sabato 27 marzo 2010

PORTA PAROLA 27 Marzo 2010


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da Bologna 7 supplemento di Avvenire di domenica 21 marzo 2010
ELEZIONI REGIONALI
ECCO LA BUSSOLA PER ORIENTARSI
STEFANO ANDRINI
Domenica e lunedì si voterà in Emilia Romagna per eleggere il uovo presidente regionale e rinnovare l’assemblea legislativa. Su queste pagine abbiamo cercato di approfondire alcuni temi che ci sembrano cruciali, confortati nella scelta redazionale dalla Nota dei Vescovi dell’Emilia Romagna che hanno individuato nella tutela dei valori non negoziabili non solo una bussola per orientarsi ma anche una chiave di lettura per comprendere la vera posta in gioco della prossima tornata elettorale.
Giovani, famiglia, vita, welfare e scuola sono gli elementi sui quali la nostra regione si gioca il futuro: vincere queste sfide significherà intraprendere una nuova strada di sviluppo e di benessere; perderle, invece, equivarrebbe a imboccare il tunnel senza ritorno del declino. Non è un caso che proprio queste tematiche siano state silenziate da quasi tutti gli schieramenti.
Ma chi governerà nella prossima legislatura non potrà esimersi dall’affrontarle. I Vescovi sono molto chiari nell’affermare che i valori non negoziabili sono un patrimonio indisponibile: da coltivare nella prospettiva del bene comune.
Questo significa che non basta da parte delle forze politiche un generico unanimismo sui valori non negoziabili.
Tutti possono essere d’accordo sulla salvaguardia del creato. Ma nel concreto c’è, per esempio, chi mette al centro del creato l’uomo e chi la foca monaca. Con tutto il rispetto per la foca monaca non abbiamo dubbi che la prima posizione sia quella più vera ed efficace per attuare il valore indicato dai Vescovi: una posizione che i politici cattolici , in qualunque parte si collochino, non solo non possono ignorare ma anche non possono portare al mercato.
Al nuovo governatore e alla nuova assemblea legislativa noi chiediamo dei «sì» e non dei «se» e dei «ma»: sì alla libertà di educazione, sì alla valorizzazione della famiglia senza pericolose scorciatoie, sì alla promozione delle alternative all’aborto, sì ad un welfare che metta al centro la persona.
Sì, in estrema sintesi, ad una politica amministrativa che ha le sue radici nella sussidiarietà. Quella vera e non quella taroccata che a volte la stessa politica e le stesse istituzioni ci contrabbandano per tale. Sono buoni motivi che danno la possibilità agli elettori di esprimere un voto vero e meditato. Sono buoni motivi, inoltre, per non cedere alla tentazione dell’astensionismo che altro non sarebbe se non la resa ai potentati che sbandierano l’importanza del popolo ma in realtà non vogliono farlo partecipare. Non daremo quindi ai lettori indicazioni di voto.
Ma un suggerimento non negoziabile: votate per difendere l’uomo e la sua dignità.

Nota dei Vescovi sul voto regionale
I Valori non negoziabili sono la bussola
Gli Arcivescovi e Vescovi della regione Emilia-Romagna desiderano indirizzare ai fedeli delle loro comunità questa comunicazione, in vista delle elezioni regionali del prossimo mese di marzo.
1. Come Vescovi, la nostra prima inderogabile missione è di annunciare il Vangelo proponendo ad ogni uomo la via della fede, come via della libertà, come via della responsabilità e della salvezza.
Ma il Vangelo che dobbiamo annunciare contiene anche una precisa concezione dell'uomo e di tutta la sua realtà, personale e sociale, che risponde in modo adeguato alle fondamentali esigenze della sua persona. E questa concezione il nucleo portante della Dottrina Sociale che la Chiesa ha sempre proclamato e testimoniato, e che l'attuale pontefice Benedetto XVI ha mirabilmente sintetizzato nell'espressione «valori non negoziabili».
2. Essi costituiscono patrimonio di ogni persona, perché inscritti nella coscienza morale di ciascuno. A questi valori anche ogni cristiano deve riferirsi come criterio ineludibile per i suoi giudizi e le sue scelte nell'ordine temporale e sociale.
Eccoli sinteticamente:la dignità della persona umana, costituita ad immagine e somiglianza di Dio, e perciò irriducibile a qualsiasi condizione e condizionamento di carattere personale e sociale; la sacralità della vita dal concepimento fino alla morte naturale, inviolabile ed indisponibile a tutte le strutture ed a tutti i poteri; i diritti e le libertà fondamentali della persona: la libertà religiosa, la libertà della cultura e dell'educazione; la sacralità della famiglia naturale, fondata sul matrimonio, sulla legittima unione cioè fra un uomo e una donna, responsabilmente aperta alla paternità e alla maternità; la libertà di intrapresa culturale, sociale, e anche economica in funzione del bene della persona e del bene comune; il diritto ad un lavoro dignitoso e giustamente retribuito, come espressione sintetica della persona umana; l'accoglienza ai migranti nel rispetto della dignità della loro persona e delle esigenze del bene comune; lo sviluppo della giustizia e la promozione della pace; il rispetto del creato.
3. E questo complesso di beni che costituisce l'orizzonte immutabile di ogni giudizio e di ogni impegno cristiano nella società. Persone, raggruppamenti partitici e programmi devono pertanto essere valutati a partire dalla verifica obiettiva del rispetto di quei beni. Perciò la coscienza cristiana rettamente formata non permette di favorire col proprio voto l'attuazione di un programma politico o la promulgazione di leggi che non siano coerenti coi valori sopraddetti, esprimendo questi le fondamentali esigenze della dignità umana.
4. Siamo consapevoli di avere proposto ai nostri fedeli non solo orientamenti doverosi per l'oggi, ma anche un costante cammino e educativo, mediante cui l'assimilazione dei valori della Dottrina Sociale della Chiesa porta a giudizi e a scelte responsabili e coerenti, sottratte ai ricatti dei poteri ideologici e mass-mediatici o avvilite da interessi particolaristici. Vorremmo che crescesse, anche in forza di un rinnovato e quotidiano impegno educativo delle nostre Chiese, un laicato che proprio a causa della sua appartenenza ecclesiale, fosse dedito al bene comune della società.
5. La Chiesa non deve prendere «nelle sue mani la battaglia politica» Pertanto clero ed organismi ecclesiali devono rimanere completamente fuori dal dibattito e dall'impegno politico pre-elettorale, mantenendosi assolutamente estranei a qualsiasi partito o schieramento politico. Per i sacerdoti questa esigenza è fondata sulla natura stessa del loro ministero.
6. Ma è un diritto dei fedeli essere illuminati dai propri pastori quando devono prendere decisioni importanti. Se un fedele chiedesse al sacerdote come orientarsi nella situazione attuale, il sacerdote tenga presente quanto segue. Ogni elettore è chiamato ad elaborare un giudizio prudenziale che per definizione non è mai dotato di certezza incontrovertibile. Ma un giudizio è prudente quando è elaborato alla luce sia dei valori umani fondamentali che sono concretamente in questione sia delle circostanze rilevanti in cui siamo chiamati ad agire.
Ciò premesso in linea generale, ogni elettore che voglia prendere una decisione prudente, deve discernere nell'attuale situazione quali valori umani fondamentali sono in questione, e giudicare quale parte politica - per i programmi che dichiara e per i candidati che indica per attuarli - dia maggiore affidamento per la loro difesa e promozione.
L'aiuto che i sacerdoti devono dare quindi consiste nell'illuminare il fedele perché individui quei valori umani fondamentali che oggi in Regione meritano di essere preferibilmente e maggiormente difesi e promossi, perché maggiormente misconosciuti o calpestati. Il Magistero della Chiesa è riferimento obbligante in questo aiuto al discernimento del fedele. Ma il sacerdote deve astenersi completamente dall'indicare quale parte politica ritenga a suo giudizio che dia maggior sicurezza in ordine alla difesa e promozione dei valori umani in questione. Questa indicazione infatti sarebbe in realtà un'indicazione di voto.
La nostra Regione, così come l'intera nostra nazione, sta attraversando un momento difficile. Pensiamo in primo luogo e siamo vicini alle famiglie colpite da gravi difficoltà economiche; e a chi ha perduto o rischia di perdere il lavoro.
La consultazione elettorale è una occasione nella quale ogni fedele è invitato ad esercitare mediante il voto una parte attiva nella doverosa edificazione della comunità civile. In questo modo «la carità diventa carità sociale e politica: la carità sociale ci fa amare il bene comune e fa cercare effettivamente il bene di tutte le persone, considerate non solo individualmente, ma anche nella dimensione sociale che le unisce».

Da Avvenire di venerdì 26 marzo 2010

Forum delle associazioni familiari
Famiglia e vita, la sfida della società civile
DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
Tra il dire e il fare c’è di mezzo un voto. Ma c’è anche la vigi­lanza della società civile, che è pronta a chiedere conto di man­cate realizzazioni delle promesse o di eventuali discrepanze rispetto a quanto affermato in campagna e­lettorale. Soprattutto per un nodo fondamentale della società come la famiglia. Perciò, nel giorno in cui il Forum delle associazioni familiari ha annunciato l’a­desione al suo ma­nifesto di venti can­didati governatori e di oltre 400 candida­ti consiglieri, ha allo stesso tempo fissato lo sguardo già ai cento giorni. Anzi ai 365, ha detto il pre­sidente del sodalizio Francesco Belletti, dando appunta­mento al 25 marzo 2011 per un primo bilancio.
Erano 13 ieri le conferenze stampa in contemporanea in tutti i capoluoghi delle regioni interessate dal voto del 28 e 29 marzo. Quella nazionale, e del Lazio, si è tenuta nella sede del­la Fondazione Achille Grandi, a due passi da Montecitorio. Belletti si è detto soddisfatto di quella che ha de­finito una prova di cittadinanza de­mocratica «dal basso» e ha voluto ri­badire che «ai candidati è stato chie­sto un impegno personale, non di partito». Ci hanno messo la firma per «un impegno speciale del quale chie­deremo conto». E ai candidati, se e­letti «chiediamo un dialogo sui con­tenuti e prese di posizione anche fuori degli schieramenti», ha ricor­dato Belletti. Insomma, anche se qualcuno vorrà leggere l’operazione come un’indi­cazione di voto, la sostanza è chia­ra. Proporre una piattaforma. Ve­dere chi ci sta. E poi vigilare con spi­rito critico e collaborativo con chi amministrerà (anche chi per varie ragioni non ha firmato e che «vo­gliamo convincere » , assicurano quelli del Forum), nella consape­volezza che la famiglia è un bene per il Paese, non è appannaggio di una parte. Il messaggio partito dal Family Day del 2007. Di parte non vuole essere neppure la proposta della sottoscrizione: piut­tosto uno strumento di servizio per il discernimento del cittadino elet­tore, spiegano gli organizzatori. Già, perché se si guarda alla campagna e all’informazione politica messa in campo per la consultazione, il pre­sidente nazionale del Forum storce un po’ il naso. E dedica alla questio­ne il passaggio più duro del suo in­tervento. Invece di confrontarsi su sanità, servizi sociali, politiche del lavoro, educazione e scuola, tutela della vita umana, difesa della fami­glia fondata sul matrimonio, soste­gni alle giovani coppie e altri punti qualificanti delle politiche familiari, «sciaguratamente per lunghe setti­mane il 'discorso pubblico' di par- titi politici, candidati, organi ammi­nistrativi e mezzi di stampa è stato occupato dalla questione della cor­rettezza delle liste elettorali, in un guazzabuglio mediatico che ha co­stretto lo stesso presidente della Re­pubblica a parlare di 'pasticcio'». Dunque, il Paese è stato «derubato» di un «dibattito serio» su contenuti, programmi e progetti proprio «di fronte a una scadenza che conside­riamo di grande importanza per il nostro futuro immediato e più a lun­go termine», ha con­cluso Belletti.
Il manifesto, presen­tato circa un mese fa, sollecita alcune misure a livello na­zionale, da declina­re sempre più nelle competenze regio­nali. Una legge per la famiglia «seria, fina­nziata, sussidiata e partecipata. Non assistenziale, ma di promozione». Avvio della Valutazione d’impatto familiare (che verifichi le conseguenze economiche dei prov­vedimenti amministrativi sui nu­clei).
Presidio della riforma del fede­ralismo fiscale, per avere anche a li­vello regionale e locale tariffe a mi­sura di famiglia. Infine sostegno al­la tenuta delle relazioni familiari, so­prattutto dei legami di coppia. Diversa è stata la risposta sul terri­torio. Ci sono regioni che hanno re­gistrato poche adesioni, altre a deci­ne. Nel Lazio – regione che più ne ha attratte, oltre 80 – i politici non han­no apposto solo una firma: ci hanno messo pure la faccia. «Carta canta, ma noi ci siamo voluti avvalere an­che delle risorse della multimedia­lità », ha detto il presidente del Fo­rum del Lazio Gianluigi De Palo. Dunque, video della sottoscrizione con un minuto di discorsetto. E il tut­to andrà su YouTube. Fra un anno anche la rete farà da testimone.

LE ADESIONI
TRA I CONSIGLIERI PREDOMINA L’UDC. FIRMA ANCHE IL MINISTRO CARFAGNA

Venti candidati alla presidenza della giunta regionale e circa 500 aspiranti consiglieri. In tanti hanno firmato il Manifesto del Forum delle associazioni familiari. Solo la Basilicata non è pervenuta. Né nell’una, né nell’altra graduatoria. I venti candidati governatore, tra i 50 in lizza: Filippo Callipo (Calabria, Idv), Stefano Caldoro (Campania, Pdl), Anna Maria Bernini (Emilia Romagna, Pdl), Gian Luca Galletti (Emilia Romagna, Udc), Renata Polverini (Lazio, Pdl), Sandro Biasotti (Liguria, Pdl), Roberto Formigoni (Lombardia, Pdl), Savino Pezzotta (Lombardia, Udc), Erminio Marinelli (Marche, Pdl), Gian Mario Spacca (Marche, Udc), Roberto Cota (Piemonte, Lega Nord), Rocco Palese (Puglia, Pdl). Adriana Poli Bortone (Udc-Io Sud), Francesco Bosi (Toscana, Udc), Monica Faenzi (Toscana, Pdl), Enrico Rossi (Toscana, Pd), Paola Binetti (Umbria, Udc), Fiammetta Modena (Umbria, Pdl), Antonio De Poli (Veneto, Udc), Giuseppe Bortolussi (Veneto, Pd). Non hanno aderito, ma hanno inviato una lettera in cui sottolineano le consonanze, a loro dire, del proprio programma con il Forum Mercedes Bresso (Piemonte, Pd) e Vasco Errani (Emilia Romagna, Pd). La parte del leone nella suddivisione delle firme tra i consiglieri la fa l’Udc con oltre 160 sottoscrittori. Circa il doppio del Pdl e tre volte il Pd (una cinquantina). Una dozzina i leghisti e sette i dipietristi. Più una cinquantina delle liste civiche sia di centrodestra (16 della Polverini nel Lazio) sia di centrosinistra. Tra i consiglieri c’è anche il ministro per la Pari opportunità Mara Carfagna, capolista Pdl in Campania.

La tutela del nascituro al centro della politica tra i candidati governatori
In Emilia-Romagna Galletti (UdC) dice si, Errani (PD) non aderisce

La proposta è di inserire negli Statuti regionali il diritto alla vita per tutti fin dal concepimento
DA MILANO ENRICO NEGROTTI
Inserire nello Statuto re­gionale il riconoscimen­to del diritto alla vita di o­gni essere umano fin dal con­cepimento. È questa la prin­cipale richiesta che il Movi­mento per la vita (Mpv) ha ri­volto a tutti i candidati alla presidenza delle Regioni. E che ha ricevuto la risposta positiva – tra tut­ti – solo di 12 a­spiranti governa­tori: in Piemonte, Roberto Cota; in Lombardia Ro­berto Formigoni e Savino Pezzot­ta; in Veneto: An­tonio De Poli; in Emilia-Roma­gna: Gian Luca Galletti; in Tosca­na: Francesco Bosi; in Umbria: Paola Binetti; nel Lazio: Renata Polverini; in Puglia: Rocco Palese e Adria­na Poli Bortone; in Basilicata: Magdi Cristiano Allam e Ni­cola Pagliuca. «Una seconda richiesta – ha scritto il Mpv ai candidati – è la ristruttura­zione dei consultori familia­ri per restituirli alla loro es­senziale funzione: strumen­ti che proteggono il diritto al­la vita dei figli, non contro, ma insieme alle madri». La proposta di inserire il di­ritto alla vita sin dal concepi­mento negli Statuti regionali è altresì il primo punto di un decalogo che il Mpv ha pro­posto di sottoscrivere ai prossimi consiglieri (l’elenco di chi lo condivide è disponibi­le sul sito
www.mpv.org, ma non vi è la certezza che tutti i candidati consiglieri abbiano ricevuto la richiesta). «È urgente – scrive il Mpv – che le Regioni raccolgano la sfida della vita e intervengano con provvedimenti legislativi e/o amministrativi nei vari setto­ri (sociale, sanitario, familia­re) in cui possono adottare politiche di sostegno al dirit­to alla vita».
Per questo il Mpv propone: riconoscimento del concepi­to quale soggetto e membro del nucleo fami­liare, anche ai fi­ni di tutte le provvidenze econo­mico- sociali; in­troduzione del­l’obbligo per i consultori, di fronte alla donna che manifesti difficoltà legate alla prosecuzio­ne della gravi­danza: di infor­marla circa l’esi­stenza sul territo­rio di formazioni sociali e as­sociazioni di volontariato pri­ve di scopo di lucro impe­gnate in aiuto alla vita na­scente e delle madri in diffi­coltà, sia prima che dopo la nascita; di documentare il colloquio e di compilare un questionario sulle cause che inducono la donna a chiede­re l’aborto, il tutto nel rispet­to della riservatezza e della tutela della privacy; stanzia­mento di un consistente bud­get finanziario da utilizzare per la rimozione delle cause che inducono a fare richiesta di interruzione di gravidan­za; previsione di un percorso sociale personalizzato e ur­gente per le donne disposte a rimuovere la propria decisio­ne abortista a fronte di un concreto sostegno; previsio­ne e incentivazione nel Piano sanitario regionale di forme di collaborazione tra consul­tori e volontariato per la vita, anche attraverso regolamen­ti e/o convenzioni, al fine di aiutare le donne a rimuovere le cause che le inducono al­l’aborto; promozione della formazione degli operatori sanitari e sociali, che vengo­no a contatto con le madri in difficoltà per una gravidanza inattesa o indesiderata; finanziamento di corsi di for­mazione scolastici ed extra­scolastici sullo sviluppo del­la vita umana prenatale e sul­l’importanza della tutela di ogni essere umano dal con­cepimento alla morte natu­rale; garanzia di un sostegno psicologico alle donne che manifestino problemi nel po­st- aborto; finanziamento re­gionale ai Comuni specifica­tamente destinato per l’aiu­to a madri nubili e ai loro fi­gli.

Da Avvenire di sabato 20 marzo 2010
RICORDO E TENACE IMPEGNO DI LEGALITÀ
ECCO LA PRIMAVERA QUESTO È IL SUO GIORNO
ANTONIO MARIA MIRA
Per far nascere un fiore il seme muore. Sì muore, ma dal suo sacrificio ecco colori e profumi. È la prima­vera, stagione di bellezza e speranza. È la primavera mes­saggio di vita dopo la morte. Da quindici anni il 21 mar­zo, primo giorno di primavera, è la Giornata della me­moria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie organizzata da Libera, l’associazione fondata da don Lui­gi Ciotti e che, è bene ricordarlo, unisce e coordina cen­tinaia di associazioni, dall’Azione Cattolica all’Agesci, dal­le Acli all’Arci, da Legambiente a tutti i sindacati e i mo­vimenti giovanili, per lottare contro tutte le mafie e pro­muovere una cultura di legalità e giustizia.
Memoria e impegno, dolore e testimonianza, fatica e spe­ranza. Hanno gli occhi, i volti, le lacrime ma anche il sor­riso di Ninetta, Dario, Stefania, Lorenzo, Margherita, Mas­simo, Viviana, Antonio, Deborah, Matteo e dei più di cin­quecento familiari di vittime di tutte le mafie che oggi at­traverseranno le vie di Milano. Per ricordare i propri cari, per farli riemergere dall’oblio nel quale li voleva gettare la violenza mafiosa. Ma soprattutto per confermare il pro­prio impegno a trasmettere quel ricordo agli altri, ricor­do di persone, ricordo di vite oneste e pulite. Lo faranno, oggi, tutti assieme così come fanno nei loro paesi andando nelle scuole, parlando ai giovani dei loro cari, di legalità, di speranza, di volontà di cambiare. «Per noi il 21 marzo è una festa, è la nostra festa», ha detto Ninetta, mamma di Pierantonio, ucciso a Niscemi e il cui corpo è stato fat­to trovare solo dopo 14 anni. Già, una festa, come quan­do Ninetta il giorno del funerale del figlio ha voluto far suo­nare le campane a festa. Che forza, che energia positiva, che bella volontà di guardare sempre avanti. Grazie a quel­la «pedata di Dio – sono parole di don Ciotti – che ci aiu­ta a trasformare il dolore in testimonianza». È certo una felice coincidenza che fino a poco tempo fa il 21 marzo (giorno – secondo tradizione – della sua mor­te) si ricordasse San Benedetto. Ora et labora, preghiera e impegno, fede e legame stretto con la propria terra e proprie radici, valori profondi e lavoro positivo e concre­to. Come questi familiari che malgrado l’immenso dolo­re non hanno voluto lasciare i propri paesi, ma li presi­diano anche per noi. Il 21 marzo è la loro festa, ma è an­che la festa di tutti quelli che con loro camminano sulle strade della legalità, della giustizia e della speranza. Di tutti, non solo di qualcuno, di una parte. Per questo su­scita interrogativi il dibattito che si è aperto attorno alle proposte di legge che vorrebbero istituzionalizzare la «giornata della memoria e dell’impegno». Ottima inten­zione, certo, ma accompagnata dall’ombra di un cambio di data, magari quella di una singola pur se famosa vitti­ma (come Falcone o La Torre). Loro, i familiari, giustamente, non ci stanno. «Il 21 mar­zo è di tutti noi, è il giorno in cui ci siamo ritrovati e sen­titi meno soli. Per questo ce lo dobbiamo tenere stretto». Ne hanno diritto. Meritano questa giornata nella quale, grazie al loro amore e a quello di tanti, sono riusciti a ri­nascere dalla morte. Come quel fiore che ai primi tepori di primavera sboccia di colore e di profumo. Segno di vi­ta e di festa.

Da Avvenire di domenica 21 marzo 2010
IL DOLORE E LA FERMEZZA DI BENEDETTO
COLPI DI MAGLIO PER RIAPRIRE LA VIA ALLA SPERANZA
MARINA CORRADI
Parole come non ne avevamo mai sentite dalla mite voce di Benedetto XVI. Parole come col­pi di maglio. Gli episodi di pedofilia avvenuti nella Chiesa irlandese e gli errori di giudizio che li han­no preceduti e seguiti «hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti nep­pure secoli di persecuzione». Chi ha abusato di in­nocenti ne risponderà ai giudici, e «davanti a Dio onnipotente». È un tuono, la voce del Papa nella lettera ai cattolici d’Irlanda. Del tuono ha la poten­za, e l’eco bassa, gonfia di dolore e di sgomento. Vi si tocca con mano quel «senso di tradimento» af­fermato nelle prime righe: vi sono stati affidati de­gli innocenti, e li avete traditi. Lettera sacrosanta, e spaventevole. Evoca la seve­rità di padri, cui non siamo più abituati. Evoca l’i­ra di un Dio, di cui abbiamo perduto la memoria. Non è, il Dio di questa lettera, il Dio bonario, e tal­volta buonista, cui siamo stati educati a pensare. È un Dio che chiede vergogna e rimorso; e il Papa, a nome della Chiesa, esprime personalmente «ver­gogna e rimorso», per quei ragazzi violati da «atti peccaminosi e criminali». È un Dio che esige aper­ta consapevolezza di ciò che è stato perpetrato. Che si riconosca, davanti a Dio e agli uomini, il male fatto. Un Dio che pretende penitenza: ai fedeli di Ir­landa viene indicata la via di una sorta di Quaresi­ma lunga un anno: un anno di venerdì di digiuno e preghiera. (Penitenza, altra parola antica, a mol­ti estranea. Ricorda, questa misura di Benedetto X­VI, la severità di santi predicatori di altri secoli. Cui, pure, non siamo più abituati).
Consapevolezza piena, invoca dunque il Papa. Oc­corre riconoscere la gravità di ciò che è accaduto. Le responsabilità di una Chiesa attorno, di vesco­vi, che non sono intervenuti. Occorre giustizia: quel­la degli uomini, nei tribunali. E fin qui la lettera par­la, appunto di giustizia; mentre afferma netta: «So che nulla può cancellare il male che avete soppor­tato ». La frase resta come per un attimo sospesa. (A cosa servirà la giustizia, se «nulla può cancellare il male sopportato»?) Già, umanamente, nulla. E però il Papa chiede alle vittime di non perdere la spe­ranza. Quale speranza? «Credo fermamente nel po­tere risanatore dell’amore di Cristo», scrive.
Ora l’eco di tuono e d’ira si fa voce leonina, certez­za granitica. Certezza di un Dio che «ha il potere di perdonare persino il più grave dei peccati, e di trar­re il bene anche dal più terribile dei mali». Per cui l’ultima parola rivolta ai sacerdoti colpevoli della in­famia peggiore è: «Non disperate della misericor­dia di Dio». L’ultima parola, non è di disperazione. Dove la giustizia si ferma, può allargarsi, se do­mandata, se implorata, la misericordia: la giustizia secondo Dio, capace di ricreare gli uomini.
Probabilmente, i passi più ripresi di questa lettera saranno altri. Forse queste righe rimarranno igno­rate. Si parlerà di 'condanna senza appello': cer­to, condanna del peccato. Vergogna e penitenza per il peggiore, il più infame dei peccati. Ma miseri­cordia per il peccatore che si converta: «Non di­sperate della misericordia di Dio». E questo, in un tempo come il nostro che rinnega ogni speranza e insegue, magari in forme gaie, il nulla, è lo sbalor­ditivo segno, lo stigma di diversità del cristianesi­mo. L’affermare con certezza di roccia che nulla è perduto, finché l’uomo domandi a Dio. Perché «là dove abbonda il peccato, sovrabbonda la Grazia», come scrive Benedetto, citando Paolo.
Lettera ai cattolici di Irlanda, da restare senza fia­to. Per la inaudita fermezza di un padre – un padre come ne vorremmo ancora – che autorevolmente ordina di ammettere le colpe. Che evoca quel Dio, cui bisognerà rispondere. Ma dice alle vittime, con un’umiltà che è quasi preghiera: possiate riscopri­re l’infinito amore di Cristo. E ai violentatori: pagate, ma non disperate. Il più infame dei mali, quello contro i nostri figli, quello che al solo pensiero ci acceca d’odio: nem­meno quello vince, per chi crede in Cristo, nel Fi­glio che s’è fatto carne e ha vinto la morte. È vero, nulla cancella certi ricordi. Solo Cristo, annuncia il Papa, li risana.


Da Avvenire di mercoledì 24 marzo 2010
ROMERO E LE ALTRE SENTINELLE DI DIO
NEL MONDO E TRA LA GENTE PER MISSIONE

GIULIO ALBANESE
Trent’anni fa moriva monsignor Oscar Ar­nulfo Romero, arcivescovo di San Salva­dor, ucciso a sangue freddo mentre celebra­va la Santa Messa vespertina nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. E pro­prio nel giorno in cui il popolo salvadoregno è chiamato a fare memoria dell’estremo sa­crificio del suo pastore, la Chiesa Italiana ce­lebra la XVIII Giornata di preghiera e digiu­no in ricordo dei missionari martiri e di quan­ti sono caduti, in varie circostanze, nell’a­dempimento del loro dovere evangelico. Si tratta di un’iniziativa promossa come ogni anno dal Movimento giovanile missionario della Fondazione Missio.
Nel 2009, secondo il computo redatto dell’a­genzia Fides, sono stati 37 i missionari che hanno perso la vita: 30 sacerdoti, 2 religiose, 2 seminaristi, 3 volontari laici. Il numero com­plessivo è quasi doppio rispetto al 2008, ed è il più alto registrato negli ultimi dieci anni. Umanamente parlando, si tratta di un feno­meno davvero inquietante che genera cor­doglio, dolore, turbamento, talvolta anche rabbia. Sì, per tutte le vicissitudini e anghe­rie che avvengono nelle periferie del mondo e di cui sono testimoni queste sentinelle di Dio. Eppure il perdu­rare della violenza nei confronti dei giusti rappresenta parados­salmente, alla luce del Vangelo, uno stato di grazia e una forte pro­vocazione per le co­scienze. Non foss’altro perché l’identità cri­stiana, basata essen­zialmente sulla con­sapevolezza dell’im­pronta divina presen­te nell’animo umano, ha sempre spinto i missionari a incarnare lo 'spirito delle bea­titudini', offrendo le sofferenze vissute per l’edificazione di una società nuova, rispetto­sa dei diritti fondamentali della persona.
Ecco perché la vita di monsignor Romero e di tanti apostoli del nostro tempo ci induce a una sorta di discernimento sulla nostra quotidianità, nella consapevolezza che essi rappresentano il valore aggiunto del cristia­nesimo. Sappiamo che nel cuore dell’uomo ci sono anche meschinità e crudeltà e sap­piamo che gli esseri umani sono capaci di compiere crimini indicibili contro gente in­difesa; tuttavia, il seme del bene è presente nell’anima di ogni persona, creata a imma­gine e somiglianza di Dio. Vi sono infatti uo­mini e donne che si sacrificano per gli altri nella società contemporanea, senza chiede­re nulla in cambio, facendosi per la famiglia planetaria testimoni di speranza, in prima fila sul fronte della lotta alle prevaricazioni e alle ingiustizie. In un mondo mercantile e globalizzato, re­golato dalla scriteriata ed egoistica ricerca del profitto a tutti i costi, i nostri missionari sono davvero un segno di contraddizione, testimoniando il più grande comandamen­to sociale della storia: quello dell’amore. Un precetto divino che rispetta gli altri e i loro diritti. Esige la pratica della giustizia e ispira una vita che si fa dono di sé, nella consape­volezza che «chi cercherà di salvare la pro­pria vita la perderà, chi invece la perde la sal­verà » (Lc 17,33). Insomma, se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo uscire da noi stessi, fermamente convinti che il segno in­tangibile della gratuità sta proprio nella par­resia intesa come coraggio di osare, di criti­care i soprusi, l’assenza di solidarietà, l’odio, la guerra e ogni genere d’egoismo nella sto­ria. È questa la discriminante tra una prati­ca religiosa, algida e disincarnata, asettica ri­spetto alle vicende umane, e la coraggiosa franchezza di coloro che, come i missionari di cui oggi facciamo memoria, vivono la mi­litanza nel nome di Dio.
E quando per ignavia, stanchezza o delusio­ne, noi cristiani del cosiddetto Primo Mon­do, avessimo la tentazione di gettare la spu­gna rinunciando ad agire per il futuro, do­vremmo avere l’umiltà di imparare da loro, martiri del Terzo Millennio. Sovvengono al­lora quasi istintivamente le parole del vesco­vo Romero: «La mia vita appartiene a voi». A un popolo da servire fedelmente.
La scelta di illuminare o oscurare l’esistenza è nella con­dotta dell’uomo e non fuori di lui.

Da E’ Vita supplemento di Avvenire di giovedì 23 marzo 2010
il confronto di Pesaro
Dal recente faccia a faccia tra gli autori del libro su Eluana e il signor Englaro, prima davanti agli studenti delle scuole superiori, poi nella sede della Provincia, un’utile lezione di metodo
«I FATTI, SENZA PAURA: COSA ABBIAMO IMPARATO»
Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola
Quello che – pare – molti in Italia temono e noi chiedevamo da tempo, e cioè un nostro faccia a faccia con Beppino Englaro, è finalmente avvenuto giovedì scorso a Pesaro: da una parte noi, inviati di Avvenire e autori del libro Eluana. I fatti, dall’altra Englaro, affiancato da vari relatori che supportano la sua 'battaglia'. L’invito ci è arrivato dalla neonata Consulta per la laicità delle istituzioni di Pesaro (un insieme di associazioni disparate, che per comune denominatore hanno la laicità come valore assoluto: Circolo Arcigay, Movimento radicalsocialista, Associazione culturale alternativa libertaria, ecc.), in un primo tempo solo per un dibattito serale nella sede della Provincia di Pesaro, poi anche per un incontro mattutino dedicato agli studenti delle superiori. Se a organizzare il duplice evento era la Consulta per la laicità, totalmente schierata con Englaro, a moderare l’incontro era il suo presidente, Raffaele Belviso.
La nostra prima preoccupazione, quindi, era il rispetto di una par condicio anche minima: parità di tempi per parlare, in un dibattito che si sarebbe svolto davanti a un uditorio (almeno la sera) di parte. Abbiamo faticato: faticato a ottenere di sederci anche noi al tavolo con Englaro anziché nel pubblico; faticato a ottenere (se non altro sulla carta, perché poi le cose sono andate molto diversamente) un tempo analogo per esprimere i nostri contenuti.
Al mattino i 600 ragazzi delle scuole si sono interrogati sulla reale volontà di Eluana, sul suo stato di salute («era come i media la descrivevano?», «una malata terminale o solo una disabile?»), sul ruolo della tecnologia, sulla possibilità che durante lo stato vegetativo potesse 'sentire'. Hanno espresso dolore per Eluana ma anche rispetto per il padre. Ciò che ci portiamo a casa è la consapevolezza di quanto i ragazzi siano desiderosi di sapere, al di là delle ideologie. Fino a oggi nelle scuole Englaro è stato accolto senza un contraddittorio, mentre gli studenti sono i più aperti a valutare solo sui 'fatti' e non sui proclami, da qualsiasi parte vengano. Per dar loro ciò che chiedono, però, è necessario essere competenti, conoscere i fatti, esser pronti ad accogliere anche i loro dubbi, spesso peraltro condivisibili («qual è il confine tra accanimento terapeutico e diritto alle cure?»).
Alla fine del lungo incontro non è casuale se si sono affollati attorno a Massimiliano Tresoldi (il giovane risvegliatosi dopo 10 anni di stato vegetativo, raccontando che in quel decennio di 'assenza' aveva sentito tutto): a loro interessava vedere, toccare con mano quella vita che c’era, che c’era sempre stata, nonostante i medici dicessero «è morto da dieci anni».
Ciò che ci siamo portati via da Pesaro è anche la preoccupazione per migliaia di altri studenti meno fortunati, che nelle scuole d’Italia vengono sottoposti al suono di una sola campana. Quattro ragazzi si sono rivolti a Englaro parlando di «macchina da staccare», e mai lui li ha contraddetti, mai ha spiegato loro che la figlia viveva di vita autonoma (lo abbiamo alla fine fatto noi, anche se era difficile controbattere a causa di una conduzione poco propensa a cederci il microfono... un conteggio dei tempi, specie la sera, che in un vero dibattito sarebbe stato da codice rosso!).
Lo stesso moderatore, ben lungi dal moderare, ha spiegato a 600 ragazzi in pieno orario scolastico (se i genitori sapessero...) che l’unica cosa che conta è la libertà personale finché non si fa del male agli altri. Volete attraversare la strada quando è rosso?
La vita è vostra. Volete andare in due su un motorino? Fatelo.
Drogarvi? Nessun problema... Anche la sera di fronte alla Consulta il dibattito è stato serrato ma sereno, nonostante un tifo da stadio per Englaro e il vicepresidente della Provincia apertamente schierato. Eppure il pubblico – va detto – ci ha ascoltati e sembrava colpito da fatti che, evidentemente, non conosceva: «Da due anni in stato vegetativo, Eluana ha pronunciato due volte in maniera comprensibile la parola 'mamma'», abbiamo fatto sapere, e «a comando apre e chiude la mano». Stupidaggini, ha provato a sostenere Englaro. Ma noi leggevamo nero su bianco cartelle cliniche.
Dunque nessun timore, dibattiamo serenamente, dati alla mano, aperti anche a riconoscere eventuali ragioni dall’altra parte, ma non disposti a tacere rassegnati. Englaro si è detto d’accordo per altri confronti, anche televisivi. Noi sempre disponibili.

IL VANGELO DI DOMENICA

Dal cuore trafitto di Dio la vera vita il vangelo Domenica delle Palme Anno C
di Ermes Ronchi

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: « Non sei tu il Cristo? Sal­va te stesso e noi! » . L’altro invece lo rimproverava di­cendo: « Non hai alcun ti­more di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli inve­ce non ha fatto nulla di male» . E disse: «Gesù, ri­cordati di me quando en­trerai nel tuo regno».
Gli rispose: « In verità io ti di­co: oggi con me sarai nel paradiso » .

Al cuore del Vangelo c’è questo lungo patire, un Dio che muore per amore. Qualco­sa che non riesco a capire e che pure mi chiama, mi disarma, mi ferisce. E io, o­gni volta, impotente e affascinato. La croce non ci è stata data per capirla, ma per aggrapparci e farci por­tare in alto. Perché Gesù è venuto? Per­ché la terra intera risuona di un grido: grido di dolo­re e di nostalgia per il pa­radiso perduto, il Dio per- duto, l’amore e la pace per­duti.
La terra, con le sue spine e i suoi rovi, con le sue primule e i sempre­verdi e, ogni tanto, la sua tenerezza; ma solo ogni tanto e come di nascosto. E la sua crudeltà spesso, troppo spesso; e le sue la­crime, e i suoi singhiozzi. La terra è un immenso pianto. E un giorno Dio non ha più sopportato, non ha più po­tuto trattenersi. E allora è venuto, ha raggiunto i suoi figli, si è incarnato e si è messo a gridare insieme a loro lo stesso grido radica­to nell’angoscia e nella speranza.
Perché Gesù è salito sulla croce? Per essere con me e come me. Perché io possa esse­re con lui e come lui. Esse­re in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve al­l’uomo che è in croce. L’a­more conosce molti dove­ri, ma il primo di questi do­veri è di essere insieme con l’amato, vicino, unito, co­me una madre che vuole prendere su di sé il male del suo bambino, amma­­larsi lei per guarire suo fi­glio. La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante. En­tra nella morte perché là va ogni suo figlio. Nel cor­po del crocifisso l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite. « Tu che hai salvato gli altri, salva te stesso».
Lo dicono tutti, capi, soldati, il ladro: « Se sei Dio, fai un miraco­lo, conquistaci, imponiti, scendi dalla croce, allora crederemo ». Chiunque, uo­mo o re, potendolo, scen­derebbe dalla croce. Lui, no. Solo un Dio non scen­de dalla croce, solo il no­stro Dio. Perché i suoi figli non ne possono scendere. Solo la croce toglie ogni dubbio, non c’è inganno sulla croce.
« Ricordati di me » , prega il ladro, « Oggi sarai con me in paradiso » , risponde Ge­sù.
Per questo sono qui, per poterti avere sempre con me. Non c’è nulla che possa separarci, né male, né tradimenti, né morte. Io vengo a prenderti anche nelle profondità dell’infer­no, se tu mi vuoi. Solo se tu mi vuoi. Ma io continuerò a morire d’amore per te, anche se tu non mi vorrai, e appena gi­rerai lo sguardo troverai u­no, eternamente inchio­dato in un abbraccio, che grida: ti amo!
Sono i giorni del nostro de­stino: l’uomo uscito dalle mani di Dio, rinasce ora dal cuore trafitto del suo creatore.
( Letture: Isaia 50,4- 7; Sal­mo 21; Filippesi 2,6-11; Lu­ca 22,14- 23.56)

giovedì 18 marzo 2010

Il Vangelo della Domenica

Tiziano, Cristo e l'adultera (1512/1515, Kunsthistorisches Museum, Vienna)
il Vangelo
di Ermes Ronchi V Domenica di Quaresima Anno C
La fiducia contro la «prima pietra»
In quel tempo (...) gli scribi e i farisei gli condussero u­na donna sorpresa in adul­terio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, que­sta donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha co­mandato di lapidare don­ne come questa. Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per a­vere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per ter­ra.
Tuttavia, poiché insiste­vano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra.
Quelli, u­dito ciò, se ne andarono u­no per uno, cominciando dai più anziani.
Una donna trascinata lì a forza, nell’ango­scia di morire, e Ge­sù ne prende subito le dife­se, senza neppure chiedere se è pentita. Sta rischiando la morte, e tanto basta, per­ché legge suprema di Dio è che l’uomo viva.
Scrive il grande teologo Johann Baptist Metz: « il primo sguardo di Gesù non va mai sul peccato delle persone, ma sempre sulla sofferenza ».
Gesù scriveva, lo sguardo fis­so a terra.
Evita perfino di guardarci in faccia quando ci lasciamo prendere dai nostri furori di accusare e di farci giustizia; evita perfino di incrociare il nostro sguar­do, se ha come intenzione la morte.
Chi è senza peccato scagli per primo la pietra.
Se ne andarono tutti, comincian­do dai più vecchi. Gesù rimane solo con la donna, là in mezzo. È cala­to il silenzio. Loro due soli, e Gesù si alza. Un gesto bel­lissimo: si alza davanti alla donna peccatrice, come ci si alza davanti alla persona attesa e importante, con tutto il rispetto che so dare.
Poche scene del Vangelo i­spirano tanta consolazione come questa: Gesù si alza, si avvicina, le parla. Nessuno le aveva parlato. Lui la chia­ma donna, con il nome che ha usato per sua madre a Cana, che userà sul calva­rio. Non è più la peccatrice, è donna di nuovo.
Dove sono? Quelli che san­no solo lapidare e seppelli­re di pietre, dove sono? Non qui devono stare. Quelli che sanno solo vedere peccati intorno a sé, e non dentro di sé, dove sono? Gesù vuole che scompaiano gli accusa­tori, come dal suo campo visivo, così devono scom­parire dal cerchio dei suoi amici, dai cortili dei templi, dalle navate delle chiese.
Va’ e d’ora in poi non pecca­re più. Risuonano le sei pa­role che nel Vangelo basta­no a cambiare una vita. Qualunque cosa quella donna abbia fatto, non ri­mane più nulla, cancellato, azzerato: «Tu sei più grande dei tuoi peccati, sei la tua capacità di amare ancora, di amare bene».
Gesù le ri­dona l’innocenza delle ori­gini, la possibilità di essere fedele domani e dopodo­mani. Un perdono così facile e im­mediato non è rischioso? Gesù non è rivolto al passa­to di una persona, ma al suo futuro; non solo è buono e misericordioso e non tiene conto, ma c’è di più: ha fi­ducia in noi, vede noi oltre noi. Mi perdona per un at­to di fede in me: nel mio in­verno vede primavere che sbocciano. Perdona perché per lui il bene di domani conta più del male di oggi.
Signore, concedimi la gioia di vederti mentre ti alzi e ti fai vicino, e l’umiltà di la­sciare cadere di mano tutti i sassi.
E, ti prometto, non lancerò mai più pietre. Con­tro nessuno.
( Letture: Isaia 43,16-21; Sal­mo 125; Filippesi 3,8- 14; Giovanni 8,1-11)

domenica 14 marzo 2010

PORTAPAROLA del 13/3/2010


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Da Avvenire di sabato 6 marzo 2010

LA TURCHIA E LA MACCHIA ARMENA

ANKARA CHIAMATA AL VERO PASSO: FARE I CONTI CON LA STORIA

LUIGI GENINAZZI

Fu il primo genocidio del secolo scor­so, un prologo agli orrori che segui­rono fino al culmine della barbarie toc­cata con l’Olocausto. Ma se ne parla po­co e malvolentieri. Ricordare il genocidio del popolo armeno compiuto dalla Tur­chia nel 1915, oltre un milione e mezzo di persone deportate, massacrate o la­sciate morire di stenti nei deserti della Siria, significa evocare una questione dai risvolti politici dirompenti. Se n’è avuta l’ennesima conferma dopo che la com­missione esteri del Congresso america­no ha approvato una risoluzione in cui si riconosce il genocidio degli armeni, suscitando la furibonda reazione della Turchia. Il negazionismo di Ankara è un vero e proprio dogma sul Bosforo e sem­bra essere l’unico cemento in grado di tenere insieme un Paese drammatica­mente spaccato tra laici e islamisti. Chi s’azzarda a rom­pere questo tabù commette un cri­mine punito seve­ramente dal fami­gerato articolo 301 del codice penale che prevede il car­cere «per chiun­que reca offesa al­l’identità turca». Decine di giorna­listi e scrittori, fra i quali il premio No­bel per la lettera­tura Ohran Pa­muk, hanno subì­to un processo per questo, insultati co­me traditori della patria. C’è chi, come lo storico Taner Akcam, è finito in galera. E qualcuno, come il giornalista armeno H­rant Dink, ha pagato con la vita, ucciso da un killer in pieno centro d’Istanbul.

Il governo di Ankara nega il genocidio, preferendo parlare genericamente di «u­na tragedia che ha accomunato turchi ed armeni in circostanze di guerra». Si trat­ta di una menzogna che si fa scudo di u­na piccola verità: i fatti avvennero sì nel contesto della Grande Guerra ma ciò non toglie che fu un vero e proprio genocidio, vale a dire «lo sterminio di un gruppo na­zionale, etnico o religioso», secondo la definizione dell’Onu. Del resto la pulizia etnica nei riguardi degli armeni venne teorizzata e poi praticata dai Giovani Tur­chi fin dal 1909.

A differenza della Germania che ha fat­to mea culpa per i crimini del nazismo, la Turchia si ostina a non fare i conti con la storia, barricandosi dietro la difesa del­l’identità nazionale. Ma questa non può cancellare gli errori e gli orrori del pas­sato. Riconoscerlo, anche al prezzo di u­na severa autocritica, è il primo passo per costruire un Paese dove l’identità nazio­nale si coniuga con le fondamentali esi­genze della democrazia. Non dobbiamo dimenticare che l’Unione Europea, di cui la Turchia di Erdogan intende far parte, ha il suo atto di nascita nell’abbraccio tra ex nemici che seppero trarre insegna­mento dalla storia. L’accordo siglato lo scorso autunno a Zurigo tra Turchia ed Armenia ha fatto nascere grandi speran­ze. Ma non ci sarà vera riconciliazione mettendo tra parentesi le ferite ancora aperte di un passato tragico e doloroso. E’ questo il segnale che arriva dal voto della commissione esteri del Congresso americano. Non è la prima volta, era suc­cesso anche tre anni fa. Poi l’allora pre­sidente Bush impedì che la mozione sul genocidio armeno venisse affrontata nel­l’aula del Congresso. A quanto pare O­bama non si differenzierà dal suo pre­decessore per non mettere a repentaglio l’amicizia con la Turchia, bastione a­vanzato della Nato ed alleato decisivo, anche se un po’ troppo autonomo, sul fronte orientale. Forse sarebbe il caso che l’Europa facesse sentire la sua voce. Ma il riconoscimento del genocidio ar­meno non appare tra le numerose e det­tagliate condizioni per l’ingresso della Turchia nella Ue...

Vistosa lacuna che contraddice storia e ideali del nostro vec­chio continente.

Da Avvenire di giovedì 11 marzo 2010

Il direttore risponde

«Ah, se il PD avesse detto...». Cambiare passo si può ancora

Caro direttore,

l’esclusione della lista del PdL nella provincia di Roma, ovviamente pone moltissime questioni, a partire dall’atteggiamento arrogante che quella parte politica assume di fronte a troppe regole. Ma su questo aspetto è inutile dilungarsi per sovrabbondanza, diciamo così, «di letteratura».

Sarebbe – vecchi ricordi di liceo – come «portare vasi a Samo»: cioè inutile perché, appunto, Samo nell’antichità era famosa per i suoi vasi. Tornando all’oggi, quale argomento migliore di campagna elettorale per il centrosinistra avrebbe potuto essere la litigiosa sciatteria di un centrodestra che non solo non sa comporre decorosamente i propri interessi in conflitto, ma non vuole neppure rispettare le regole? Ma è un argomento che il centrosinistra, e il PD in particolare, non potrà più utilizzare. E questo non solo perché – parlo per la Regione Lazio – la campagna elettorale non ci sarà (sarebbe come correre da soli), ma perché, seppure per qualche nuovo e arzigogolato artificio legale, il PdL sarà rimesso in corsa, il centrosinistra non potrà più vantare quella superiorità politica (etica è meglio lasciar perdere) che avrebbe avuto se non avesse brigato per l’esclusione degli avversari dalla partita elettorale. Delle due l’una, infatti, o si ricorre agli elettori, oppure agli avvocati (e questo vale pure per il centrodestra). Quando sabato giravano sms che invitavano a una manifestazione del PD al Pantheon a sostegno, di fatto, dell’esclusione del PdL dalla competizione elettorale, ricevendone più di uno, ho avuto la netta impressione di un imperdonabile errore. Se di un’ombra il PD doveva liberarsi per mostrarsi rinnovato davanti al suo elettorato e al Paese, era di quella del «giustizialismo».

Se, come Bersani sostenne al Congresso che lo ha eletto, l’intento del PD è quello di rappresentare anche il buon senso comune degli italiani, questa volta ha proprio perso l’occasione. Era proprio questo, infatti, il momento nel quale il centrosinistra avrebbe potuto far valere davanti agli elettori (che sono gli unici veri giudici della politica, come Avvenire ha scritto più volte), quella superiorità «politica» di cui ha sempre menato vanto. Non ci voleva una cultura giuridica da specialisti per invocare quello che ormai nella giurisprudenza si ritrova quasi ad ogni passo, e cioè il concetto di notorietà. Non ci volevano certo Cicerone o Ulpiano, per capire che il PdL era determinato a correre anche nella Provincia di Roma. E non ci voleva alcuna genialità politica (anzi c’era tutto da guadagnare) a sostenere che le elezioni hanno regole e regole. Un conto sono quelle relative al conteggio dei voti, quelle vere; un altro conto sono le formalità dell’ammissione dei simboli. E certo un partito importante come il PD, non doveva dare l’immagine di chi, lontano dall’idea della rappresentanza democratica, gioca la sua partita su minuzie regolamentari, come se si trattasse dell’ammissione a un concorso pubblico dove vale le perentorietà dei termini di scadenza per la presentazione delle domande. Ma la scelta è stata un’altra: tentare di correre da soli. Brutta idea della democrazia e, dunque, pessima immagine del «partito nuovo».

Le tue parole, caro Pio, esprimono la riflessione amara e appassionata di un uomo che coltiva un’idea della politica alta e al tempo stesso efficace. E sono la testimonianza di un cittadino che sa che cosa significa fare una concreta scelta politica (sei stato un iscritto-fondatore del PD) senza rinunciare alla sana e autonoma capacità di giudizio dell’intellettuale e giornalista di vaglia. Grazie per avercene messo a parte: la trovo utile e originale.

Avrei preferito che fosse solo «utile», perché il fatto che suoni anche «originale» sottolinea che la difficoltà attuale della politica è davvero grande. Del resto, la deriva è sotto gli occhi di tutti. Siamo chiamati a una tornata amministrativa segnata da prove elettorali in ben 13 Regioni. Dovremmo, perciò, parlare e scrivere di questioni di governo locale che pur in questa fase di federalismo imperfetto (e semi-caotico) sono di assoluto rilievo perché riguardano la vita concreta di milioni e milioni di cittadini e, invece, vediamo e raccontiamo il dibattere furente (e caotico) su tutt’altro, nonché il moltiplicarsi di inquietanti pressioni sulle più alte istituzioni (a cominciare dal Quirinale). Come se non bastasse, assistiamo nelle aule parlamentari, a preoccupanti prove di forza tra maggioranza di centrodestra e forze di centrosinistra alle quali solo l’UdC, tornata a rivendicare la sua terzietà rispetto a un bipolarismo malato, mostra di volersi negare. E siamo già stati avvertiti che quelle prove di forza si trasferiranno presto in piazza.Il disorientamento cresce, così, di pari passo con il fastidio per quest’ennesimo impazzimento del dibattito politico. E la somma di disorientamento e fastidio finisce, si sa, per produrre distacco e rifiuto. Sentimenti pericolosi alla vigilia di un voto. Ci pensino i leader politici. Tornando, se vogliono, con la memoria al pressante appello a «svelenire il clima» e a un «disarmo» ragionato e ragionevole che sin dallo scorso novembre il cardinal Bagnasco lanciò, nel nome del bene comune, all’assemblea dei vescovi italiani ad Assisi. Anche se la corsa alla polemica totale e allo scontro frontale sembra irrefrenabile, un cambio di passo e di direzione è ancora possibile. Chi lo avvierà per primo avrà due volte ragione.

Da www.PIU’VOCE del 12 marzo 2010

Ritirato l’offensivo libretto per bambini contenuto nel menu "Happy Meal"

IL DILEGGIO DELLA RELIGIONE A PARIGI E` DA MC DONALD`S

Nicoletta Tiliacos

Laicità alla francese. Fino a qualche giorno fa, i piccoli clienti parigini di McDonald’s ricevevano in dono, nel caso avessero scelto il menu “Happy Meal”, un libretto di giochi illustrato e colorato, edizioni Dupuis. Carino, no? Peccato che il libretto mostri Blork, un pupazzo sgangherato e già molto noto tra i ragazzini, sotto forma di “prete Blork”, mentre celebra il matrimonio di altri due mostriciattoli.

Il “prete”, dotato di cappello vescovile e con tanto di stola sacerdotale, legge in un messale e brandisce una croce sulla quale è inchiodata una specie di ranocchia. Alla simpatica immagine è abbinato un indovinello, la cui soluzione, riportata a pié di pagina, recita: “Volete voi prendere la qui presente Suzanne come pasto?”. Qualcuno ha timidamente protestato, e per ora il libretto è stato ritirato, con qualche scusa imbarazzata, dalle edizioni Dupuis. Si attendono vibrate controproteste in nome della laicità.

Da Avvenire di mercoledì 10 marzo 2010

Il doppio inganno del «Grande fratello» DI MIRELLA POGGIALINI

Si chiama 'reality', abilissima invenzione: ma è illusione, se si vuol esser benevoli, oppure inganno. Perché di reale, nella melensa schiera dei cosiddetti 'giovani d’oggi' che da dieci anni il Grande fratello allinea con pervicace e fortunata finzione, non c’è nulla. E lo ha dimostrato la vittoria, nella decima edizione, conclusasi lunedì sera con un picco di spettatori contato in 9.011.000 alle 22,31 (con una media di 7.460mila spettatori e il 34,47% di share) di quello che è stato definito 'autentico', quel furbo Mauro Marin che si è ritagliato una parte di antagonista odioso e polemico per catturare attenzione e voti: maschera di quella nuova 'commedia dell’arte' che pesca nell’improvvisazione ben congegnata da abili autori e nella verità finta recitata con astuzia.

Per venti settimane, dal 26 ottobre, i reclusi della 'casa' hanno oziato con ambigua manifestazioni di affetto e clamorose risse, accoppiamenti spacciati per innamoramenti e volgarità esibite come espressioni di autenticità: creando uno spettacolo continuo che è riuscito a coinvolgere un gran numero di persone avidamente curiose di scoprire intimità segrete e sentimenti sinceri e ingenuamente convinte di rispecchiarsi in una umanità vera. C’è stato, dietro l’interminabile spettacolo di una triste reclusione volontaria, vissuta nella speranza della fama e del denaro facile, un piano assai complesso in cui ognuno dei partecipanti era spinto a manifestare istinti non frenati e pulsioni infantili, in una crudele operazione di scorticamento emotivo. E non a caso gli eletti erano, ognuno per la sua parte, campioni di trasgressione o di eccesso: come se la normalità, quella che davvero rispecchia nel quotidiano la verità dell’esistenza, fosse bandita perché inutile. Privi di contatto con l’esterno se non pilotato, manovrati come burattini da una sorridente 'direttrice', pronti a ogni esibizione che garantisse e soddisfacesse le curiosità più morbose (i letti-covile, i bagni palcoscenico, gli abbracci per nulla celati) i concorrenti hanno lottato gli uni contro gli altri in apparente e dichiarata amicizia, pronti tuttavia a sbranarsi con grevi insulti e becere risse.

Sollecitando imbarazzanti guardonismi che hanno coinvolto anche i più giovani, le interminabili ore in cui nulla di utile o intelligente era consentito hanno fatto mostra di un vuoto esistenziale che corrispondeva a un vuoto mentale ancor più amaro. E lo spettatore che è sfuggito al fascino del programma si è sentito urtato e spaesato di fronte a questa immagine beota di giovani inutili, sprecati in esibizioni plateali. Non per nulla, rivedendosi quando, usciti dalla casa, erano allineati in platea, molti di questi hanno manifestato essi stessi imbarazzo rivedendosi nei filmati quali erano all’interno della lussuosa prigione: in una resipiscenza che i volti rivelavano chiaramente. Dieci anni: quelli del primo anno sono già adulti, sono scomparsi dalla memoria, dovrebbero esser maturi, aver abbandonato le fatue illusioni di fama da balera e su rotocalchi pettegoli. Ma l’immagine di uno degli sconfitti, lunedì sera, che piangeva su se stesso mentre spegneva le luci della 'casa' e dava addio ai suoi sogni di gloria, è il simbolo triste e insieme crudele di speranze ingannatrici, di sogni spenti perché nati nel vuoto.

Ci fanno credere che l’Italia sia questa e che quest’anno abbia vinto un ragazzo controcorrente ma è tutto così finto da fare tristezza Già previste altre tre edizioni.

Da Avvenire di domenica 7 marzo 2010

CANDIDATE IN MASSA AL VOTO

DONNE A BAGHDAD IL CORAGGIO DI METTERCI FACCIA E CUORE FULVIO SCAGLIONE

Cinque anni fa, alle elezioni parla­mentari cui partecipavano anche i sunniti che avevano disertato le ele­zioni provinciali (gennaio 2005) e il referendum costituzionale ( ottobre 2005), per le donne irachene era im­portante mostrare le dita tinte di vio­la, la prova che erano state al seggio e avevano votato. Velate, circondate da­gli uomini di famiglia, alzavano le ma­ni a favore dei fotografi accorsi a do­cumentare un evento che a molti era sembrato fino all’ultimo impossibile: per le stragi dei terroristi, le divisioni etniche e religiose, le rivalità politi­che, l’attività ancora intensa delle truppe americane. Oggi i qaedisti han­no meno spazio, la politica somiglia più alla dialettica dei partiti e meno al­lo scontro delle fazioni, la presenza dei soldati Usa è più discreta. E le donne, al voto, hanno portato molto più della voglia di dire ' c’ero anch’io'.

Questa volta ci hanno messo la fac­cia, e non è un modo di dire. Molte delle duemila candidate si sono fatte fotografare a viso scoperto per i ma­nifesti elettorali, un’audacia che vale più di un programma politico in un I­raq pur sempre tormentato dal fondamentalismo islamico e dove anco­ra un anno fa, alle elezioni provincia­li, piovevano le denunce delle candi­date i cui manifesti venivano rimossi dagli uomini in segno di disprezzo. Ci hanno messo il cervello, le donne ira­chene, ora decise ad approfittare del­le possibilità offerte dalla legge elet­torale ( un terzo dei candidati in lista deve essere donna) e dalla Costitu­zione (82 seggi del Parlamento, un quarto del totale, devono andare alle donne) e pronte ad assumersi re­sponsabilità nuove, superiori a un passato fatto di scarsi ruoli di 'consi­gliere' o, al più, di ministeri per la Fa­miglia o per le Donne di stampo qua­si ornamentale.

E ci hanno messo il cuore, a partire da quelle 600 anoni­me irachene che nella difficile pro­vincia di al-Anbar hanno accettato, dopo un breve corso, di lavorare ai seggi per intercettare eventuali don­ne kamikaze che non potrebbero es­sere controllate o perquisite dagli uo­mini della polizia. Per l’Iraq è un capitale enorme, so­prattutto se consideriamo che esso si accumula in una regione dove la don­na si affaccia alla politica solo dopo aver dimostrato intransigenza persi­no superiore a quella degli uomini (Iran) o dove le donne sono state am­messe in magistratura ( Emirati Arabi Uniti) solo un anno e mezzo fa. Ed è un capitale che andrà gestito e speso con cura. L’influenza degli Usa è sta­ta decisiva per affermare certi princi­pi di pari opportunità nella legislazione irachena. Ma l’esito non sareb­be così clamoroso se nel Dna nazio­nale non ci fosse un primitivo ele­mento di emancipazione femminile. Le irachene rappresentano oltre il 60% della popolazione del loro Paese e fi­no alla Guerra del Golfo hanno godu­to di un pari diritto all’istruzione e di qualche apertura sociale superiore a quelle offerte alle altre donne del Me­dio Oriente. Per supportare la propria folle deriva dittatoriale e bellicista, Saddam Hussein tentò anche la carta di un islamismo forse di facciata ma, per le donne, ugualmente pesante nelle conseguenze. E dopo la sua cac­ciata, lo spettro del fondamentalismo di stampo talebano si è a lungo e cru­delmente agitato nell’Iraq che tenta­va di rinascere. La sorte delle donne, il loro inseri­mento nei ranghi di uno Stato che si consolida e di un’economia che ri­parte, sarà dunque il primo termo­metro del cambiamento rispetto al passato e della sua efficacia rispetto al futuro.

E potrà certo fare da traino al­l’evoluzione possibile in altri Paesi cui, forse, manca solo un esempio cultu­ralmente non troppo lontano.

Da Avvenire di domenica 7 marzo 2010

«Ho la sclerosi multipla ma vivo col sorriso»

Gian Carla è in carrozzina per la malattia: «I miei cari mi danno la forza, non mi voglio piangere addosso» DA MILANO ENRICO NEGROTTI

Una testimonianza di amore per la vita, forza di volontà e fiducia nel futuro, an­che della ricerca scientifica. Sono le im­pressioni che si ricavano dalla lettura delle pa­gine del libro di Gian Carla Bozzo («Flash. Fram­menti di vita». Istess-Fnism, Terni) per raccon­tare la sua esperienza di donna che passa da u­na spensierata gioventù a un’età adulta carat­terizzata dalle crescenti difficoltà causate dal­la sclerosi multipla, la malattia neurodegenerativa che l’ha colpita in modo particolarmen­te aggressivo, costringendola in sedia a rotelle. Gian Carla, laureatasi in Ingegneria elettroni­ca nel 1993 e moglie di Luca dal 1996, frequentando un laboratorio della Cooperativa Cultu­ra e Lavoro di Terni ha potuto scrivere attra­verso un computer comandato da sensori che rispondono al movimento della testa, al ritmo di 4-5 righe in un’ora e mezza: le fresche pagi­ne della sua storia sono animate di episodi lon­tani e recenti, lieti e faticosi, mai privi però di un sorriso. «Sono sempre sorridente e faccio tutto come se non avessi nulla – scrive Gian Carla –. Non mi sono chiusa in casa come tan­te persone che hanno la mia stessa malattia.

Non mi voglio piangere addosso». E a chi la de­finisce una donna forte replica: «Se guardo so­lo dentro me stessa, non vedo molta forza. So­no i miei cari, i miei amici, i miei affetti ad am­plificarla. In questo mi ritengo fortunata».

Come è stato l’impatto con la malattia?

Graduale. Mi rendo conto a distanza di anni che la diagnosi iniziale, fatta nel 1995, non mi sconvolse. Infatti a quel tempo mi sentivo be­ne, i sintomi erano scomparsi quasi del tutto, ero sicura che al massimo avrei fatto parte di quella percentuale di malati nei quali la malat­tia procede così lentamente, che quasi non se ne accorgono per tutta la vita. Andavo regolar­mente dal neurologo, mi stavo informando su alimentazioni particolari che mi potessero aiu­tare, ma credevo che non avrei mai avuto veramente bisogno di tutto ciò. Poi, già l’anno successivo, i sintomi hanno cominciato ad au­mentare, mi stancavo più facilmente a cam­minare, a scrivere, a lavorare. Fino al 2000 cir­ca ho mantenuto quasi una totale autonomia, iniziando però a convivere con le mie difficoltà e con una nuova e indesiderata compagna di vita.

Che cosa si sente di dire alle persone nelle sue condizioni, ma che non hanno la sua stessa attitudine a lottare?

Credo che non esista una risposta valida per tutti, però dalla mia esperienza direi che può aiutare il cercare di non scoraggiarsi, di avere interessi, sorridere alla vita e alle persone che ci stanno vicino. È con queste persone, e so­prattutto con i nostri cari, che è importante in­staurare un rapporto positivo. Se questo riesce, ci permette di dare ai nostri cari stimoli ed e­nergia per lottare con noi giorno dopo giorno. E ricevendo il loro appoggio noi ci sentiamo più forti, recuperiamo energia, possiamo dare loro ancora la carica, e il ciclo si ripete.

Quali sono le sue aspettative nei confronti del­la ricerca scientifica?

Pur sapendo che le probabilità che io riesca a riguadagnare qualcosa delle mie funzionalità perdute sono basse, non dispero.

Mi accon­tenterei soprattutto di recuperare un po’ l’uso delle braccia e di diminuire le mie difficoltà nel parlare. Soprattutto quest’ultimo ostacolo ne­gli ultimi tempi mi sta limitando molto. Sono sempre stata un tipo estroverso, a cui piace tan­to parlare e comunicare. Quando sono comin­ciate le difficoltà nei movimenti, ho sopperito con il telefono alla diminuita mobilità. Ora però è diventato difficilissimo farmi capire al telefo­no e anche di persona è molto faticoso. Sì, spe­ro proprio che la ricerca, con fatti concreti, mi restituisca un po’ di chiacchiere...

Il ricavato del libro è destinato alla onlus Neu­rothon (www.neurothon.com), che sostiene le ricerche di Angelo Vescovi per portare in spe­rimentazione clinica nei laboratori di Terni le cellule staminali cerebrali contro le malattie neurodegenerative.

Da Avvenire di mercoledì 10 marzo 2010

BUON TESTO, DA APPLICARE BENE

UNA RETE DI NORME E SOLIDARIETÀ PER SOSTENERCI NELL’ULTIMA FRAGILITÀ ASSUNTINA MORRESI

Da oggi in poi, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore sarà regolato nel nostro Paese da una delle poche leggi approvate in condivisione da maggioranza e opposizione, nei due rami del Parlamento. E ci au­guriamo che la ratifica finale del testo di legge su una problematica così par­ticolare – il prendersi cura delle per­sone nel momento più gravoso della propria vita – avvenuta nonostante il clima pre-elettorale letteralmente invivibile di questi giorni, sia un segno della sostanziale tenuta, nonostante tutto, della nostra classe politica.

Tutti d’accordo, quindi, una volta tan­to: la predisposizione di due reti nazionali di assistenza sanitaria, espres­samente dedicate alle cure palliative l’una, e alla terapia del dolore l’altra, come prevede la nuova legge, signifi­ca la possibilità per ciascuno di noi di poter essere sostenuto e accompa­gnato, concretamente, nei momenti di massima fragilità, quelli nei quali non c’è più speranza di guarigione, ma so­prattutto che non si possono affron­tare in solitudine. Come sappiamo, il termine 'palliative' deriva dal latino 'pallium', cioè 'mantello', una paro­la usata per evocare l’idea di proteg­gere, coprire, o meglio, di essere co­perti e protetti: un 'pallium' che non si è in grado di indossare da soli, per­ché in quei momenti abbiamo biso­gno di qualcuno che ce lo appoggi sul­le spalle, e sappia come farlo. La dignità della nostra vita, quando la vita se ne sta andando, non si misura dal grado residuo di autosufficienza, ma da se e da quanto siamo nelle condizioni di accettare e affrontare il do­lore, e la fine della nostra esistenza. È questo lo scopo ultimo del 'pallium', che implica una rete di rapporti che ci accoglie e ci sostiene. E se non può cer­to essere una legge, seppur buona, a ri­solvere il mistero del dolore e della no­stra finitezza, è anche vero che può aiutare a starci davanti, e ad averne meno timore. Perché le nuove norme siano real­mente efficaci, sarà necessario un mo­nitoraggio accurato della loro appli­cazione da parte delle autorità coin­volte, per evitare da un lato che gli ar­ticoli di legge rimangano sulla carta, i­nattuati, e, allo stesso tempo, per e­scludere tassativamente ogni possibi­le abuso, tenuto conto della tipologia e della potenza dei farmaci utilizzati in queste circostanze.

Saggiamente, la legge sulle cure pal­liative è stata separata dal testo Calabrò sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (la cosiddetta legge sul fi­ne vita), ancora in discussione in Par­lamento: la possibilità di rifiutare te­rapie mediche, anche anticipatamen­te rispetto a quando potrebbero esse­re somministrate, come prevista dalle Dat, riguarda la libertà di cura e il consenso informato, e il dibattito di que­sti mesi ha mostrato che chi chiede di non essere curato qualora si trovasse in condizioni particolarmente gravi, non lo fa per mancanza di terapie che rechino sollievo al dolore, ma piutto­sto per un’idea di autodeterminazio­ne spesso esasperata, che si dilata fi­no a comprendere il «diritto a morire». D’altra parte, proprio le storie di Pier­giorgio Welby ed Eluana Englaro, che hanno costretto l’opinione pubblica i­taliana a confrontarsi con queste problematiche, hanno mostrato quanto le cure palliative non c’entrino con le Dat: Welby ed Eluana non erano ma­lati terminali, e il problema del dolore si è posto per entrambi solo quando la loro vita è stata spenta da interventi e­sterni. Insomma, le idee sul fine vita hanno un contorno più netto, adesso, e qual­che alibi è caduto. Il Parlamento ha prodotto una buona legge, finanziata nonostante le difficoltà economiche del momento. Adesso bisogna applicarla al meglio.