sabato 3 aprile 2010

PORTAPAROLA 3 aprile 2010

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"Ribellione contro il male e fede in Gesù"
Pasqua, gli auguri del vescovo Giuseppe Verucchi

A voi che leggete. Ai vostri familiari, specialmente ai piccoli, agli anziani e ai malati: Buona Pasqua.
Anche quest’anno ci scambiamo gli auguri in un periodo in cui: perdura la crisi finanziaria ed economica che ha ripercussioni su aziende, famiglie e persone; abbiamo la sensazione che i valori si stiano progressivamente affievolendo; constatiamo effetti negativi molto pesanti nella società e nella vita.
Davanti a questa situazione, a volte, ci prende l’avvilimento; altre volte sentiamo in noi una forte ribellione; altre volte ci lasciamo andare al pessimismo e alle lamentele. Sappiamo che tutto ciò serve a poco. Ma è una strada che percorriamo facilmente. C’è un atteggiamento, che a prima vista sembra negativo, ma porta in se qualcosa di positivo. È la ribellione! Il positivo della ribellione consiste nel non accettare che le cose debbano andare necessariamente così; nel volerle cambiare; nel deciderci da fare tutto quello che possiamo per migliorare, nel nostro piccolo e secondo le nostre possibilità, la situazione.
È a questo punto che ci auguriamo Buona Pasqua. Pasqua è Gesù Cristo che muore e risorge.
È Gesù che ama fino a donare la vita, che rimane saldo nei valori e li annuncia, che è fedele alla volontà del Padre e spende la vita per il bene dell’umanità. In un mondo di insipienza, egoismo, divisioni e peccato, Gesù vive e dona verità, amore, comunione, perdono e grazia.
In un mondo dove domina la morte, Gesù dona la vita, vince la morte, risorge e dona speranza.
Fare Pasqua è accogliere Gesù in noi.
È lasciarsi guidare da Lui alla verità e ai valori, all’amore e alla solidarietà, alla fraternità e alla pace, alla fedeltà al Signore e al bene della persona, della famiglia, della società.
Ecco cosa mi spinge ad augurarvi Buona e Santa Pasqua: la ribellione contro il male e la fede in Gesù Risorto.
Il Signore Risorto Ci illumini, Ci riscaldi il cuore, Ci doni speranza, Ci dia forza e volontà di vivere una vita nuova: quella che Lui, risorgendo, ci ha donato.
Sappiate che, ogni giorno, nella Santa Messa, prego per ognuno di voi.

Giuseppe Verucchi


da Avvenire di giovedì 1 aprile 2010
«Alla fine, dal male, esce sempre una gemma di bene»
Il direttore Marco Tarquinio risponde
Caro direttore, fa male, leggendo le cronache sui casi di pedofilia, la manifesta volontà di sporcare l’unica, a mio avviso, autorità spirituale in grado di parlare al mondo. Il Papa può poco, secondo certo logiche del mondo, però quello che dice non è poco. È il solo a parlare degli operai. Del lavoro come principio umano. Con la parola avidità ha spiegato l’origine della crisi, magistralmente spiazzando tutte le formule alchemiche degli esperti costruttori di carte di finanza ed economia. Osa narrare dei bimbi che vengono buttati nello sciacquone. Dei migranti, considerati all’incirca scarafaggi. Ammonisce chi dal pulpito usa la parola di Cristo come merce di ambiguo indirizzo politico. Ribatte, da fabbro, il ferro caldo dei valori cristiani che non sono chiacchiere da reality. Quando scrive utilizza un’alta cifra stilistica e la sua parola comunica, arriva e scava. Mostra le contraddizioni nelle quali siamo immersi. E, nel silenzio della lettura, la sua severa lezione svela la pochezza dei grandi. Critica, con la medesima audacia del suo predecessore, la pretesa messianica del capitalismo.
E l’illusione della tecnica. Il suo orecchio ascolta il suono dell’umanità. Appare evidente che uno così bisogna metterlo alla berlina del ridicolo. Già ci provarono con Giovanni Paolo II. O ci siamo dimenticati di tutte le illazioni degli anni Ottanta- Novanta intorno a lui, il teatro giovanile, le poesie, le gite in barca con le ragazze, i rapporti con la polizia segreta, Solidarnosc... mica ha avuto vita facile il polacco Giovanni Paolo II, solo quando stava per morire, allora sì, santo subito. Adesso si ritorna alla carica con Benedetto XVI, tedesco. Si è incominciato subito dal nazismo, e ti pareva… ma purtroppo c’è l’elemento cronologico, nato troppo tardi, ma fa niente, intanto buttala lì, che sul fondo un poco di melma non guasta.
Poi si giochicchia con il discorso di Ratisbona estrapolando furbescamente alcune frasi dal contesto originario. Ma è ancora troppo poco, o meglio, troppo intellettuale e allora si va di ramazza direttamente nel pattume. Che c’è, purtroppo. Che, poi, sia stato il Papa a riconoscerlo per primo fa ancora peggio. Sapeva. Quindi, si deve andare all’attacco. Possibilmente chiamando a testimoniare i morti che, come si sa, sono sempre loquaci. L’uomo disturba. Ora Benedetto XVI, resisterà. Alla fine, dal male ne esce una gemma di bene. Chissà mai che domani mattina, sulla scia dello sconcio pedofilo, qualche network non faccia il suo mestiere e mostri i tour operator, magari anche quotati in Borsa, che offrono pacchetti full optional dalle spiagge del sud est asiatico, dove si comprano i bambini a due, tre dollari al giorno…
Emanuele Torreggiani

Trapela indignazione dalle sue parole, caro Torreggiani. Ma soprattutto amore per la verità, per la Chiesa e per il Papa. Riesce, così, a esprimere ciò che ragione e cuore dicono a tanti.
Qualcuno magari ci vedrà qualche eccesso.
Pazienza. Gli accanimenti ingiusti, come sappiamo, sono ben altri... ( mt)

da Agorà supplemento culturale di Avvenire di giovedì 1 aprile 2010
SULLE TRAGEDIE DIMENTICATE SPAZIO FISSO IN TV
LUIGI TESTAFERRATA

Che sta succedendo ad Haiti? A che cifra è arrivato il censimento dei morti, dei feriti, dei mutilati, dei senzatetto, delle case, chiese, scuole, ospedali crollati per il terremoto in Cile? E le frane nel Messinese? Le inondazioni in Francia? Il terremoto in Abruzzo? A distanza di mesi, di settimane, addirittura di giorni, tutto pare ritornato tranquillo, la società sempre più laica che non crede, che non ha mai voluto credere ai miracoli, ora crede al miracolo del ritorno alla normalità, della rinascita delle cose dalle loro rovine, addirittura del risanamento degli sfregiati, della resurrezione dei morti.
È bastato che i media (ormai si dice così) di vario tipo cominciassero a diluire la tragicità delle immagini e poi, piano piano, giorno dopo giorno, alleggerissero anche le parole per arrivare, alla fine, all’oscuramento e al silenzio, perché l’illusione prendesse il sopravvento sulla realtà e tutto tornasse normale, sano e pulito come prima, tranquillamente intatto.
Sull’amore per gli altri che era nato, cresciuto e quasi esploso nei giorni delle tragedie l’ha avuta vinta l’amore per noi, alle grida, ai lamenti, ai pianti potentemente, visceralmente umani dei sofferenti è subentrato il miagolìo dei gatti in amore dei reality.
Noi non pretendiamo di essere continuamente aggiornati sulle miserie del prossimo, le notizie che si accavallano, il mondo che corre, le cose nuove che urgono e che fanno audience costringono i mezzi di informazione a stare al passo con il presente, a dare, semmai, più credito al futuro che al passato: ma siamo anche, noi sopravvissuti, noi sani, noi tranquilli, una parte dell’umanità e ci affligge il pensiero che l’altra parte continui a patire. Siamo come gli uomini di John Donne, per quanto gli anni siano passati in massa non riusciamo a scordare i versi che, quando fummo ragazzi, vedemmo accompagnare le prime sequenze del film «Per chi suona la campana» con Gary Cooper e Ingrid Bergman e funzionare come usbergo del romanzo di Hemingway da cui quel film, nel 1948, fu tratto.
Dicevano, dicono così: «Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una zolla viene portata dall’onda del mare, l’Europa non è diminuita, come se un promontorio fosse stato al suo posto, o una magione amica, o la tua stessa casa. Ogni morte d’un uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te».
E allora, noi che ci sentiamo così tristemente diminuiti dalle morti degli altri, così violentemente frastornati dal suono continuo delle campane, chiediamo una grazia: che fra i tanti programmi insulsi, basati sulle chiacchiere mondane, consumati mattina e sera in pettegolezzi e immoralità, venga inventato e inserito quotidianamente, in ore diurne perché tutti possano vederlo, un programma di aggiornamento, una rubrica di quindici, venti minuti che ci ragguagli sulle miserie, sui disastri, sulle morti, sulle disperazioni dei sopravvissuti. È probabile (anzi, è certo) che non batta nessun record in ascolto e faccia nascere subito la tentazione «commerciale» di abolirlo. Ma, per piacere, basterà avere un po’ di pazienza e un po’ di fiducia nel bisogno, che fortunatamente continua a esistere in tanti, di vivere nella pulizia e nella pietà.


da Avvenire di giovedì 1 aprile 2010
LE RAGIONI DELLA FAMIGLIA DEVONO ESSERE FINALMENTE CONSIDERATE
In Italia c’è una minoranza che è maggioranza: la si ascolti
DOMENICO DELLE FOGLIE
Se qualcuno aveva ancora dei dubbi, il rapporto Cisf (Centro internazionale studi famiglia) del 2009 li ha definitivamente spazzati via: le famiglie italiane con figli, sia pure per pochi punti percentuali, sono in Italia una minoranza tra i nuclei anagraficamente definiti. Una minoranza sterminata, ma pur sempre una minoranza.
Ecco le cifre fornite dal rapporto: la popolazione italiana è composta da famiglie anagrafiche di cui ben il 53,4% non ha figli.
Quelle con figli sono il restante 46,6% del totale. Una minoranza fatta di grandi numeri (perché è la maggioranza della popolazione totale), ma basta analizzare meglio le cifre per scoprire che il 21,9% di questi nuclei ha un solo figlio e che il 19,5% ne ha due. Le famiglie con tre figli sono appena il 4,4% e per trovare gli eroi civili con quattro e più figli bisogna andare a scavare in un esile 0,7%.
Lasciamo ai sociologi la spiegazione di questa stratificazione sociale che fa dell’Italia il fanalino di coda per la natalità in Europa, così come uno dei Paesi condannati a un processo irreversibile di invecchiamento i cui effetti si vedranno tangibilmente nei prossimi venti anni. Tutto ciò metterà a rischio la tenuta del sistema, la nostra stessa competitività sui mercati internazionali e renderà sempre più inadeguate le attuali politiche socio­assistenziali.
Qui vogliamo ragionare di politica e, se possibile, non in politichese. A cominciare da una considerazione: ogni minoranza degna di questo nome, deve innanzitutto essere consapevole della propria condizione. È questa la premessa necessaria per un’adeguata azione politica capace di cambiare il corso delle cose. È appena il caso di osservare che se le politiche per la famiglia con figli non sono incisive (passateci l’eufemismo) è proprio il risultato di questa mancanza di coscienza 'politica'. Una minoranza del 46,6% – parliamo sempre di nuclei non di individui – potrebbe (e dovrebbe) cambiare il corso della politica e condizionarne in maniera decisiva le scelte. Basti pensare al solo strumento del quoziente familiare o comunque a meccanismi fiscali effettivamente perequativi, come la leva delle deduzioni e delle detrazioni, per capire quanto potrebbe pesare nel dibattito pubblico un diverso protagonismo delle famiglie.
È indiscutibile che in questa direzione, in Italia, si sia mosso con efficacia e preveggenza solo il Forum delle associazioni familiari, costretto talvolta persino ad alzare la voce perché i palazzi della politica, ma anche i sindacati, si mettessero in ascolto.
La società italiana non sembra aver colto la grande novità che il Forum rappresenta nello spazio pubblico, con la sua capacità di 'fare lobby' al di sopra e al di fuori delle logiche di schieramento, così come di interloquire disinteressatamente in nome di quella imponente minoranza silenziosa costituita dalle famiglie.
Sulle spalle di questa enorme minoranza – sarà bene ricordarlo – è stato caricato tutto il peso del ricambio generazionale, fattore non secondario per il benessere presente e futuro di tutti noi. Già questa consapevolezza dovrebbe dare forza al protagonismo 'politico' delle famiglie e alla loro capacità di interlocuzione. Se lo Stato e le sue classi dirigenti hanno consentito e incoraggiato, con le loro politiche di fatto antinataliste e con le loro scelte cultural-valoriali di segno individualista, una prospettiva di famiglia (quella anagrafica) senza figli, oggi vanno messi dinanzi alle loro responsabilità. Certo, non possono addossare alcuna colpa a chi continua a desiderare e ad accettare i figli, anche a costo di un sacrificio economico che spinge verso la soglia della povertà. Ecco perché la politica merita di essere messa, da questa minoranza sterminata (la più numerosa che si conti nel Paese), con le spalle al muro. O con noi e con i nostri figli, oppure senza di noi. E in tal caso, sì che sarebbero guai seri per tutti.

da Avvenire di domenica 28 marzo 2010
«Scandali? La risposta è nella testimonianza»
Tonini: le ostilità verso la Chiesa, che ci sono sempre state, ci spingano a essere più fedeli a Cristo. Questo non è il momento dell’avvilimento

DI MARINA CORRADI
Il New York Times attacca, lo Spiegel chie­de le dimissioni del Papa, nella stampa internazionale la Chiesa cattolica è di­pinta come un’associazione losca e menzo­gnera. Ma il cardinale Ersilio Tonini, 95 an­ni, che pure alla sua età legge i giornali ogni mattina, non è preoccupato.
«Non mi meraviglio affatto. L’odio contro la Chiesa c’è sempre stato. Ne ho ben memo­ria io, che sono stato bambino in Romagna negli anni Venti. Mi ricordo quando comin­ciavo a servire messa e nei campi un vecchio bracciante mi disse in dialetto: 'Ragazzo, ma non vorrai mica andare prete? Guarda che son tutte bugie quelle dei preti, quelli bada­no solo a mantenere la loro bottega'. L’odio anticristiano c’è sempre stato, ci è stato, an­zi, promesso; e non mi stupisco quando lo vedo. Anzi, al contrario, c’è da preoccupar­si quando la Chiesa è riverita e osannata».
Quindi il fatto che lo Spiegel chieda le di­missioni del Papa non la colpisce.
Per niente. Lo Spiegel , il New York Times fan­no il loro mestiere. Parlano la lingua della politica e dell’economia, del potere, e non ne capiscono altre. La testimonianza della Chie­sa oggi è rimasta la grande istanza che con­traddice queste logiche, che pretende di es­sere un riferimento spirituale per gli uomi­ni, e di formare le coscienze dei ragazzi. E un ragazzo che sia davvero cristiano è meno manipolabile dal potere degli altri. È naturale che la Chie­sa sia considerata un’avversaria. Però è comprensibile che ci sia smarrimento, tra i fedeli, nel sen­tire accusare il Papa di avere i­gnorato dei casi di pedofilia tra i sacerdoti.
Comprendo lo smarrimento di fronte a certi veleni, ma occorre che dicia­mo alla nostra gente di non avere paura. O­ra che gli anni mi costringono a una vita un po’ più tranquilla rileggo le Lettere di Paolo, e sant’Agostino. È una evidenza nella storia della Chiesa che i tempi della av­versità sono quelli più grandi, quelli in cui ci è chiesto di affron­tare la sfida. Di andare in battaglia, dunque?
Sì, ma non nel senso di risponde­re allo schiaffo, non nel senso di sentirci perseguitati e di arroccarci su di noi. La risposta dei cristiani è la testimonianza. Occorre che ognuno, per quanto gli compete, sia più di prima testimone di Gesù Cristo. Senza ave­re paura, e nella consapevolezza che pro­prio la calunnia, l’ostilità devono spingerci a essere più fedeli a Cristo, a testimoniarlo con chiunque ci incontri.
Però pensiamo alle conseguenze di un at­tacco mediatico di queste proporzioni. Non susciterà in alcune madri almeno il dubbio che i figli vadano tenuti lontani dagli ora­tori? Non è particolarmente velenoso, il so­spetto gettato a allontanare i bambini?
È vero, è possibile che questo rischio ci sia. Ma, dopo avere letto i giornali, quelle ma­dri penseranno al prete che regge la loro parrocchia. Alla sua faccia: che conterà più dei titoli. Ancora una volta vincerà la testi­monianza personale, da uomo a uomo, che è il grande metodo con cui il cristianesimo si tramanda. E poi non dimentichiamolo, perché spesso invece lo dimentichiamo, che il destino della Chiesa lo opera Dio. Dio pensa alla sua Chiesa, ricordiamoci di que­sto.
Nell’anno sacerdotale che Benedetto XVI ha indetto nella memoria del curato d’Ars per la santificazione dei sacerdoti viene alla lu­ce il dramma nella Chiesa irlandese, viene scritta dal Papa una lettera drammatica ai cattolici di quel paese, i media internazio­nali si accaniscono contro la sua stessa per­sona. Come interpreta questa coincidenza?
La interpreto proprio come un richiamo di Dio, e anzi una grazia. Le grazie non sono sempre doni lieti di cui compiacerci: sono anche le prove che sfidano, e che ci fanno ri­trovare le ragioni della nostra fede.
Cosa direbbe, a un sacerdote avvilito dalla lettura dei giornali? Che la Chiesa sa che la stragrande maggio­ranza di loro è fatta di uomini buoni e ge­nerosi. Che questo non è il momento del­l’avvilimento, ma di lavorare di più, di esse­re padre per tanti ragazzi'.
E alle famiglie, invece? Ai padri, alle madri direi di non preoccu­parsi delle calunnie, ma di aiutare i figli ad ascoltare se stessi e il desiderio più vero e profondo del loro cuore. Ciò che nessuno, all’infuori della Chiesa, insegna più a rico­noscere.
E al Papa, eminenza, cosa direbbe, quasi da fratello più anziano, in questo momento a­maro? Gli direi che anche questi attacchi confer­mano che questo è un momento straordi­nario nella storia della Chiesa. Ma, ne sono certo, il Papa lo sa bene. «Non dobbiamo arroccarci su noi stessi. Occorre che ognuno sia più di prima testimone di Gesù Proprio la calunnia e l’ostilità devono spingerci a essergli più fedeli» «Ai genitori dico di non preccuparsi delle calunnie, ma di aiutare i figli ad ascoltare il desiderio più vero del loro cuore. Ciò che nessuno, all’infuori dei cristiani, insegna più a riconoscere».

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