterà alle prossime elezioni politiche olandesi, non perché è stato messo fuorilegge dai giudici alla Pietro Forno, ma solo perché non ha raccolto le firme necessarie per presentare la lista). Naturalmente è diventato uno sport internazionale sparare su chi porta la croce. Di là, dove i cristiani vengono fisicamente sparati. Di qua, dove il cristiano che non si limiterà a dar la caccia alle farfalle e si occuperà di res pubblica, come scriveva Czeslaw Milosz, «avrà la mano mozzata». Già, i cristiani se ne stiano alle playstation dei teologi alla Küng e Mancuso. E Benedetto si faccia confermare Papa da un martiniano e democratico terzo concilio di preti sposati e donne sacerdote. Grazie a Dio, tutto ciò non accadrà mai.
Mentre sempre accadrà la benvenuta ora in cui il popolo s’infiamma per l’Unico che non inganna.
www.tempi.it

Da Dimensioni Nuove di aprile 2010
LA MACCHINA DEL TEMPO: DA SOGNO A REALTA' di Stefano Moro
Molti ricorderanno Troisi e Benigni che confabulano con Leonardo da Vinci nel tentativo di insegnargli le invenzioni del XX secolo. Oppure Michael J. Fox che fa stridere le gomme della DeLorean DMC-12 preparata da Doc e si ritrova nell'America del 5 novembre 1955. Sono solo due esempi, Non ci resta che piangere e Ritorno al futuro, di come il viaggio nel tempo abbia da sempre catalizzato l'attenzione del grande pubblico, spingendo scrittori e registi a inserirlo in molti romanzi e film di fantascienza.
D'altra parte, come il teletrasporto, è uno dei vecchi sogni dell'uomo, a cui piacerebbe tanto poter vedere con i suoi occhi com'era Atene nel V secolo a.c. o il Messico degli Aztechi nel XV secolo. Ma, nonostante gli studi sulla relatività e sui buchi neri, allo stato attuale la stanzetta con il calendario digitale e il bottone “Back!” resta decisamente un sogno.
Proviamo però per un istante a pensare a Internet come a un vero e proprio mondo, fatto di siti, applicazioni e giochi, a cui accediamo ogni volta che apriamo un browser e iniziamo la navigazione. La metafora del mondo virtuale non è poi così ardita, se si pensa che i milioni di siti che nascono e muoiono sul web portano con se informazioni e notizie spesso strettamente correlate con la cronologia di eventi che si susseguono nella storia reale. Essi hanno al loro interno un bel pezzo del mondo che sta fuori e l'esperienza di una navigazione su Internet di un'ora è spesso una vera e propria immersione nel mondo reale contemporaneo, con tutto il suo corredo di cultura, arte, scoperte, guerre, eventi sportivi e quant'altro. E se uno mai si sognasse di fare un tuffo nel web di dieci anni fa per vedere, che so io, la pagina di allora di GeoCities o Altavista? ebbene sì, lo potrebbe fare, sul web infatti esiste la stanzetta con il pulsante “Back!” e il suo nome è Wayback Machine.
Andiamo su www.archive.org, digitiamo in Wayback Machine la url www.altavista.com e clicchiamo sul pulsante "Take Me Back". Ci troveremo davanti un elenco di date da scegliere e cliccando per esempio su 1 maggio 1999 finiremo sulla pagina di allora del motore di ricerca Altavista, trovandoci le notizie della guerra in Kosovo e il link per scaricare Internet Explorer 5. Pezzi di storia che avremo davanti esattamente e soltanto com'erano il 1 maggio 1999. Allo stesso modo possiamo digitare, per esempio, www.corriere.it e selezionare per esempio la data 19 dicembre 2000, scoprendo che già allora si parlava del Grande Fratello e che proprio quel giorno Alitalia annunciava 3000 assunzioni in 3 anni. Non è una vera macchina del tempo?
Ci si può sbizzarrire nelle ricerche e ritrovare anche le proprie vecchie pagine web, create agli albori di Internet, sempre che siano state indicizzate. Già, perchè il segreto di Wayback Machine è l'indicizzazione del Web, che dal 1996 viene effettuata proprio come fa un motore di ricerca per permetterci di trovare le pagine, con la differenza che ad ogni indicizzazione le pagine vengono tenute da parte ad uso dei posteri. Infatti lo scopo della ONG Internet Archive, che ha creato questa machina del tempo, è proprio quello di mettere a disposizione di tutti una grande biblioteca del web. E per fare questo si è avvalsa della collaborazione di Alexa Internet, azienda californiana che ha donato i dati raccolti e i suoi spider per la continua scansione dei siti. Lo so, probabilmente non state più leggendo queste righe e siete già corsi al pc per provare la macchina del tempo...

www.dimensioni.org

Dal supplemento Bologna Sette di Avvenire di Domenica 11 aprile 2010
L’UOMO che verrà di Chiara SIRK
Chi, nel 2005, era rimasto incantato da quel gioiello cinematografico intitolato «Il vento fa il suo giro», non è rimasto sorpreso dal felice esito di un impegno difficile che Giorgio Diritti, bolognese di nascita, ha accolto: realizzare un film sui fatti che sconvolsero per sempre la vita di Monte Sole, vicino a Marzabotto. È «L’uomo che verrà» e non è un film su una strage, ma sulla vita di persone, sulle loro scelte, su chi lavora i campi, su chi mette al mondo dei figli, anche se c’è la guerra ed è duro andare avanti, su chi ha scelto le armi, su chi pratica la violenza. Tutto è letto con gli occhi di Martina, una bimba che si fa domande da «grandi»: «ci sono persone che vogliono ucciderne altre e non capisco perché» dice tra sé. Ma accanto all’odio c’è la vita di un fratellino che cresce nella pancia della mamma.
Un film essenziale e poetico, delicato, ma potente che dice tutto senza scagliare addosso allo spettatore immagini e parole. Al regista chiediamo: che parte hanno le figure dei sacerdoti nel film? «In questi posti la chiesa, il prete erano punti di riferimento. Le comunità erano molto religiose. La chiesa era il luogo della fede, ma sul sagrato la domenica si concludevano gli affari, si parlava di bestiame da vendere e da comprare. Non era un luogo separato, ma vissuto. Il calendario era quello dei Santi, delle feste religiose. Per questo "i" don Fornasini, pur nella loro giovinezza, avevano un ruolo autorevole e partecipavano intensamente alla vita della loro parrocchia». Nel film le chiese e le croci sono presenze discrete, ma costanti, perché?
«Perché c’era una forte religiosità, di tipo popolare, che forse adesso ci pare anche un po’ "strana", ma tutto era vissuto con grande umiltà, che è un valore da tenere presente. Meglio essere umili e un po’ scorretti, piuttosto che presentarsi come detentori di un sapere con tanta
presunzione». I giovani sacerdoti sanno che potrebbero essere uccisi, ma restano...
«C’era un legame con le famiglie, con le persone, per questo al momento della strage non se ne vanno. Non sono eroi: sono persone con una grande fede, pastori che rimangono con il loro gregge. Così era la chiesa in questi posti: un riferimento costante, con la capacità di essere vicina a tutti. Ancora oggi nel sociale la chiesa riesce ad esserlo».

Da Avvenire di Sabato 10 aprile 2010
Contro l’aborto più aiuti alle mamme Il direttore risponde
Caro direttore, sono nauseata da chi gioca con le parole e con la vita delle donne.
L’arrivo della pillola Ru486 è stato festeggiato come un successo per le donne che per abortire si libereranno del chirurgo. A nessuno interessa veramente del fatto che per tre giorni le donne saranno in balia di se stesse e di questo aborto solitario. La prima pillola uccide l’embrione, le altre due provocano contrazioni e l’espulsione del « prodotto del concepimento » il tutto avviene in solitudine, mentre la vita pare scorrere normalmente, ma una madre lo sa, sa cosa sta accadendo e sa che l’artefice è lei. Tutti, i favorevoli all’aborto e i contrari, affermano che l’aborto è un trauma per le donne, ma i primi considerandolo una conquista per la libertà delle donne e lasciano soli i secondi a lottare con pochi mezzi e con pochi fondi perché questo trauma dove possibile non si verifichi. C’è una legge che rende legale l’aborto e tanti ci ricordano, ogni volta che possono, che le leggi vanno rispettate, ma questa legge dice anche che si deve fare il possibile per aiutare le donne che quella maternità la desiderano. Quindi, non sarà ' illegale' fare una campagna di raccolta fondi per quelle associazioni che nel rispetto della legge offrono sostegno a chi non vuole abortire, ma non è nelle condizioni di affrontare da sola una maternità. Se davvero per tutti l’aborto è un dolore, è un trauma per la donna, aiutiamo chi non vuole affrontare questo dolore a non essere sola. Lavoro in un’associazione di imprese, profit e no profit, e l’altro giorno si è rivolta a me la responsabile di un Cav in crisi perché i fondi sono terminati e ci sono delle mamme da aiutare, questo mi ha fatto sentire impotente e sconfitta, ma ho pensato che si potrebbero unire le forze in favore della vita, nel rispetto della legge, e delle donne. Pensiamoci, facciamo qualcosa perché le imprese e la società civile insieme possano sostenere quelle associazioni che corrono in soccorso della vita. Ci saranno meno donne costrette a ricorrere al chirurgo o alla pillola abortiva, e ci saranno più bambini a dare speranza a questa società.

Non voglio neanche ipotizzare, cara signora, che cosa interessi veramente a certi «cantori» delle virtù chimiche della Ru486. Mi pare più importante – milioni di volte più importante – il suo ragionamento e la forza con la quale sostiene l’urgenza di un sostegno concreto e stabile ai Centri di aiuto alla vita. Imprese e società civile, come lei suggerisce, possono e devono fare la loro parte. Ma devono anche farla le istituzioni pubbliche, a cominciare da quelle regionali così direttamente coinvolte e responsabili nella gestione della sanità. I «governatori» vecchi e nuovi è su questo fronte che sono chiamati a essere, già oggi, a 194 vigente, un segno di contraddizione rispetto alla terribile logica dell’aborto come «diritto» e non come dramma, come terribile cancellazione di una vita inerme. C’è bisogno di un impegno chiaro e conseguente per far crescere la «cultura della vita». È tempo che anche la politica faccia fino in fondo, per bene, la sua parte.

Il direttore di Avvenire
Marco Tarquinio

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