Chiesa di Sant'Apollinare in Classe
Chiesa di Sant'Apollinare Nuovo
cliccare sulla pagina per visualizzare
da Bologna 7 supplemento di Avvenire di domenica 21 marzo 2010
ELEZIONI REGIONALI
ECCO LA BUSSOLA PER ORIENTARSI
STEFANO ANDRINI
Domenica e lunedì si voterà in Emilia Romagna per eleggere il uovo presidente regionale e rinnovare l’assemblea legislativa. Su queste pagine abbiamo cercato di approfondire alcuni temi che ci sembrano cruciali, confortati nella scelta redazionale dalla Nota dei Vescovi dell’Emilia Romagna che hanno individuato nella tutela dei valori non negoziabili non solo una bussola per orientarsi ma anche una chiave di lettura per comprendere la vera posta in gioco della prossima tornata elettorale.
Giovani, famiglia, vita, welfare e scuola sono gli elementi sui quali la nostra regione si gioca il futuro: vincere queste sfide significherà intraprendere una nuova strada di sviluppo e di benessere; perderle, invece, equivarrebbe a imboccare il tunnel senza ritorno del declino. Non è un caso che proprio queste tematiche siano state silenziate da quasi tutti gli schieramenti.
Ma chi governerà nella prossima legislatura non potrà esimersi dall’affrontarle. I Vescovi sono molto chiari nell’affermare che i valori non negoziabili sono un patrimonio indisponibile: da coltivare nella prospettiva del bene comune.
Questo significa che non basta da parte delle forze politiche un generico unanimismo sui valori non negoziabili.
Tutti possono essere d’accordo sulla salvaguardia del creato. Ma nel concreto c’è, per esempio, chi mette al centro del creato l’uomo e chi la foca monaca. Con tutto il rispetto per la foca monaca non abbiamo dubbi che la prima posizione sia quella più vera ed efficace per attuare il valore indicato dai Vescovi: una posizione che i politici cattolici , in qualunque parte si collochino, non solo non possono ignorare ma anche non possono portare al mercato.
Al nuovo governatore e alla nuova assemblea legislativa noi chiediamo dei «sì» e non dei «se» e dei «ma»: sì alla libertà di educazione, sì alla valorizzazione della famiglia senza pericolose scorciatoie, sì alla promozione delle alternative all’aborto, sì ad un welfare che metta al centro la persona.
Sì, in estrema sintesi, ad una politica amministrativa che ha le sue radici nella sussidiarietà. Quella vera e non quella taroccata che a volte la stessa politica e le stesse istituzioni ci contrabbandano per tale. Sono buoni motivi che danno la possibilità agli elettori di esprimere un voto vero e meditato. Sono buoni motivi, inoltre, per non cedere alla tentazione dell’astensionismo che altro non sarebbe se non la resa ai potentati che sbandierano l’importanza del popolo ma in realtà non vogliono farlo partecipare. Non daremo quindi ai lettori indicazioni di voto.
Ma un suggerimento non negoziabile: votate per difendere l’uomo e la sua dignità.
Nota dei Vescovi sul voto regionale
I Valori non negoziabili sono la bussola
Gli Arcivescovi e Vescovi della regione Emilia-Romagna desiderano indirizzare ai fedeli delle loro comunità questa comunicazione, in vista delle elezioni regionali del prossimo mese di marzo.
1. Come Vescovi, la nostra prima inderogabile missione è di annunciare il Vangelo proponendo ad ogni uomo la via della fede, come via della libertà, come via della responsabilità e della salvezza.
Ma il Vangelo che dobbiamo annunciare contiene anche una precisa concezione dell'uomo e di tutta la sua realtà, personale e sociale, che risponde in modo adeguato alle fondamentali esigenze della sua persona. E questa concezione il nucleo portante della Dottrina Sociale che la Chiesa ha sempre proclamato e testimoniato, e che l'attuale pontefice Benedetto XVI ha mirabilmente sintetizzato nell'espressione «valori non negoziabili».
2. Essi costituiscono patrimonio di ogni persona, perché inscritti nella coscienza morale di ciascuno. A questi valori anche ogni cristiano deve riferirsi come criterio ineludibile per i suoi giudizi e le sue scelte nell'ordine temporale e sociale.
Eccoli sinteticamente:la dignità della persona umana, costituita ad immagine e somiglianza di Dio, e perciò irriducibile a qualsiasi condizione e condizionamento di carattere personale e sociale; la sacralità della vita dal concepimento fino alla morte naturale, inviolabile ed indisponibile a tutte le strutture ed a tutti i poteri; i diritti e le libertà fondamentali della persona: la libertà religiosa, la libertà della cultura e dell'educazione; la sacralità della famiglia naturale, fondata sul matrimonio, sulla legittima unione cioè fra un uomo e una donna, responsabilmente aperta alla paternità e alla maternità; la libertà di intrapresa culturale, sociale, e anche economica in funzione del bene della persona e del bene comune; il diritto ad un lavoro dignitoso e giustamente retribuito, come espressione sintetica della persona umana; l'accoglienza ai migranti nel rispetto della dignità della loro persona e delle esigenze del bene comune; lo sviluppo della giustizia e la promozione della pace; il rispetto del creato.
3. E questo complesso di beni che costituisce l'orizzonte immutabile di ogni giudizio e di ogni impegno cristiano nella società. Persone, raggruppamenti partitici e programmi devono pertanto essere valutati a partire dalla verifica obiettiva del rispetto di quei beni. Perciò la coscienza cristiana rettamente formata non permette di favorire col proprio voto l'attuazione di un programma politico o la promulgazione di leggi che non siano coerenti coi valori sopraddetti, esprimendo questi le fondamentali esigenze della dignità umana.
4. Siamo consapevoli di avere proposto ai nostri fedeli non solo orientamenti doverosi per l'oggi, ma anche un costante cammino e educativo, mediante cui l'assimilazione dei valori della Dottrina Sociale della Chiesa porta a giudizi e a scelte responsabili e coerenti, sottratte ai ricatti dei poteri ideologici e mass-mediatici o avvilite da interessi particolaristici. Vorremmo che crescesse, anche in forza di un rinnovato e quotidiano impegno educativo delle nostre Chiese, un laicato che proprio a causa della sua appartenenza ecclesiale, fosse dedito al bene comune della società.
5. La Chiesa non deve prendere «nelle sue mani la battaglia politica» Pertanto clero ed organismi ecclesiali devono rimanere completamente fuori dal dibattito e dall'impegno politico pre-elettorale, mantenendosi assolutamente estranei a qualsiasi partito o schieramento politico. Per i sacerdoti questa esigenza è fondata sulla natura stessa del loro ministero.
6. Ma è un diritto dei fedeli essere illuminati dai propri pastori quando devono prendere decisioni importanti. Se un fedele chiedesse al sacerdote come orientarsi nella situazione attuale, il sacerdote tenga presente quanto segue. Ogni elettore è chiamato ad elaborare un giudizio prudenziale che per definizione non è mai dotato di certezza incontrovertibile. Ma un giudizio è prudente quando è elaborato alla luce sia dei valori umani fondamentali che sono concretamente in questione sia delle circostanze rilevanti in cui siamo chiamati ad agire.
Ciò premesso in linea generale, ogni elettore che voglia prendere una decisione prudente, deve discernere nell'attuale situazione quali valori umani fondamentali sono in questione, e giudicare quale parte politica - per i programmi che dichiara e per i candidati che indica per attuarli - dia maggiore affidamento per la loro difesa e promozione.
L'aiuto che i sacerdoti devono dare quindi consiste nell'illuminare il fedele perché individui quei valori umani fondamentali che oggi in Regione meritano di essere preferibilmente e maggiormente difesi e promossi, perché maggiormente misconosciuti o calpestati. Il Magistero della Chiesa è riferimento obbligante in questo aiuto al discernimento del fedele. Ma il sacerdote deve astenersi completamente dall'indicare quale parte politica ritenga a suo giudizio che dia maggior sicurezza in ordine alla difesa e promozione dei valori umani in questione. Questa indicazione infatti sarebbe in realtà un'indicazione di voto.
La nostra Regione, così come l'intera nostra nazione, sta attraversando un momento difficile. Pensiamo in primo luogo e siamo vicini alle famiglie colpite da gravi difficoltà economiche; e a chi ha perduto o rischia di perdere il lavoro.
La consultazione elettorale è una occasione nella quale ogni fedele è invitato ad esercitare mediante il voto una parte attiva nella doverosa edificazione della comunità civile. In questo modo «la carità diventa carità sociale e politica: la carità sociale ci fa amare il bene comune e fa cercare effettivamente il bene di tutte le persone, considerate non solo individualmente, ma anche nella dimensione sociale che le unisce».
Da Avvenire di venerdì 26 marzo 2010
Forum delle associazioni familiari
Famiglia e vita, la sfida della società civile
DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
Tra il dire e il fare c’è di mezzo un voto. Ma c’è anche la vigilanza della società civile, che è pronta a chiedere conto di mancate realizzazioni delle promesse o di eventuali discrepanze rispetto a quanto affermato in campagna elettorale. Soprattutto per un nodo fondamentale della società come la famiglia. Perciò, nel giorno in cui il Forum delle associazioni familiari ha annunciato l’adesione al suo manifesto di venti candidati governatori e di oltre 400 candidati consiglieri, ha allo stesso tempo fissato lo sguardo già ai cento giorni. Anzi ai 365, ha detto il presidente del sodalizio Francesco Belletti, dando appuntamento al 25 marzo 2011 per un primo bilancio.
Erano 13 ieri le conferenze stampa in contemporanea in tutti i capoluoghi delle regioni interessate dal voto del 28 e 29 marzo. Quella nazionale, e del Lazio, si è tenuta nella sede della Fondazione Achille Grandi, a due passi da Montecitorio. Belletti si è detto soddisfatto di quella che ha definito una prova di cittadinanza democratica «dal basso» e ha voluto ribadire che «ai candidati è stato chiesto un impegno personale, non di partito». Ci hanno messo la firma per «un impegno speciale del quale chiederemo conto». E ai candidati, se eletti «chiediamo un dialogo sui contenuti e prese di posizione anche fuori degli schieramenti», ha ricordato Belletti. Insomma, anche se qualcuno vorrà leggere l’operazione come un’indicazione di voto, la sostanza è chiara. Proporre una piattaforma. Vedere chi ci sta. E poi vigilare con spirito critico e collaborativo con chi amministrerà (anche chi per varie ragioni non ha firmato e che «vogliamo convincere » , assicurano quelli del Forum), nella consapevolezza che la famiglia è un bene per il Paese, non è appannaggio di una parte. Il messaggio partito dal Family Day del 2007. Di parte non vuole essere neppure la proposta della sottoscrizione: piuttosto uno strumento di servizio per il discernimento del cittadino elettore, spiegano gli organizzatori. Già, perché se si guarda alla campagna e all’informazione politica messa in campo per la consultazione, il presidente nazionale del Forum storce un po’ il naso. E dedica alla questione il passaggio più duro del suo intervento. Invece di confrontarsi su sanità, servizi sociali, politiche del lavoro, educazione e scuola, tutela della vita umana, difesa della famiglia fondata sul matrimonio, sostegni alle giovani coppie e altri punti qualificanti delle politiche familiari, «sciaguratamente per lunghe settimane il 'discorso pubblico' di par- titi politici, candidati, organi amministrativi e mezzi di stampa è stato occupato dalla questione della correttezza delle liste elettorali, in un guazzabuglio mediatico che ha costretto lo stesso presidente della Repubblica a parlare di 'pasticcio'». Dunque, il Paese è stato «derubato» di un «dibattito serio» su contenuti, programmi e progetti proprio «di fronte a una scadenza che consideriamo di grande importanza per il nostro futuro immediato e più a lungo termine», ha concluso Belletti.
Il manifesto, presentato circa un mese fa, sollecita alcune misure a livello nazionale, da declinare sempre più nelle competenze regionali. Una legge per la famiglia «seria, finanziata, sussidiata e partecipata. Non assistenziale, ma di promozione». Avvio della Valutazione d’impatto familiare (che verifichi le conseguenze economiche dei provvedimenti amministrativi sui nuclei).
Presidio della riforma del federalismo fiscale, per avere anche a livello regionale e locale tariffe a misura di famiglia. Infine sostegno alla tenuta delle relazioni familiari, soprattutto dei legami di coppia. Diversa è stata la risposta sul territorio. Ci sono regioni che hanno registrato poche adesioni, altre a decine. Nel Lazio – regione che più ne ha attratte, oltre 80 – i politici non hanno apposto solo una firma: ci hanno messo pure la faccia. «Carta canta, ma noi ci siamo voluti avvalere anche delle risorse della multimedialità », ha detto il presidente del Forum del Lazio Gianluigi De Palo. Dunque, video della sottoscrizione con un minuto di discorsetto. E il tutto andrà su YouTube. Fra un anno anche la rete farà da testimone.
LE ADESIONI
TRA I CONSIGLIERI PREDOMINA L’UDC. FIRMA ANCHE IL MINISTRO CARFAGNA
Venti candidati alla presidenza della giunta regionale e circa 500 aspiranti consiglieri. In tanti hanno firmato il Manifesto del Forum delle associazioni familiari. Solo la Basilicata non è pervenuta. Né nell’una, né nell’altra graduatoria. I venti candidati governatore, tra i 50 in lizza: Filippo Callipo (Calabria, Idv), Stefano Caldoro (Campania, Pdl), Anna Maria Bernini (Emilia Romagna, Pdl), Gian Luca Galletti (Emilia Romagna, Udc), Renata Polverini (Lazio, Pdl), Sandro Biasotti (Liguria, Pdl), Roberto Formigoni (Lombardia, Pdl), Savino Pezzotta (Lombardia, Udc), Erminio Marinelli (Marche, Pdl), Gian Mario Spacca (Marche, Udc), Roberto Cota (Piemonte, Lega Nord), Rocco Palese (Puglia, Pdl). Adriana Poli Bortone (Udc-Io Sud), Francesco Bosi (Toscana, Udc), Monica Faenzi (Toscana, Pdl), Enrico Rossi (Toscana, Pd), Paola Binetti (Umbria, Udc), Fiammetta Modena (Umbria, Pdl), Antonio De Poli (Veneto, Udc), Giuseppe Bortolussi (Veneto, Pd). Non hanno aderito, ma hanno inviato una lettera in cui sottolineano le consonanze, a loro dire, del proprio programma con il Forum Mercedes Bresso (Piemonte, Pd) e Vasco Errani (Emilia Romagna, Pd). La parte del leone nella suddivisione delle firme tra i consiglieri la fa l’Udc con oltre 160 sottoscrittori. Circa il doppio del Pdl e tre volte il Pd (una cinquantina). Una dozzina i leghisti e sette i dipietristi. Più una cinquantina delle liste civiche sia di centrodestra (16 della Polverini nel Lazio) sia di centrosinistra. Tra i consiglieri c’è anche il ministro per la Pari opportunità Mara Carfagna, capolista Pdl in Campania.
La tutela del nascituro al centro della politica tra i candidati governatori
In Emilia-Romagna Galletti (UdC) dice si, Errani (PD) non aderisce
La proposta è di inserire negli Statuti regionali il diritto alla vita per tutti fin dal concepimento
DA MILANO ENRICO NEGROTTI
Inserire nello Statuto regionale il riconoscimento del diritto alla vita di ogni essere umano fin dal concepimento. È questa la principale richiesta che il Movimento per la vita (Mpv) ha rivolto a tutti i candidati alla presidenza delle Regioni. E che ha ricevuto la risposta positiva – tra tutti – solo di 12 aspiranti governatori: in Piemonte, Roberto Cota; in Lombardia Roberto Formigoni e Savino Pezzotta; in Veneto: Antonio De Poli; in Emilia-Romagna: Gian Luca Galletti; in Toscana: Francesco Bosi; in Umbria: Paola Binetti; nel Lazio: Renata Polverini; in Puglia: Rocco Palese e Adriana Poli Bortone; in Basilicata: Magdi Cristiano Allam e Nicola Pagliuca. «Una seconda richiesta – ha scritto il Mpv ai candidati – è la ristrutturazione dei consultori familiari per restituirli alla loro essenziale funzione: strumenti che proteggono il diritto alla vita dei figli, non contro, ma insieme alle madri». La proposta di inserire il diritto alla vita sin dal concepimento negli Statuti regionali è altresì il primo punto di un decalogo che il Mpv ha proposto di sottoscrivere ai prossimi consiglieri (l’elenco di chi lo condivide è disponibile sul sito www.mpv.org, ma non vi è la certezza che tutti i candidati consiglieri abbiano ricevuto la richiesta). «È urgente – scrive il Mpv – che le Regioni raccolgano la sfida della vita e intervengano con provvedimenti legislativi e/o amministrativi nei vari settori (sociale, sanitario, familiare) in cui possono adottare politiche di sostegno al diritto alla vita».
Per questo il Mpv propone: riconoscimento del concepito quale soggetto e membro del nucleo familiare, anche ai fini di tutte le provvidenze economico- sociali; introduzione dell’obbligo per i consultori, di fronte alla donna che manifesti difficoltà legate alla prosecuzione della gravidanza: di informarla circa l’esistenza sul territorio di formazioni sociali e associazioni di volontariato prive di scopo di lucro impegnate in aiuto alla vita nascente e delle madri in difficoltà, sia prima che dopo la nascita; di documentare il colloquio e di compilare un questionario sulle cause che inducono la donna a chiedere l’aborto, il tutto nel rispetto della riservatezza e della tutela della privacy; stanziamento di un consistente budget finanziario da utilizzare per la rimozione delle cause che inducono a fare richiesta di interruzione di gravidanza; previsione di un percorso sociale personalizzato e urgente per le donne disposte a rimuovere la propria decisione abortista a fronte di un concreto sostegno; previsione e incentivazione nel Piano sanitario regionale di forme di collaborazione tra consultori e volontariato per la vita, anche attraverso regolamenti e/o convenzioni, al fine di aiutare le donne a rimuovere le cause che le inducono all’aborto; promozione della formazione degli operatori sanitari e sociali, che vengono a contatto con le madri in difficoltà per una gravidanza inattesa o indesiderata; finanziamento di corsi di formazione scolastici ed extrascolastici sullo sviluppo della vita umana prenatale e sull’importanza della tutela di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale; garanzia di un sostegno psicologico alle donne che manifestino problemi nel post- aborto; finanziamento regionale ai Comuni specificatamente destinato per l’aiuto a madri nubili e ai loro figli.
Da Avvenire di sabato 20 marzo 2010
RICORDO E TENACE IMPEGNO DI LEGALITÀ
ECCO LA PRIMAVERA QUESTO È IL SUO GIORNO ANTONIO MARIA MIRA
Per far nascere un fiore il seme muore. Sì muore, ma dal suo sacrificio ecco colori e profumi. È la primavera, stagione di bellezza e speranza. È la primavera messaggio di vita dopo la morte. Da quindici anni il 21 marzo, primo giorno di primavera, è la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie organizzata da Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti e che, è bene ricordarlo, unisce e coordina centinaia di associazioni, dall’Azione Cattolica all’Agesci, dalle Acli all’Arci, da Legambiente a tutti i sindacati e i movimenti giovanili, per lottare contro tutte le mafie e promuovere una cultura di legalità e giustizia.
Memoria e impegno, dolore e testimonianza, fatica e speranza. Hanno gli occhi, i volti, le lacrime ma anche il sorriso di Ninetta, Dario, Stefania, Lorenzo, Margherita, Massimo, Viviana, Antonio, Deborah, Matteo e dei più di cinquecento familiari di vittime di tutte le mafie che oggi attraverseranno le vie di Milano. Per ricordare i propri cari, per farli riemergere dall’oblio nel quale li voleva gettare la violenza mafiosa. Ma soprattutto per confermare il proprio impegno a trasmettere quel ricordo agli altri, ricordo di persone, ricordo di vite oneste e pulite. Lo faranno, oggi, tutti assieme così come fanno nei loro paesi andando nelle scuole, parlando ai giovani dei loro cari, di legalità, di speranza, di volontà di cambiare. «Per noi il 21 marzo è una festa, è la nostra festa», ha detto Ninetta, mamma di Pierantonio, ucciso a Niscemi e il cui corpo è stato fatto trovare solo dopo 14 anni. Già, una festa, come quando Ninetta il giorno del funerale del figlio ha voluto far suonare le campane a festa. Che forza, che energia positiva, che bella volontà di guardare sempre avanti. Grazie a quella «pedata di Dio – sono parole di don Ciotti – che ci aiuta a trasformare il dolore in testimonianza». È certo una felice coincidenza che fino a poco tempo fa il 21 marzo (giorno – secondo tradizione – della sua morte) si ricordasse San Benedetto. Ora et labora, preghiera e impegno, fede e legame stretto con la propria terra e proprie radici, valori profondi e lavoro positivo e concreto. Come questi familiari che malgrado l’immenso dolore non hanno voluto lasciare i propri paesi, ma li presidiano anche per noi. Il 21 marzo è la loro festa, ma è anche la festa di tutti quelli che con loro camminano sulle strade della legalità, della giustizia e della speranza. Di tutti, non solo di qualcuno, di una parte. Per questo suscita interrogativi il dibattito che si è aperto attorno alle proposte di legge che vorrebbero istituzionalizzare la «giornata della memoria e dell’impegno». Ottima intenzione, certo, ma accompagnata dall’ombra di un cambio di data, magari quella di una singola pur se famosa vittima (come Falcone o La Torre). Loro, i familiari, giustamente, non ci stanno. «Il 21 marzo è di tutti noi, è il giorno in cui ci siamo ritrovati e sentiti meno soli. Per questo ce lo dobbiamo tenere stretto». Ne hanno diritto. Meritano questa giornata nella quale, grazie al loro amore e a quello di tanti, sono riusciti a rinascere dalla morte. Come quel fiore che ai primi tepori di primavera sboccia di colore e di profumo. Segno di vita e di festa.
Da Avvenire di domenica 21 marzo 2010
IL DOLORE E LA FERMEZZA DI BENEDETTO
COLPI DI MAGLIO PER RIAPRIRE LA VIA ALLA SPERANZA MARINA CORRADI
Parole come non ne avevamo mai sentite dalla mite voce di Benedetto XVI. Parole come colpi di maglio. Gli episodi di pedofilia avvenuti nella Chiesa irlandese e gli errori di giudizio che li hanno preceduti e seguiti «hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione». Chi ha abusato di innocenti ne risponderà ai giudici, e «davanti a Dio onnipotente». È un tuono, la voce del Papa nella lettera ai cattolici d’Irlanda. Del tuono ha la potenza, e l’eco bassa, gonfia di dolore e di sgomento. Vi si tocca con mano quel «senso di tradimento» affermato nelle prime righe: vi sono stati affidati degli innocenti, e li avete traditi. Lettera sacrosanta, e spaventevole. Evoca la severità di padri, cui non siamo più abituati. Evoca l’ira di un Dio, di cui abbiamo perduto la memoria. Non è, il Dio di questa lettera, il Dio bonario, e talvolta buonista, cui siamo stati educati a pensare. È un Dio che chiede vergogna e rimorso; e il Papa, a nome della Chiesa, esprime personalmente «vergogna e rimorso», per quei ragazzi violati da «atti peccaminosi e criminali». È un Dio che esige aperta consapevolezza di ciò che è stato perpetrato. Che si riconosca, davanti a Dio e agli uomini, il male fatto. Un Dio che pretende penitenza: ai fedeli di Irlanda viene indicata la via di una sorta di Quaresima lunga un anno: un anno di venerdì di digiuno e preghiera. (Penitenza, altra parola antica, a molti estranea. Ricorda, questa misura di Benedetto XVI, la severità di santi predicatori di altri secoli. Cui, pure, non siamo più abituati).
Consapevolezza piena, invoca dunque il Papa. Occorre riconoscere la gravità di ciò che è accaduto. Le responsabilità di una Chiesa attorno, di vescovi, che non sono intervenuti. Occorre giustizia: quella degli uomini, nei tribunali. E fin qui la lettera parla, appunto di giustizia; mentre afferma netta: «So che nulla può cancellare il male che avete sopportato ». La frase resta come per un attimo sospesa. (A cosa servirà la giustizia, se «nulla può cancellare il male sopportato»?) Già, umanamente, nulla. E però il Papa chiede alle vittime di non perdere la speranza. Quale speranza? «Credo fermamente nel potere risanatore dell’amore di Cristo», scrive.
Ora l’eco di tuono e d’ira si fa voce leonina, certezza granitica. Certezza di un Dio che «ha il potere di perdonare persino il più grave dei peccati, e di trarre il bene anche dal più terribile dei mali». Per cui l’ultima parola rivolta ai sacerdoti colpevoli della infamia peggiore è: «Non disperate della misericordia di Dio». L’ultima parola, non è di disperazione. Dove la giustizia si ferma, può allargarsi, se domandata, se implorata, la misericordia: la giustizia secondo Dio, capace di ricreare gli uomini.
Probabilmente, i passi più ripresi di questa lettera saranno altri. Forse queste righe rimarranno ignorate. Si parlerà di 'condanna senza appello': certo, condanna del peccato. Vergogna e penitenza per il peggiore, il più infame dei peccati. Ma misericordia per il peccatore che si converta: «Non disperate della misericordia di Dio». E questo, in un tempo come il nostro che rinnega ogni speranza e insegue, magari in forme gaie, il nulla, è lo sbalorditivo segno, lo stigma di diversità del cristianesimo. L’affermare con certezza di roccia che nulla è perduto, finché l’uomo domandi a Dio. Perché «là dove abbonda il peccato, sovrabbonda la Grazia», come scrive Benedetto, citando Paolo.
Lettera ai cattolici di Irlanda, da restare senza fiato. Per la inaudita fermezza di un padre – un padre come ne vorremmo ancora – che autorevolmente ordina di ammettere le colpe. Che evoca quel Dio, cui bisognerà rispondere. Ma dice alle vittime, con un’umiltà che è quasi preghiera: possiate riscoprire l’infinito amore di Cristo. E ai violentatori: pagate, ma non disperate. Il più infame dei mali, quello contro i nostri figli, quello che al solo pensiero ci acceca d’odio: nemmeno quello vince, per chi crede in Cristo, nel Figlio che s’è fatto carne e ha vinto la morte. È vero, nulla cancella certi ricordi. Solo Cristo, annuncia il Papa, li risana.
Da Avvenire di mercoledì 24 marzo 2010
ROMERO E LE ALTRE SENTINELLE DI DIO
NEL MONDO E TRA LA GENTE PER MISSIONE
GIULIO ALBANESE
Trent’anni fa moriva monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso a sangue freddo mentre celebrava la Santa Messa vespertina nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. E proprio nel giorno in cui il popolo salvadoregno è chiamato a fare memoria dell’estremo sacrificio del suo pastore, la Chiesa Italiana celebra la XVIII Giornata di preghiera e digiuno in ricordo dei missionari martiri e di quanti sono caduti, in varie circostanze, nell’adempimento del loro dovere evangelico. Si tratta di un’iniziativa promossa come ogni anno dal Movimento giovanile missionario della Fondazione Missio.
Nel 2009, secondo il computo redatto dell’agenzia Fides, sono stati 37 i missionari che hanno perso la vita: 30 sacerdoti, 2 religiose, 2 seminaristi, 3 volontari laici. Il numero complessivo è quasi doppio rispetto al 2008, ed è il più alto registrato negli ultimi dieci anni. Umanamente parlando, si tratta di un fenomeno davvero inquietante che genera cordoglio, dolore, turbamento, talvolta anche rabbia. Sì, per tutte le vicissitudini e angherie che avvengono nelle periferie del mondo e di cui sono testimoni queste sentinelle di Dio. Eppure il perdurare della violenza nei confronti dei giusti rappresenta paradossalmente, alla luce del Vangelo, uno stato di grazia e una forte provocazione per le coscienze. Non foss’altro perché l’identità cristiana, basata essenzialmente sulla consapevolezza dell’impronta divina presente nell’animo umano, ha sempre spinto i missionari a incarnare lo 'spirito delle beatitudini', offrendo le sofferenze vissute per l’edificazione di una società nuova, rispettosa dei diritti fondamentali della persona.
Ecco perché la vita di monsignor Romero e di tanti apostoli del nostro tempo ci induce a una sorta di discernimento sulla nostra quotidianità, nella consapevolezza che essi rappresentano il valore aggiunto del cristianesimo. Sappiamo che nel cuore dell’uomo ci sono anche meschinità e crudeltà e sappiamo che gli esseri umani sono capaci di compiere crimini indicibili contro gente indifesa; tuttavia, il seme del bene è presente nell’anima di ogni persona, creata a immagine e somiglianza di Dio. Vi sono infatti uomini e donne che si sacrificano per gli altri nella società contemporanea, senza chiedere nulla in cambio, facendosi per la famiglia planetaria testimoni di speranza, in prima fila sul fronte della lotta alle prevaricazioni e alle ingiustizie. In un mondo mercantile e globalizzato, regolato dalla scriteriata ed egoistica ricerca del profitto a tutti i costi, i nostri missionari sono davvero un segno di contraddizione, testimoniando il più grande comandamento sociale della storia: quello dell’amore. Un precetto divino che rispetta gli altri e i loro diritti. Esige la pratica della giustizia e ispira una vita che si fa dono di sé, nella consapevolezza che «chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà » (Lc 17,33). Insomma, se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo uscire da noi stessi, fermamente convinti che il segno intangibile della gratuità sta proprio nella parresia intesa come coraggio di osare, di criticare i soprusi, l’assenza di solidarietà, l’odio, la guerra e ogni genere d’egoismo nella storia. È questa la discriminante tra una pratica religiosa, algida e disincarnata, asettica rispetto alle vicende umane, e la coraggiosa franchezza di coloro che, come i missionari di cui oggi facciamo memoria, vivono la militanza nel nome di Dio.
E quando per ignavia, stanchezza o delusione, noi cristiani del cosiddetto Primo Mondo, avessimo la tentazione di gettare la spugna rinunciando ad agire per il futuro, dovremmo avere l’umiltà di imparare da loro, martiri del Terzo Millennio. Sovvengono allora quasi istintivamente le parole del vescovo Romero: «La mia vita appartiene a voi». A un popolo da servire fedelmente.
La scelta di illuminare o oscurare l’esistenza è nella condotta dell’uomo e non fuori di lui.
Da E’ Vita supplemento di Avvenire di giovedì 23 marzo 2010
il confronto di Pesaro
Dal recente faccia a faccia tra gli autori del libro su Eluana e il signor Englaro, prima davanti agli studenti delle scuole superiori, poi nella sede della Provincia, un’utile lezione di metodo
«I FATTI, SENZA PAURA: COSA ABBIAMO IMPARATO»
Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola
Quello che – pare – molti in Italia temono e noi chiedevamo da tempo, e cioè un nostro faccia a faccia con Beppino Englaro, è finalmente avvenuto giovedì scorso a Pesaro: da una parte noi, inviati di Avvenire e autori del libro Eluana. I fatti, dall’altra Englaro, affiancato da vari relatori che supportano la sua 'battaglia'. L’invito ci è arrivato dalla neonata Consulta per la laicità delle istituzioni di Pesaro (un insieme di associazioni disparate, che per comune denominatore hanno la laicità come valore assoluto: Circolo Arcigay, Movimento radicalsocialista, Associazione culturale alternativa libertaria, ecc.), in un primo tempo solo per un dibattito serale nella sede della Provincia di Pesaro, poi anche per un incontro mattutino dedicato agli studenti delle superiori. Se a organizzare il duplice evento era la Consulta per la laicità, totalmente schierata con Englaro, a moderare l’incontro era il suo presidente, Raffaele Belviso.
La nostra prima preoccupazione, quindi, era il rispetto di una par condicio anche minima: parità di tempi per parlare, in un dibattito che si sarebbe svolto davanti a un uditorio (almeno la sera) di parte. Abbiamo faticato: faticato a ottenere di sederci anche noi al tavolo con Englaro anziché nel pubblico; faticato a ottenere (se non altro sulla carta, perché poi le cose sono andate molto diversamente) un tempo analogo per esprimere i nostri contenuti.
Al mattino i 600 ragazzi delle scuole si sono interrogati sulla reale volontà di Eluana, sul suo stato di salute («era come i media la descrivevano?», «una malata terminale o solo una disabile?»), sul ruolo della tecnologia, sulla possibilità che durante lo stato vegetativo potesse 'sentire'. Hanno espresso dolore per Eluana ma anche rispetto per il padre. Ciò che ci portiamo a casa è la consapevolezza di quanto i ragazzi siano desiderosi di sapere, al di là delle ideologie. Fino a oggi nelle scuole Englaro è stato accolto senza un contraddittorio, mentre gli studenti sono i più aperti a valutare solo sui 'fatti' e non sui proclami, da qualsiasi parte vengano. Per dar loro ciò che chiedono, però, è necessario essere competenti, conoscere i fatti, esser pronti ad accogliere anche i loro dubbi, spesso peraltro condivisibili («qual è il confine tra accanimento terapeutico e diritto alle cure?»).
Alla fine del lungo incontro non è casuale se si sono affollati attorno a Massimiliano Tresoldi (il giovane risvegliatosi dopo 10 anni di stato vegetativo, raccontando che in quel decennio di 'assenza' aveva sentito tutto): a loro interessava vedere, toccare con mano quella vita che c’era, che c’era sempre stata, nonostante i medici dicessero «è morto da dieci anni».
Ciò che ci siamo portati via da Pesaro è anche la preoccupazione per migliaia di altri studenti meno fortunati, che nelle scuole d’Italia vengono sottoposti al suono di una sola campana. Quattro ragazzi si sono rivolti a Englaro parlando di «macchina da staccare», e mai lui li ha contraddetti, mai ha spiegato loro che la figlia viveva di vita autonoma (lo abbiamo alla fine fatto noi, anche se era difficile controbattere a causa di una conduzione poco propensa a cederci il microfono... un conteggio dei tempi, specie la sera, che in un vero dibattito sarebbe stato da codice rosso!).
Lo stesso moderatore, ben lungi dal moderare, ha spiegato a 600 ragazzi in pieno orario scolastico (se i genitori sapessero...) che l’unica cosa che conta è la libertà personale finché non si fa del male agli altri. Volete attraversare la strada quando è rosso?
La vita è vostra. Volete andare in due su un motorino? Fatelo.
Drogarvi? Nessun problema... Anche la sera di fronte alla Consulta il dibattito è stato serrato ma sereno, nonostante un tifo da stadio per Englaro e il vicepresidente della Provincia apertamente schierato. Eppure il pubblico – va detto – ci ha ascoltati e sembrava colpito da fatti che, evidentemente, non conosceva: «Da due anni in stato vegetativo, Eluana ha pronunciato due volte in maniera comprensibile la parola 'mamma'», abbiamo fatto sapere, e «a comando apre e chiude la mano». Stupidaggini, ha provato a sostenere Englaro. Ma noi leggevamo nero su bianco cartelle cliniche.
Dunque nessun timore, dibattiamo serenamente, dati alla mano, aperti anche a riconoscere eventuali ragioni dall’altra parte, ma non disposti a tacere rassegnati. Englaro si è detto d’accordo per altri confronti, anche televisivi. Noi sempre disponibili.
Da Avvenire di sabato 6 marzo 2010
ANKARA CHIAMATA AL VERO PASSO: FARE I CONTI CON
LUIGI GENINAZZI
Fu il primo genocidio del secolo scorso, un prologo agli orrori che seguirono fino al culmine della barbarie toccata con l’Olocausto. Ma se ne parla poco e malvolentieri. Ricordare il genocidio del popolo armeno compiuto dalla Turchia nel 1915, oltre un milione e mezzo di persone deportate, massacrate o lasciate morire di stenti nei deserti della Siria, significa evocare una questione dai risvolti politici dirompenti. Se n’è avuta l’ennesima conferma dopo che la commissione esteri del Congresso americano ha approvato una risoluzione in cui si riconosce il genocidio degli armeni, suscitando la furibonda reazione della Turchia. Il negazionismo di Ankara è un vero e proprio dogma sul Bosforo e sembra essere l’unico cemento in grado di tenere insieme un Paese drammaticamente spaccato tra laici e islamisti. Chi s’azzarda a rompere questo tabù commette un crimine punito severamente dal famigerato articolo 301 del codice penale che prevede il carcere «per chiunque reca offesa all’identità turca». Decine di giornalisti e scrittori, fra i quali il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk, hanno subìto un processo per questo, insultati come traditori della patria. C’è chi, come lo storico Taner Akcam, è finito in galera. E qualcuno, come il giornalista armeno Hrant Dink, ha pagato con la vita, ucciso da un killer in pieno centro d’Istanbul.
Il governo di Ankara nega il genocidio, preferendo parlare genericamente di «una tragedia che ha accomunato turchi ed armeni in circostanze di guerra». Si tratta di una menzogna che si fa scudo di una piccola verità: i fatti avvennero sì nel contesto della Grande Guerra ma ciò non toglie che fu un vero e proprio genocidio, vale a dire «lo sterminio di un gruppo nazionale, etnico o religioso», secondo la definizione dell’Onu. Del resto la pulizia etnica nei riguardi degli armeni venne teorizzata e poi praticata dai Giovani Turchi fin dal 1909.
A differenza della Germania che ha fatto mea culpa per i crimini del nazismo,
Vistosa lacuna che contraddice storia e ideali del nostro vecchio continente.
Da Avvenire di giovedì 11 marzo 2010
Il direttore risponde
«Ah, se il PD avesse detto...». Cambiare passo si può ancora
Caro direttore,
l’esclusione della lista del PdL nella provincia di Roma, ovviamente pone moltissime questioni, a partire dall’atteggiamento arrogante che quella parte politica assume di fronte a troppe regole. Ma su questo aspetto è inutile dilungarsi per sovrabbondanza, diciamo così, «di letteratura».
Sarebbe – vecchi ricordi di liceo – come «portare vasi a Samo»: cioè inutile perché, appunto, Samo nell’antichità era famosa per i suoi vasi. Tornando all’oggi, quale argomento migliore di campagna elettorale per il centrosinistra avrebbe potuto essere la litigiosa sciatteria di un centrodestra che non solo non sa comporre decorosamente i propri interessi in conflitto, ma non vuole neppure rispettare le regole? Ma è un argomento che il centrosinistra, e il PD in particolare, non potrà più utilizzare. E questo non solo perché – parlo per
Se, come Bersani sostenne al Congresso che lo ha eletto, l’intento del PD è quello di rappresentare anche il buon senso comune degli italiani, questa volta ha proprio perso l’occasione. Era proprio questo, infatti, il momento nel quale il centrosinistra avrebbe potuto far valere davanti agli elettori (che sono gli unici veri giudici della politica, come Avvenire ha scritto più volte), quella superiorità «politica» di cui ha sempre menato vanto. Non ci voleva una cultura giuridica da specialisti per invocare quello che ormai nella giurisprudenza si ritrova quasi ad ogni passo, e cioè il concetto di notorietà. Non ci volevano certo Cicerone o Ulpiano, per capire che il PdL era determinato a correre anche nella Provincia di Roma. E non ci voleva alcuna genialità politica (anzi c’era tutto da guadagnare) a sostenere che le elezioni hanno regole e regole. Un conto sono quelle relative al conteggio dei voti, quelle vere; un altro conto sono le formalità dell’ammissione dei simboli. E certo un partito importante come il PD, non doveva dare l’immagine di chi, lontano dall’idea della rappresentanza democratica, gioca la sua partita su minuzie regolamentari, come se si trattasse dell’ammissione a un concorso pubblico dove vale le perentorietà dei termini di scadenza per la presentazione delle domande. Ma la scelta è stata un’altra: tentare di correre da soli. Brutta idea della democrazia e, dunque, pessima immagine del «partito nuovo».
Le tue parole, caro Pio, esprimono la riflessione amara e appassionata di un uomo che coltiva un’idea della politica alta e al tempo stesso efficace. E sono la testimonianza di un cittadino che sa che cosa significa fare una concreta scelta politica (sei stato un iscritto-fondatore del PD) senza rinunciare alla sana e autonoma capacità di giudizio dell’intellettuale e giornalista di vaglia. Grazie per avercene messo a parte: la trovo utile e originale.
Avrei preferito che fosse solo «utile», perché il fatto che suoni anche «originale» sottolinea che la difficoltà attuale della politica è davvero grande. Del resto, la deriva è sotto gli occhi di tutti. Siamo chiamati a una tornata amministrativa segnata da prove elettorali in ben 13 Regioni. Dovremmo, perciò, parlare e scrivere di questioni di governo locale che pur in questa fase di federalismo imperfetto (e semi-caotico) sono di assoluto rilievo perché riguardano la vita concreta di milioni e milioni di cittadini e, invece, vediamo e raccontiamo il dibattere furente (e caotico) su tutt’altro, nonché il moltiplicarsi di inquietanti pressioni sulle più alte istituzioni (a cominciare dal Quirinale). Come se non bastasse, assistiamo nelle aule parlamentari, a preoccupanti prove di forza tra maggioranza di centrodestra e forze di centrosinistra alle quali solo l’UdC, tornata a rivendicare la sua terzietà rispetto a un bipolarismo malato, mostra di volersi negare. E siamo già stati avvertiti che quelle prove di forza si trasferiranno presto in piazza.Il disorientamento cresce, così, di pari passo con il fastidio per quest’ennesimo impazzimento del dibattito politico. E la somma di disorientamento e fastidio finisce, si sa, per produrre distacco e rifiuto. Sentimenti pericolosi alla vigilia di un voto. Ci pensino i leader politici. Tornando, se vogliono, con la memoria al pressante appello a «svelenire il clima» e a un «disarmo» ragionato e ragionevole che sin dallo scorso novembre il cardinal Bagnasco lanciò, nel nome del bene comune, all’assemblea dei vescovi italiani ad Assisi. Anche se la corsa alla polemica totale e allo scontro frontale sembra irrefrenabile, un cambio di passo e di direzione è ancora possibile. Chi lo avvierà per primo avrà due volte ragione.
Da www.PIU’VOCE del 12 marzo 2010
Ritirato l’offensivo libretto per bambini contenuto nel menu "Happy Meal"
IL DILEGGIO DELLA RELIGIONE A PARIGI E` DA MC DONALD`S
Nicoletta Tiliacos
Laicità alla francese. Fino a qualche giorno fa, i piccoli clienti parigini di McDonald’s ricevevano in dono, nel caso avessero scelto il menu “Happy Meal”, un libretto di giochi illustrato e colorato, edizioni Dupuis. Carino, no? Peccato che il libretto mostri Blork, un pupazzo sgangherato e già molto noto tra i ragazzini, sotto forma di “prete Blork”, mentre celebra il matrimonio di altri due mostriciattoli.
Il “prete”, dotato di cappello vescovile e con tanto di stola sacerdotale, legge in un messale e brandisce una croce sulla quale è inchiodata una specie di ranocchia. Alla simpatica immagine è abbinato un indovinello, la cui soluzione, riportata a pié di pagina, recita: “Volete voi prendere la qui presente Suzanne come pasto?”. Qualcuno ha timidamente protestato, e per ora il libretto è stato ritirato, con qualche scusa imbarazzata, dalle edizioni Dupuis. Si attendono vibrate controproteste in nome della laicità.
Da Avvenire di mercoledì 10 marzo 2010
Il doppio inganno del «Grande fratello» DI MIRELLA POGGIALINI
Si chiama 'reality', abilissima invenzione: ma è illusione, se si vuol esser benevoli, oppure inganno. Perché di reale, nella melensa schiera dei cosiddetti 'giovani d’oggi' che da dieci anni il Grande fratello allinea con pervicace e fortunata finzione, non c’è nulla. E lo ha dimostrato la vittoria, nella decima edizione, conclusasi lunedì sera con un picco di spettatori contato in 9.011.000 alle 22,31 (con una media di 7.460mila spettatori e il 34,47% di share) di quello che è stato definito 'autentico', quel furbo Mauro Marin che si è ritagliato una parte di antagonista odioso e polemico per catturare attenzione e voti: maschera di quella nuova 'commedia dell’arte' che pesca nell’improvvisazione ben congegnata da abili autori e nella verità finta recitata con astuzia.
Per venti settimane, dal 26 ottobre, i reclusi della 'casa' hanno oziato con ambigua manifestazioni di affetto e clamorose risse, accoppiamenti spacciati per innamoramenti e volgarità esibite come espressioni di autenticità: creando uno spettacolo continuo che è riuscito a coinvolgere un gran numero di persone avidamente curiose di scoprire intimità segrete e sentimenti sinceri e ingenuamente convinte di rispecchiarsi in una umanità vera. C’è stato, dietro l’interminabile spettacolo di una triste reclusione volontaria, vissuta nella speranza della fama e del denaro facile, un piano assai complesso in cui ognuno dei partecipanti era spinto a manifestare istinti non frenati e pulsioni infantili, in una crudele operazione di scorticamento emotivo. E non a caso gli eletti erano, ognuno per la sua parte, campioni di trasgressione o di eccesso: come se la normalità, quella che davvero rispecchia nel quotidiano la verità dell’esistenza, fosse bandita perché inutile. Privi di contatto con l’esterno se non pilotato, manovrati come burattini da una sorridente 'direttrice', pronti a ogni esibizione che garantisse e soddisfacesse le curiosità più morbose (i letti-covile, i bagni palcoscenico, gli abbracci per nulla celati) i concorrenti hanno lottato gli uni contro gli altri in apparente e dichiarata amicizia, pronti tuttavia a sbranarsi con grevi insulti e becere risse.
Sollecitando imbarazzanti guardonismi che hanno coinvolto anche i più giovani, le interminabili ore in cui nulla di utile o intelligente era consentito hanno fatto mostra di un vuoto esistenziale che corrispondeva a un vuoto mentale ancor più amaro. E lo spettatore che è sfuggito al fascino del programma si è sentito urtato e spaesato di fronte a questa immagine beota di giovani inutili, sprecati in esibizioni plateali. Non per nulla, rivedendosi quando, usciti dalla casa, erano allineati in platea, molti di questi hanno manifestato essi stessi imbarazzo rivedendosi nei filmati quali erano all’interno della lussuosa prigione: in una resipiscenza che i volti rivelavano chiaramente. Dieci anni: quelli del primo anno sono già adulti, sono scomparsi dalla memoria, dovrebbero esser maturi, aver abbandonato le fatue illusioni di fama da balera e su rotocalchi pettegoli. Ma l’immagine di uno degli sconfitti, lunedì sera, che piangeva su se stesso mentre spegneva le luci della 'casa' e dava addio ai suoi sogni di gloria, è il simbolo triste e insieme crudele di speranze ingannatrici, di sogni spenti perché nati nel vuoto.
Ci fanno credere che l’Italia sia questa e che quest’anno abbia vinto un ragazzo controcorrente ma è tutto così finto da fare tristezza Già previste altre tre edizioni.
Da Avvenire di domenica 7 marzo 2010
CANDIDATE IN MASSA AL VOTO
DONNE A BAGHDAD IL CORAGGIO DI METTERCI FACCIA E CUORE FULVIO SCAGLIONE
Cinque anni fa, alle elezioni parlamentari cui partecipavano anche i sunniti che avevano disertato le elezioni provinciali (gennaio 2005) e il referendum costituzionale ( ottobre 2005), per le donne irachene era importante mostrare le dita tinte di viola, la prova che erano state al seggio e avevano votato. Velate, circondate dagli uomini di famiglia, alzavano le mani a favore dei fotografi accorsi a documentare un evento che a molti era sembrato fino all’ultimo impossibile: per le stragi dei terroristi, le divisioni etniche e religiose, le rivalità politiche, l’attività ancora intensa delle truppe americane. Oggi i qaedisti hanno meno spazio, la politica somiglia più alla dialettica dei partiti e meno allo scontro delle fazioni, la presenza dei soldati Usa è più discreta. E le donne, al voto, hanno portato molto più della voglia di dire ' c’ero anch’io'.
Questa volta ci hanno messo la faccia, e non è un modo di dire. Molte delle duemila candidate si sono fatte fotografare a viso scoperto per i manifesti elettorali, un’audacia che vale più di un programma politico in un Iraq pur sempre tormentato dal fondamentalismo islamico e dove ancora un anno fa, alle elezioni provinciali, piovevano le denunce delle candidate i cui manifesti venivano rimossi dagli uomini in segno di disprezzo. Ci hanno messo il cervello, le donne irachene, ora decise ad approfittare delle possibilità offerte dalla legge elettorale ( un terzo dei candidati in lista deve essere donna) e dalla Costituzione (82 seggi del Parlamento, un quarto del totale, devono andare alle donne) e pronte ad assumersi responsabilità nuove, superiori a un passato fatto di scarsi ruoli di 'consigliere' o, al più, di ministeri per
E ci hanno messo il cuore, a partire da quelle 600 anonime irachene che nella difficile provincia di al-Anbar hanno accettato, dopo un breve corso, di lavorare ai seggi per intercettare eventuali donne kamikaze che non potrebbero essere controllate o perquisite dagli uomini della polizia. Per l’Iraq è un capitale enorme, soprattutto se consideriamo che esso si accumula in una regione dove la donna si affaccia alla politica solo dopo aver dimostrato intransigenza persino superiore a quella degli uomini (Iran) o dove le donne sono state ammesse in magistratura ( Emirati Arabi Uniti) solo un anno e mezzo fa. Ed è un capitale che andrà gestito e speso con cura. L’influenza degli Usa è stata decisiva per affermare certi principi di pari opportunità nella legislazione irachena. Ma l’esito non sarebbe così clamoroso se nel Dna nazionale non ci fosse un primitivo elemento di emancipazione femminile. Le irachene rappresentano oltre il 60% della popolazione del loro Paese e fino alla Guerra del Golfo hanno goduto di un pari diritto all’istruzione e di qualche apertura sociale superiore a quelle offerte alle altre donne del Medio Oriente. Per supportare la propria folle deriva dittatoriale e bellicista, Saddam Hussein tentò anche la carta di un islamismo forse di facciata ma, per le donne, ugualmente pesante nelle conseguenze. E dopo la sua cacciata, lo spettro del fondamentalismo di stampo talebano si è a lungo e crudelmente agitato nell’Iraq che tentava di rinascere. La sorte delle donne, il loro inserimento nei ranghi di uno Stato che si consolida e di un’economia che riparte, sarà dunque il primo termometro del cambiamento rispetto al passato e della sua efficacia rispetto al futuro.
E potrà certo fare da traino all’evoluzione possibile in altri Paesi cui, forse, manca solo un esempio culturalmente non troppo lontano.
Da Avvenire di domenica 7 marzo 2010
«Ho la sclerosi multipla ma vivo col sorriso»
Gian Carla è in carrozzina per la malattia: «I miei cari mi danno la forza, non mi voglio piangere addosso» DA MILANO ENRICO NEGROTTI
Una testimonianza di amore per la vita, forza di volontà e fiducia nel futuro, anche della ricerca scientifica. Sono le impressioni che si ricavano dalla lettura delle pagine del libro di Gian Carla Bozzo («Flash. Frammenti di vita». Istess-Fnism, Terni) per raccontare la sua esperienza di donna che passa da una spensierata gioventù a un’età adulta caratterizzata dalle crescenti difficoltà causate dalla sclerosi multipla, la malattia neurodegenerativa che l’ha colpita in modo particolarmente aggressivo, costringendola in sedia a rotelle. Gian Carla, laureatasi in Ingegneria elettronica nel 1993 e moglie di Luca dal 1996, frequentando un laboratorio della Cooperativa Cultura e Lavoro di Terni ha potuto scrivere attraverso un computer comandato da sensori che rispondono al movimento della testa, al ritmo di 4-5 righe in un’ora e mezza: le fresche pagine della sua storia sono animate di episodi lontani e recenti, lieti e faticosi, mai privi però di un sorriso. «Sono sempre sorridente e faccio tutto come se non avessi nulla – scrive Gian Carla –. Non mi sono chiusa in casa come tante persone che hanno la mia stessa malattia.
Non mi voglio piangere addosso». E a chi la definisce una donna forte replica: «Se guardo solo dentro me stessa, non vedo molta forza. Sono i miei cari, i miei amici, i miei affetti ad amplificarla. In questo mi ritengo fortunata».
Come è stato l’impatto con la malattia?
Graduale. Mi rendo conto a distanza di anni che la diagnosi iniziale, fatta nel 1995, non mi sconvolse. Infatti a quel tempo mi sentivo bene, i sintomi erano scomparsi quasi del tutto, ero sicura che al massimo avrei fatto parte di quella percentuale di malati nei quali la malattia procede così lentamente, che quasi non se ne accorgono per tutta la vita. Andavo regolarmente dal neurologo, mi stavo informando su alimentazioni particolari che mi potessero aiutare, ma credevo che non avrei mai avuto veramente bisogno di tutto ciò. Poi, già l’anno successivo, i sintomi hanno cominciato ad aumentare, mi stancavo più facilmente a camminare, a scrivere, a lavorare. Fino al 2000 circa ho mantenuto quasi una totale autonomia, iniziando però a convivere con le mie difficoltà e con una nuova e indesiderata compagna di vita.
Che cosa si sente di dire alle persone nelle sue condizioni, ma che non hanno la sua stessa attitudine a lottare?
Credo che non esista una risposta valida per tutti, però dalla mia esperienza direi che può aiutare il cercare di non scoraggiarsi, di avere interessi, sorridere alla vita e alle persone che ci stanno vicino. È con queste persone, e soprattutto con i nostri cari, che è importante instaurare un rapporto positivo. Se questo riesce, ci permette di dare ai nostri cari stimoli ed energia per lottare con noi giorno dopo giorno. E ricevendo il loro appoggio noi ci sentiamo più forti, recuperiamo energia, possiamo dare loro ancora la carica, e il ciclo si ripete.
Quali sono le sue aspettative nei confronti della ricerca scientifica?
Pur sapendo che le probabilità che io riesca a riguadagnare qualcosa delle mie funzionalità perdute sono basse, non dispero.
Mi accontenterei soprattutto di recuperare un po’ l’uso delle braccia e di diminuire le mie difficoltà nel parlare. Soprattutto quest’ultimo ostacolo negli ultimi tempi mi sta limitando molto. Sono sempre stata un tipo estroverso, a cui piace tanto parlare e comunicare. Quando sono cominciate le difficoltà nei movimenti, ho sopperito con il telefono alla diminuita mobilità. Ora però è diventato difficilissimo farmi capire al telefono e anche di persona è molto faticoso. Sì, spero proprio che la ricerca, con fatti concreti, mi restituisca un po’ di chiacchiere...
Il ricavato del libro è destinato alla onlus Neurothon (www.neurothon.com), che sostiene le ricerche di Angelo Vescovi per portare in sperimentazione clinica nei laboratori di Terni le cellule staminali cerebrali contro le malattie neurodegenerative.
Da Avvenire di mercoledì 10 marzo 2010
BUON TESTO, DA APPLICARE BENE
UNA RETE DI NORME E SOLIDARIETÀ PER SOSTENERCI NELL’ULTIMA FRAGILITÀ ASSUNTINA MORRESI
Da oggi in poi, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore sarà regolato nel nostro Paese da una delle poche leggi approvate in condivisione da maggioranza e opposizione, nei due rami del Parlamento. E ci auguriamo che la ratifica finale del testo di legge su una problematica così particolare – il prendersi cura delle persone nel momento più gravoso della propria vita – avvenuta nonostante il clima pre-elettorale letteralmente invivibile di questi giorni, sia un segno della sostanziale tenuta, nonostante tutto, della nostra classe politica.
Tutti d’accordo, quindi, una volta tanto: la predisposizione di due reti nazionali di assistenza sanitaria, espressamente dedicate alle cure palliative l’una, e alla terapia del dolore l’altra, come prevede la nuova legge, significa la possibilità per ciascuno di noi di poter essere sostenuto e accompagnato, concretamente, nei momenti di massima fragilità, quelli nei quali non c’è più speranza di guarigione, ma soprattutto che non si possono affrontare in solitudine. Come sappiamo, il termine 'palliative' deriva dal latino 'pallium', cioè 'mantello', una parola usata per evocare l’idea di proteggere, coprire, o meglio, di essere coperti e protetti: un 'pallium' che non si è in grado di indossare da soli, perché in quei momenti abbiamo bisogno di qualcuno che ce lo appoggi sulle spalle, e sappia come farlo. La dignità della nostra vita, quando la vita se ne sta andando, non si misura dal grado residuo di autosufficienza, ma da se e da quanto siamo nelle condizioni di accettare e affrontare il dolore, e la fine della nostra esistenza. È questo lo scopo ultimo del 'pallium', che implica una rete di rapporti che ci accoglie e ci sostiene. E se non può certo essere una legge, seppur buona, a risolvere il mistero del dolore e della nostra finitezza, è anche vero che può aiutare a starci davanti, e ad averne meno timore. Perché le nuove norme siano realmente efficaci, sarà necessario un monitoraggio accurato della loro applicazione da parte delle autorità coinvolte, per evitare da un lato che gli articoli di legge rimangano sulla carta, inattuati, e, allo stesso tempo, per escludere tassativamente ogni possibile abuso, tenuto conto della tipologia e della potenza dei farmaci utilizzati in queste circostanze.
Saggiamente, la legge sulle cure palliative è stata separata dal testo Calabrò sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (la cosiddetta legge sul fine vita), ancora in discussione in Parlamento: la possibilità di rifiutare terapie mediche, anche anticipatamente rispetto a quando potrebbero essere somministrate, come prevista dalle Dat, riguarda la libertà di cura e il consenso informato, e il dibattito di questi mesi ha mostrato che chi chiede di non essere curato qualora si trovasse in condizioni particolarmente gravi, non lo fa per mancanza di terapie che rechino sollievo al dolore, ma piuttosto per un’idea di autodeterminazione spesso esasperata, che si dilata fino a comprendere il «diritto a morire». D’altra parte, proprio le storie di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, che hanno costretto l’opinione pubblica italiana a confrontarsi con queste problematiche, hanno mostrato quanto le cure palliative non c’entrino con le Dat: Welby ed Eluana non erano malati terminali, e il problema del dolore si è posto per entrambi solo quando la loro vita è stata spenta da interventi esterni. Insomma, le idee sul fine vita hanno un contorno più netto, adesso, e qualche alibi è caduto. Il Parlamento ha prodotto una buona legge, finanziata nonostante le difficoltà economiche del momento. Adesso bisogna applicarla al meglio.