venerdì 26 febbraio 2010

27/2/2010 Portaparola

cliccare sulla pagina per visualizzare
cliccare sulla pagina per visualizzare


Da culturacattolica.it del lunedì 22 febbraio 2010

IN ITALIA I BAMBINI DOWN SI POSSONO UCCIDERE MA NON OFFENDERE

Mangiarotti, Don Gabriele

Riceviamo questo comunicato stampa dalla Associazione Due minuti per la vita.

Lo pubblichiamo per una comune e seria riflessione sul problema. Il sito potrà essere chiuso (forse lo è già) ma il problema segnalato permane, si tratta del valore assoluto di ogni vita umana. Lottiamo per una cultura della vita.

L'Associazione Due minuti per la vita si unisce al giusto coro di condanne, provenienti da personalità politiche, Associazioni e società civile nei confronti del recente gruppo su Facebook che offende gravemente, ed in maniera intollerabile, la dignità dei bambini down.

Mentre si auspica il celere intervento dell'autorità giudiziaria sulla vicenda, non si può omettere di ricordare che in Italia l'uccisione delle persone down è legale da oltre 30 anni, quando nel 1978 la legge 194 rese lecito l'aborto al verificarsi di "un serio pericolo per la sua [della donna] salute fisica o psichica in relazione [...] a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito" (art. 4, aborto entro i primi 90 giorni) ovvero "quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna" (art. 6, aborto dal 90° giorno fino alla possibilità di vita autonoma del feto).

Allo stesso modo occorre menzionare le pronunce dei giudici attraverso le quali è stato permesso, in totale sfregio e disapplicazione della legge 40/2004, di praticare la c.d. diagnosi pre-impianto, con conseguente selezione, sugli embrioni (ottenuti con le tecniche di fecondazione artificiale) prima del loro trasferimento in utero.

Il gravissimo episodio del gruppo di Facebook non è dunque che la coerente e cinica applicazione di quanto già avviene legalmente, ed impunemente, nel nostro paese: dopo che la società ha respirato per decenni, e continua a respirare tuttora, l'alito appestato della disumana mentalità eugenetica, come si può pretendere che si rispetti una persona disabile una volta nata se quando è ancora nel grembo materno è lecito ucciderla?

L'Associazione Due minuti per la vita augura che questo deplorevole episodio possa essere un'occasione per ricordare senza compromessi e mistificazioni il diritto inalienabile alla vita di ogni persona, dal concepimento alla morte naturale: si dica la verità tutta, evitando la triste miopia di considerare la dignità ed il decoro di una persona più importanti del suo diritto alla vita.



ASSOCIAZIONE DUE MINUTI PER LA VITA

CASELLA POSTALE 299 10121 TORINO

FAX. 011.19.83.42.99

www.dueminutiperlavita.info - info@dueminutiperlavita.org

www.facebook.com/dueminutiperlavita

Da “Avvenire” di venerdì 26 febbraio 2010

VITA E MORTE A LONDRA (E A RADIORAI)

NON CHIAMATELA PER CARITÀ «COMPASSIONE» FRANCESCO OGNIBENE

Esistono almeno due metodi collaudati per manipolare la percezione pubblica delle grandi questioni sulla vita umana: cambiar no­me alla realtà, o rovesciare il significato delle parole. Si tratta di strategie culturali speri­mentate al punto tale da trasformarle in auto­matismi inconsapevoli, maschere sotto le qua­li i fatti diventano invisibili, quasi irrilevanti. Ha cambiato nome l’aborto, dissimulato sotto le burocratiche spoglie della «interruzione vo­lontaria di gravidanza», meglio se IVG.

Si è sma­terializzata la pillola del giorno dopo (poten­zialmente abortiva) chiamandola «contracce­zione d’emergenza».

Persino quando si parla di «autodeterminazione» occorre cercare nel doppiofondo semantico, là dove spesso si sco­prirà il reale intento eutanasico di chi parla di libertà e diritti.

Ma la distanza tra idee pensate ed espresse di­venta abissale quando si assiste allo stravolgi­mento di concetti capovolti nel loro opposto. È quanto sta accadendo in Inghilterra, dove ieri il procuratore gene­rale del Regno, Keir Starmer, dettando i cri­teri in base ai quali an­drà perseguito o pro­sciolto chi attivamente aiuta un parente o un a­mico a morire ha spie­gato che mai si dovrà mandare in prigione la persona che ha agito per «motivi di compas­sione ».

Già la definizio­ne giuridica del gesto – «suicidio assistito» – a­pre più di un dubbio: chi stacca un sondino, inocula un farmaco le­tale o spegne un ventilatore polmonare cau­sando la morte realizza un vero atto eutanasi­co. Chiamandolo in un altro modo si compie una falsificazione mirata a precostituire il giudizio dell’opinione pubblica, deviando l’im­patto di quella che resta una morte procurata. Ma se chi ha realizzato quello che il nostro Co­dice penale definisce «omicidio del consen­ziente » riesce a dimostrare che l’ha fatto per «compassione» nessun tribunale inglese potrà più punire la cooperazione al suicidio con la pena prevista di 14 anni. Il lasciapassare per l’assoluzione è la «compassione» del gesto, che – par di capire – si traduce nella semplice as­senza di motivi di risentimento o d’interesse personale. Cambiato nome e aspetto, l’euta­nasia viene così accolta nelle corti di giustizia inglesi, e riesce persino nel trucco più sbalor­ditivo: coprire la soppressione di una vita al colmo della sua fragilità con l’onore che si tri­buta a chi si china sull’altro sofferente per «com-patire» insieme a lui.

Lo slancio del sa­maritano è snaturato nella sua tragica carica­tura: la mano che per secoli si è posata con a­more sulla ferita ignorata da altri ora procura la morte. Uccide sì, ma per «compassione»: non sapendo più farsi carico dell’estrema fa­tica di vivere la fa cessare, così contribuendo a far sedimentare l’idea che sia questa la solu­zione alla malattia senza speranza, alla solitu­dine, alla vecchiaia estrema, alla demenza. Sembra che questo crescente peso di sofferenza sia insopportabile alla nostra società sbrigativa e nichilista, e allora meglio autoriz­zare (e incoraggiare) il repulisti facendolo pas­sare per ammirevole virtù. Una truffa cultura­le agghiacciante. L’eco di questa mentalità «compassionevole» s’è udito anche in Italia, ieri mattina, nella pun­tata che «Radio Anch’io» ha dedicato agli svi­luppi parlamentari della legge sulle

Dichiara­zioni anticipate di trattamento. Il servizio pub­blico ha consentito che, nella generale confu­sione di concetti scientifici, si lasciasse dire (persino plaudendo all’efficacia dell’idea) che essendo brutto veder morire di sete pazienti come Eluana sarebbe meglio praticargli una bella iniezione, e via. A completare il pasticcio la doppia conduzione in studio con la 'voce' sanremese, che sul palco canta l’allergia a qual­siasi verità salvo poi aderire senza mostrar dub­bio alcuno alla discutibilissima «verità» di chi ha portato a morte Eluana. Un bell’esempio di coerenza, davvero. Come quello dell’ex mi­nistro che si sbraccia per la «presa in carico» dei pazienti ma poi squarcia la rete di prote­zione culturale che la nostra civiltà da sempre stende sotto i più deboli invocando la legge del «liberi tutti» di dare e farsi dare la morte come e quando ci pare. Ma la nuova, terribile, «com­passione » autorizza anche questo.

Da Avvenire di sabato 20 febbraio 2010

BACHELET E LA FORZA DEL PERDONO

QUEL SEGNO VINCENTE DI PACE LUCIA BELLASPIGA

Era la fine del 1983 quando padre Adolfo Bachelet, anziano gesuita, ricevette una lettera firmata da diciotto esponenti delle Brigate Rosse. Uomini e donne che avevano ucciso senza pietà, che si erano macchiati dei più disumani crimini, chiedevano umilmente a quel vecchio di andarli a trovare in carcere: «Vogliamo ascoltare le sue parole». Quattro anni prima altre parole erano risuonate in una chiesa romana, e quella volta a pronunciarle era stato un giovane di 24 anni, Giovanni Bachelet, nipote del gesuita. Era il giorno in cui si seppelliva suo padre Vittorio, docente di Diritto alla Sapienza di Roma e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, assassinato dalle Br sulle scale della sua facoltà il 12 febbraio 1980: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà – disse Giovanni dall’altare – perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».

Una lezione che aveva appreso dal padre, dal suo agire più che dal suo parlare, e che quel giorno scosse molte coscienze, suscitando emozione ma anche dando scandalo. Perché l’abisso del bene a volte spaventa più dell’abisso del male.

Ciò che nessuno poteva conoscere era il lavorìo lento ma ineluttabile che intanto quella parola, «perdono», compiva nel sottomondo delle carceri, insinuandosi come una lama di luce nell’oscuro della coscienza di chi scontava i suoi delitti in cella. «Ricordiamo bene le parole di suo nipote durante i funerali del padre», scrivono, anni dopo, i diciotto brigatisti al gesuita, e riconoscono che quello fu il momento in cui persero la loro guerra, «davvero sconfitti nel modo più fermo e irrevocabile». Ad annientarli non era stata la risposta necessaria della giustizia, non la detenzione, ma «l’urto tra la nostra disperata disumanità e quel segno vincente di pace». Errare è umano – scriveva nel Settecento Alexander Pope – perdonare divino, e quel manipolo di ex assassini (che probabilmente non lo avevano letto) rompeva le righe come un esercito in rotta, colpito in pieno volto dall’offerta di pace: «Ci inchiniamo davanti al fatto puro e semplice che la testimonianza d’umanità più larga e vera e generosa sia giunta a noi da chi vive in spirito di carità cristiana», ammettono nella lettera.

Chi perdona disarma perché disarmato si consegna, unilateralmente. E un uomo come Vittorio Bachelet, che il Diritto lo insegnava ma prima ancora lo viveva, da sempre convinto che un mondo migliore o peggiore dipenda da ciascuno di noi, continuava a dare il suo contributo di pace attraverso le parole del figlio che aveva cresciuto. Martire laico, lo definì il cardinal Martini, e martire, 'testimone', continua ad essere oggi, a trent’anni dalla morte, esempio di mitezza ma anche di lucidità di giudizio, maestro di giustizia ma anche di perdono. Un martirio accolto e condiviso da chi lo aveva amato: «La testimonianza che a noi tutti diede la sua famiglia ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della lotta armata», scrisse alla moglie, qualche anno dopo, un brigatista. E l’antidoto alla violenza fu dirompente: «Le nostre certezze cominciarono a scricchiolare come il colosso di Rodi». È una storia che andrebbe raccontata tutti i giorni, di generazione in generazione, come avviene presso i popoli nei quali i giovani ancora apprendono dall’esempio dei padri. 'Par condicio' e burocrazia hanno oscurato la messa in onda della puntata che 'A sua immagine' avrebbe dedicato sabato scorso al martirio di Vittorio Bachelet, nell’anniversario della sua morte, ma alla fine il buon senso ha prevalso e la vedremo oggi. E alla fine è meglio così: oggi, 20 febbraio, Bachelet non moriva, nasceva. Avrebbe compiuto 84 anni. È una storia che andrebbe raccontata tutti i giorni, di generazione in generazione.

Da Avvenire di sabato 20 febbraio 2010

«GIOVANI, TOCCA A VOI RIDARE VIRTÙ ALLA POLITICA»

L’invito di Bertone: fatevi carico del bene comune

Il segretario di Stato vaticano, ricollegandosi all’invito del Papa, ripreso anche da Bagnasco, ha auspicato una nuova generazione di cattolici impegnati

DAL NOSTRO INVIATO A RICCIONE PAOLO VIANA

L’appello di Benedetto XVI per una nuova generazione di politici catto­lici è rivolto soprattutto ai giovani. La Chiesa li invita a farsi carico di un «esercizio di responsabile carità verso il prossimo» e di una missione 'storica', quella di restituire la virtù alla politica partendo dai comportamenti personali, perché «non esiste separazione tra etica individuale ed etica sociale»: è questo il cuore della lectio magistralis con cui il cardi­nale Tarcisio Bertone, ieri pomeriggio, ha a­perto a Riccione il seminario di Reteitalia sul bene comune. Parole che in assonanza con quelle con cui il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, aveva concluso il 25 gen­naio scorso la sua prolusione al Consiglio per­manente dell’episcopato italiano, auspican­do «una generazione nuova di italiani e di cat­tolici, che sentano la cosa pubblica come im­portante e alta e siano disposti per essa a da­re il meglio di sé, del loro pensiero, dei loro progetti e dei loro giorni». Salutato dal governatore della Lombardia Ro­berto Formigoni, leader del sodalizio politico, e accolto da un palacongressi gremito di am­ministratori del Pdl, il segretario di Stato ha ripercorso il magistero sociale della Chiesa.

Partendo cioè dal codice di Malines per arri­vare a quello di Camaldoli, dalle parole di Gio­vanni Paolo II ai giovani argentini nel 1985 al­l’ormai celebre appello di Benedetto XVI a Ca­gliari. E ha sviluppato l’appello del Santo Pa­dre inquadrando, attraverso il messaggio di Luigi Sturzo, Chiara Lubich e Luigi Giussani, il contributo specifico che i giovani cristiani possono dare al­la promozione del bene comu­ne, che «non è delegato allo Sta­to », ha precisato. La politica non è, ha insisto con le parole del prete di Caltagirone, cosa sporca, bensì «l’amore degli amori» co­me diceva la Lubich, e «realizza il più possibi­le la soluzione degli umani problemi in base al richiamo di Gesù», secondo il pensiero di don Giussani. La 'chiamata' della Chiesa ai giovani, ha spiegato tuttavia il porporato, ri­chiama all’insegnamento politico di Tomma­so Moro piuttosto che a quello, oggi partico­larmente in voga, di Niccolò Machiavelli. Ber­tone indica una politica che sia «via della san­tità e finanche del martirio» e non, invece, la supina accettazione dell’immoralità che pro­duce «l’illusione del successo immediato»: al contrario, ha commentato ieri, «il bene co­mune non si esprime nell’immediato ma nel­la storia».

Su un punto il segretario di Stato si è espres­so con particolare chiarezza: «La politica è chiamata a confrontarsi con la fragilità del­l’uomo, anche ad apprendere dagli errori del passa­to e del presente, ma sempre coltivando la respon­sabilità dell’avve­nire, da orientare alla virtù». E non parlava di virtù politica: anzi, da Riccione ha lanciato un ve­ro e proprio appello ai politici ad «orientare la propria vita e le proprie relazioni alla virtù, poiché dalla virtù della persona dipende la virtù della società». Risultando ancora più e­splicito: «non esiste separazione tra etica individuale ed etica sociale». Una rettitudine che «vale per tutti i politici», ma i cattolici deb­bono essere consapevoli di avere una «mis­sione nella storia, che è quella di orientare la società a valori superiori», senza i quali, come scriveva Sturzo, «tutto si deturpa e la politica diviene mezzo di arricchimento, l’economia arriva al furto e alla truffa». Serve, al contrario, «una nuova generazione di politici cattolici», contraddistinta dall’impegno a «iniettare buo­na e nuova linfa nella società, orientandola al­la virtù, con rettitudine e discernimento alla luce del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa». Gente capace di superare il bivio tra utopia e disaffezione, come lo inquadrava Gio­vanni Paolo II, ribaltando la prospettiva diffusa nella società globalizzata, «dove il cambia­mento si attende dall’alto» mentre «la sfida per la nuova generazione di politici cristiani è quella del cambiamento dal basso, dal terri­torio, dalle comunità locali chiamate a contribuire al bene comune».

Da Avvenire di domenica 21 febbraio 2010

ANTONIO E NOI, OGGI QUEL SANTO RIVERBERO VIOLA LA FERREA DITTATURA DEL TEMPO MARINA CORRADI

Chi ha visto i fedeli di sant’Antonio, già dall’alba di lunedì scorso in una fila che abbracciava la piazza della Basilica, e che nei giorni successivi e fino a ieri sera si è rin­novata, alimentata da sempre nuova gente venuta anche da lontano, non ha potuto non meravigliarsi. E non solo per quella molti­tudine, non solo per la tenace resistenza del­la pietà popolare all’omologazione cultura­le che oggi impone ben altri oggetti di cul­to.

La meraviglia nasce anche da un altro ele­mento, forse più evidente per chi ha assisti­to alla cerimonia della traslazione del corpo del santo, domenica notte. Perché guar­dando quel sarcofago, e assistendo nel si­lenzio della Basilica vuota al faticoso lavo­rio di cavi che ne estraevano la cassa; e contemplando poi l’urna di cristallo coperta di polvere, chiusa dai sigilli purpurei dell’ulti­ma ostensione, ti pareva quasi di toccare con la mano lo spessore del tempo.

Nella cassa, una bolla risalente all’ostensio­ne del 1981 portava la firma autografa di Gio­vanni Paolo II. Che in quell’anno era un gio­vane Papa, fisicamente forte e sano, un leo­ne. Mentre in questa notte di febbraio del 2010 ciascuno in Basilica, nel sentire quel nome, ha evocato la figura del pontefice ma­lato e sofferente, che ci ha lasciato ormai da cinque anni. Ma, se i trent’anni che ci sepa­rano da quel 1981 so­no già tanti per gli uo­mini, è impensabile allora il tempo – 779 anni – trascorso dalla morte di Antonio. Ot­to secoli, un abisso per uomini. Fatichia­mo a immaginarci quell’anno 1231: l’Ita­lia ancora brughiera e foreste, e città turrite contro i nemici, ma indifese dalle pesti­lenze. Le strade di polvere, le carestie in agguato, e il pauroso buio delle notti, rischiarate solo dalla luce tremante delle can­dele. È davvero perdutamente lontano il mondo di Antonio, per chi è nato nel seco­lo ventesimo.

E quell’urna con le ossa annerite del santo, e le altre più piccole con la sua carne torna­ta in cenere: tutto, a chi contemplava le re­liquie, testimoniava la pesantezza, la du­rezza implacabile del tempo – che rende gli uomini polvere.

Ma, davanti a un simile annientamento del­la carne, ancora più singolare era il contra­sto con quella folla di vivi in attesa nella piaz­za, nei giorni successivi e fino a ieri; vivi che battevano i piedi per scaldarsi dal freddo, e si tenevano svegli con un caffè bollente. Quella marea di vivi a venerare un uomo morto da ottocento anni, che cosa straordi­naria. Andrebbero, forse, per Cesare o per Carlo Magno, per un eroe o un poeta? Si al­zerebbero nel cuore della notte, verrebbero da molto lontano, per il più grande degli uo­mini? Forse, finché di quell’uomo è vivo il ri­cordo; finché ancora i vecchi ne racconta­no.

Poi, l’oblio copre ogni memoria; la ince­nerisce, proprio come fa con le ossa.

Tranne che con i santi. E soprattutto per quelli al popolo più cari. Per santa Rita, per Francesco, per Antonio, la venerazione e la memoria sfidano i secoli. Come se fossero vivi tra noi, ancora. Come sfuggiti alla con­giura implacabile che vuole che i morti im­pallidiscano fino a svanire dagli affetti dei viventi. I santi, dunque, violano la ferrea dit­tatura del tempo? E come avviene, come è possibile? Ce lo siamo chiesti contemplan­do la mano destra di Antonio, la sua mano benedicente ischeletrita nell’urna. Così evi­dentemente morta, eppure, negli sguardi commossi dei pellegrini, così viva.

Deve esserci un segreto. Qualcosa che la fi­sica e tutte le scienze non spiegano, né pos­sono in alcun modo misurare. È una fac­cenda che deve avere a che fare con Dio. Con quel Dio che i santi vedono faccia a faccia. Che ne sia un riverbero, questo loro sfron­tato felice restare fra noi, mille anni dopo? Che sia in realtà questo riverbero ciò che davvero cercano , magari senza saperlo ap­pieno, quelle migliaia là fuori, e che porta­no al santo i loro vecchi, i loro bambini?

Da Avvenire di giovedì 25 febbraio 2010

LA CULTURA DEL BENE COMUNE

GUARDARE A MERIDIONE CON IL CORAGGIO DI «PENSARE INSIEME»

VITTORIO DE MARCO

Con la pubblicazione del documento 'Per un Paese solidale', il Mezzogior­no torna al centro dell’attenzione della Chiesa italiana.

Frutto di un’ampia rifles­sione collegiale, esso si inserisce con l’au­torità morale dei vescovi in un dibattito sulle emergenze del Sud che negli ultimi tempi, a partire da ottiche differenti e se­condo sensibilità politiche e culturali arti­colate, è di nuovo attuale.

La Chiesa invita a guardare al Mezzogior­no «con amore», a condividerne i bisogni e le speranze. Fa appello all’intelligenza, alla creatività, al coraggio di un «pensare in­sieme », all’assunzione di una responsabi­lità nuova, riponendo grande speranza nei giovani del Sud. Sono proprio loro, in qual­che modo, i protagonisti del documento, sollecitati continuamente al duro ma necessario compito del riscatto da modelli di pensiero individualisti e nichilisti e da strutture che sfruttano e abbruttiscono il territorio. Sono loro a essere stimolati a va­lorizzare il patrimonio morale e religioso che il Mezzogiorno, nonostante tutto, sa ancora esprimere, incoraggiati a speri­mentare nuove strade nello sviluppo eco­nomico, chiamati a favorire «un cambia­mento di mentalità e di cultura» per vin­cere «i fantasmi della paura e della rasse­gnazione » (n. 16).

Lo spettro di osservazione del documen­to è ampio, perché tocca mali antichi co­me il fatalismo, emergenze moderne co­me la questione ecologica, e tematiche re­centissime come il federalismo, sul qua­le il giudizio dei vescovi è chiaro: esso non deve accentuare le distanze tra le diverse parti d’Italia ma saper essere « solidale, realistico e unitario» (n. 8), senza che lo Stato rinunci a proteggere i diritti fonda­mentali di tutti gli italiani.

Il male più oscuro del Mezzogiorno conti­nua a essere la criminalità organizzata: le «mafie – viene detto in modo chiaro e perentorio – sono strutture di peccato»; e­sprimono «una forma brutale e devastan­te di rifiuto di Dio e di fraintendimento del­la vera religione»; rappresentano «la con­figurazione più drammatica del 'male' e del 'peccato'» (n. 9). La condanna è net­ta, senza ombre né esitazioni: riecheggia­no le parole forti di Giovanni Paolo II ad A­grigento e a Napoli. Oltre che nei giovani, la speranza dei ve­scovi è riposta nelle comunità ecclesiali e nella loro capacità di essere luogo e labo­ratorio di idee e fatti concreti, come dimo­strano le cooperative e le aziende promosse grazie al Progetto Policoro. Da tempo la parte migliore delle Chiese del Sud si è al­lineata con la parte migliore della società civile per combattere ogni forma di illega­lità, per promuovere una mobilitazione morale, dimostrando quanto le strutture ecclesiali siano profondamente calate nel­la realtà meridionale e di quale potenzia­le di cambiamento esse dispongano.

All’orizzonte del Mezzogiorno non c’è so­lo l’esigenza di un’economia sana. È ne­cessario dare spazio anche alla cultura del bene comune, della cittadinanza, del di­ritto, della buona amministrazione e del­l’impresa nel rifiuto dell’illegalità. Sono va­lori etici, culturali e antropologici non da porre in alternativa alle regole dell’econo­mia, ma da intendere piuttosto come mo­tori per lo sviluppo integrale del Sud: dav­vero ci vuole «coraggio e speranza» (n. 20). La Chiesa, in questa emergenza educativa, rivendicando «un ruolo nella crescita del Mezzogiorno» (n. 16), mette in campo il suo patrimonio religioso, morale e cultu­rale, puntando sull’associazionismo laica­le, sui movimenti e soprattutto sulle par­rocchie. Molto dipenderà dal livello di ri­cezione di questo documento nelle Chie­se del Sud come in quelle del Nord, cioè dalla capacità delle comunità ecclesiali di farne non solo oggetto di studio, discus­sione e confronto nel breve periodo, ma di considerarlo come mappa orientativa del decennio che si sta aprendo. Decisivo, in questo senso, sarà il grado di coinvolgi­mento di tutte le diocesi e la loro disponi­bilità a confrontarsi e collaborare in pro­spettiva nazionale. «Ogni Chiesa custodi­sce una ricchezza spirituale da condivide­re con le altre Chiese del Paese» (n. 15): non è una sfida di poco conto.

Ravenna 22 febbraio 2010

DUOMO DI RAVENNA

PONTIFICALE AL DIACONATO PERMANENTE

I nostri fratelli Antonio Sellitto e Giovanni Fresa sono stati ammessi tra i candidati al Diaconato.

Da Portaparola Ravenna un augurio per il loro cammino insieme al Signore affinché gli conceda di conoscere e vivere, in tutta pienezza, il mistero del suo amore.

giovedì 25 febbraio 2010

IL VANGELO DELLA DOMENICA

Chi ascolta Gesù viene trasformato il vangelo
di Ermes Ronchi
II Domenica di Quaresima Anno C

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne can­dida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e par­lavano del suo esodo, che stava per compiersi a Geru­salemme (...) Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Fac­ciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quel­lo che diceva. Mentre par­lava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. Al­l’entrare nella nube, ebbe­ro paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Que­sti è il Figlio mio, l’eletto; a­scoltatelo! » (...).

La trasfigurazione è la festa del volto bello di Cristo. Il volto è la gra­fia dell’anima, la scrittura del cuore: Dio ha un cuore di lu­ce. Il volto di Gesù è il volto al­to dell’uomo. Noi tutti siamo come un’icona incom­piuta, dipinta però su di un fondo d’oro, luminoso e pre­zioso che è il nostro essere creati a immagine e somi­glianza di Dio.
L’intera vita altro non è che la gioia e la fatica di liberare tutta la lu­ce e la bellezza che Dio ha deposto in noi: «il divino tra­spare dal fondo di ogni es­sere » ( Teilhard de Chardin).
Il volto del Tabor trasmette bellezza: è bello stare qui , al­trove siamo sempre di pas­saggio, qui possiamo sosta­re, come fossimo finalmen­te a casa. È bello stare qui, su questa terra che è gravi­da di luce, dentro questa u­manità che si va trasfigu­rando.
È bello essere uomi­ni: voi siete luce non colpa, siete di Dio non della tene­bra.
La Trasfigurazione inizia già in questa vita (conosciamo tutti delle persone luminose, volti di anziani bellissimi, nelle cui rughe si è come im­pigliato un sole) e il Vangelo indica alcune strade:
– la prima strada è la pre­ghiera ( e mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto) che rende più limpido il vol­to, ti rende più te stesso, per­ché ti mette in contatto con quella parte di divino che compone la tua identità u­mana;
– è necessario poi conqui­stare lo sguardo di Gesù che in Simone vede la roccia, nella donna dei 7 demoni vede la discepola, in Zac­cheo vede il generoso...; al­lenare cioè gli occhi a vede­re la luce delle cose e delle persone, non le ombre o il negativo. Se ti guardo cer­cando le tue ombre, io già ti condanno. Io devo confer­mare l’altro che ha luce in sé, allora lui camminerà avan­ti;
– terza strada è nel verbo che è il vertice conclusivo del racconto: ascoltatelo . Chi a­scolta Gesù, diventa come lui.
Ascoltarlo significa esse­re trasformati.
Il salmo 66 augura: Il Signo­re ti benedica con la luce del suo volto. La benedizione di Dio non é ricchezza, salute o fortuna, ma semplicemente la luce: luce interiore, luce per cam­minare e scegliere, luce da gustare. Dio ti benedice ponendoti accanto persone dal volto e dal cuore di luce, che hanno il coraggio di essere inge­nuamente luminosi nello sguardo, nel giudizio, nel sorriso. Dio benedice con persone cui poter dire, co­me Pietro sul monte: è bello essere con te! Mi basta questo per sapere che Dio c’è, che Dio è luce. E il tuo cuore ti dirà che tu sei fatto per la luce.

(Letture: Genesi 15, 5-12. 17­18; Salmo 26; Filippesi 3, 17­4,1; Luca 9, 28-36)

sabato 20 febbraio 2010

Il VANGELO della DOMENICA


Duccio di Boninsegna, Le tentazioni di Cristo (1308-11)
il Vangelo di Ermes Ronchi
I Domenica di Quaresima Anno C
Dalla fiducia in Dio la vera forza
In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guida­to dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tenta­to dal diavolo.Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli ri­spose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». (...) Gli disse: «Se tu sei Fi­glio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo ri­guardo affinché essi ti cu­stodiscano” (...)». Gesù gli ri­spose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signo­re Dio tuo”». Dopo aver e­saurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
Le tre tentazioni di Gesù nel deserto, sono le tentazioni dell’uomo di sempre. «Le grandi tenta­zioni non sono quelle di cui è preoccupato un certo cri­stianesimo moralistico, non sono quelle, ad esempio, che riguardano il comporta­mento sessuale, ma quelle che vanno a demolire la fe­de » (O. Clément). C’è un crescendo nelle tre prove: vanno da me, agli al­tri, a Dio. La prima tentazione: pietre o pane? Una piccola alter­nativa che Gesù apre, spa­lanca. Né di pietre né di so­lo pane vive l’uomo. Siamo fatti per cose più grandi; il pane è buono, è nel Padre Nostro, è indispensabile, ma più importanti ancora sono altre cose: le creature, gli af­fetti, le relazioni. È l’invito a non accontentarsi, a non ri­durre i nostri sogni a dena­ro.
Non di solo pane vive l’uo­mo!

Il pane è buono, il pane dà vita, ma più vita viene
dalla Parola di Dio.
Poi il tentatore alza la posta. Da me agli altri:
io so come conquistare il potere! Tu a­scoltami e ti darò il potere su tutto... È come se il diavolo dicesse a Gesù: Vuoi cam­biare il mondo? Allora usa il potere, la forza, occupa i po­sti chiave. Vuoi salvare il mondo con niente, con l’a­more, addirittura con la cro­ce? Sei un illuso! Cosa se ne fa il mondo di un crocifisso in più? Vuoi avere gli uomi­ni dalla tua parte? Assicura­gli pane, autorità, spettaco­lo, allora ti seguiranno! Ma Gesù vuole liberare, non im­possessarsi dell’uomo, lui sa che il potere non ha mai li­berato nessuno. Il male del mondo non sarà vinto da altro male, ma per una insurrezione dei cuori buoni e giusti.
Il diavolo chiede ubbidien­za e offre potere. Fa un com­mercio, un mercato con l’uomo. Esattamente il con­trario di come agisce Dio, che non fa mercato dei suoi doni, ma offre per primo, dà in perdita, senza niente in cambio...
L’ultimo gradino è una sfida aperta a Dio, demolisce la fe­de facendone l’imitazione: «
Chiedi a Dio un miracolo ». E ciò che sembra essere il massimo della fede, ne è in­vece la caricatura: non fidu­cia in Dio ma ricerca del pro­prio vantaggio, non amore di Dio ma amore di sé, fino alla sfida.
Buttati verranno gli angeli.

Gesù risponde «no»: «Io so che Dio è presente, ma a modo suo, non a modo mio. Dio è già in me forza della mia forza».
E gli angeli mi sono attorno con occhi di luce. Dio è pre­sente, è vicino, intreccia il suo respiro con il mio. For­se non risponde a tutto ciò che io chiedo, eppure avrò tutto ciò che mi serve. Inter­viene, ma non con un volo di angeli, bensì con tanta for­za quanta ne basta al primo passo.

( Letture: Deuteronomio 26,4-10; Salmo 90; Romani 10,8-13; Luca 4,1-13)

20 febbraio 2010 PORTA PAROLA



cl
iccare sulla pagina per visualizzare



Da “Avvenire” di giovedì 18 febbraio 2010

L’INIZIO DELLA QUARESIMA CON IL SEGNO CHE LA MORTE È VINTA

Quella cenere sul capo per apprezzare la bellezza della vita

MAURIZIO PATRICIELLO

Della morte non si dirà mai abbastanza. Ogni generazione è chiamata a misurarsi con il suo mistero. C’è chi la teme, chi la invoca e chi semplicemente finge di ignorarla. La Chiesa, con gesto audace, sparge oggi sul capo dei suoi figli un pizzico di cenere per risvegliare in essi il ricordo delle origini.

Non vuole spaventarli, ma allontanarli dallo spavento. Non aver paura, dice, perché la morte è stata vinta e tu non morirai; gusta la gioia di essere un uomo vivo. Prezioso è il tempo, e questo è il tempo tuo: vivilo appieno, vivilo bene. Allarga i polmoni e inspira a piene sorsate l’aria della vita.

Chiunque tu sia, qualunque sia la tua condizione, il tuo passato, il tuo peccato. Riprendi il largo, esci dalle secche. Confessa con umiltà le tue angosce, i tuoi limiti, le tue paure. Non temere il giudizio degli amici, gli uomini si somigliano tutti, appena lasciano cadere le difese: innamoràti della vita, timorosi della morte; desiderosi di amare ed essere amati, tormentati al pensiero di essere traditi. Gli uomini sono tanto cari, e tanto strani. Si scandalizzano di Dio perché ai poveri manca il pane, e poi a tonnellate lo riversano nell’immondezzaio. Capaci di farsi solidali con chi vive al di là del mare, e di diventare lupi con chi nacque nella stessa casa. Tu ascolta. Il cuore innanzitutto. Non trattarlo male, non chiudergli la porta ogniqualvolta lo senti sussurrare. Vieni.

Abbassa lievemente il capo e lascia che la polvere ti racconti la tua storia. Porgi il capo e ascolta l’invocazione che ti rivolge il Divino Pezzente: «Figlio, dammi il tuo cuore». Donarlo a Lui è il migliore investimento che possa fare sulla terra.

Come il profeta antico, come Maria, pronuncia il tuo «eccomi, Signore». È Lui che ci rimette in piedi, ci risolleva dalla nostra umiliazione, ci rende liberi. Ci fa finalmente uomini. Da sempre attende alla finestra il figliolo che scappò via sbattendo la porta. Sa che lontano dalla casa vera finiamo con l’andare a pascolare i porci. E ci attende per gettargli le braccia al collo e mettergli l’anello al dito; per ridonargli gioia, per rimproverargli niente. Io torno. Sono stanco di starmene lontano. Senza di Lui l’esistenza pesa, la vita mi è tormento.

Accolgo il suo invito e metto nelle Sue mani il cuore. Digiuno. Per meglio assaporare il pane. Per spezzarlo con il fratello, chiunque egli sia. Mi guardo attorno, vedo l’immigrato, mi metto nei suoi panni, gli faccio compagnia sotto i ponti, nella casa di cartone. In molti luoghi c’è la neve. È bella la neve, ma non sempre, non per tutti. A volte è spietata e uccide chi non ha il cappotto e ha mangiato poco. Allora corro dal mio fratello. Gli porto la mia fede, la speranza, la carità. Vado da lui per incontrare Gesù: quello è l’indirizzo giusto, in quella casa lo trovi sempre. Vado dove i bimbi appena nati giungono per rinnovare l’umanità. Dove la vita trionfa, ma tanto spesso arranca.

Incontro chi non vuole che nasca il piccolo che già vive nel suo grembo. Le tendo la mia mano, offro sostegno ricordando che tutti siamo figli della misericordia di qualcuno che ci accolse un giorno. Gesti semplici e piccini, come piccino è il bimbo che implora di vedere il sole.

Cenere siamo, ma cenere preziosa. Cenere di uomo, polvere di stelle. Creta per la quale Gesù Cristo è morto. La Chiesa ci chiama a meditare sulla morte perché impariamo ad apprezzare la bellezza della vita. Vuole aiutarci a imboccare la strada che porta alla felicità senza fine. Ci conduce per mano a salire il Golgota per contemplare l’Uomo della Croce.

«In questi giorni – scriveva don Giuseppe De Luca – quel che possono far di meglio i nostri poveri occhi è leggere la Passione di nostro Signore Gesù Cristo... Avventura suprema, la più innamorata e tragica avventura». Buona Quaresima.

Da “Avvenire” di venerdì 19 febbraio 2010

BENEDETTO XVI AL CLERO DI ROMA

La forza della generosità lo sfregio del tornaconto DAVIDE RONDONI

I preti sono uomini tra gli uomini. Ieri il Papa li ha invitati fortemente ad essere 'completamente' uomini. A essere uo­mini di contemplazione ma anche uomi­ni di 'compassione' verso l’uomo che è ferito dal peccato. Per la loro stessa con­dizione di verginità e di dedizione, i preti possono vivere l’umanità di tutti, e non u­na parziale umanità, non una parziale de­dizione. Il richiamo di ieri al clero roma­no è di grande importanza. Parlando ai preti, il Papa sa di parlare, per così dire, al­la società guardata con gli occhi di Gesù. Alla società abitata da Gesù.

Per questo ciò che ha detto ieri interroga la nostra intera società. Non è un discor­so per un gruppo separato. Non un programma per una certa fascia sociale o per un certo gruppo di interesse. Non per un partito. Ma per uomini che hanno accet­tato di farsi di tutti. Che hanno accettato di essere servi di tutto e di tutti. In un cer­to senso dei veri sovvertitori, in questa e­poca dove spesso gli uomini giocano a fa­re i presunti padroni e padroncini della vi­ta propria e altrui. Per questo ieri ha osa­to ricordare il più grande sovverti­mento della storia. Ovvero lo sguardo di Cristo sull’uo­mo. Lo sguardo che sa che cosa è veramente uma­no, degno d’uomo. Lo sguardo che anche nel pecca­tore vede la possi­bilità della scoper­ta del vero bene. E della piena soddisfazione.

Il vero sguardo rivoluzionario. Che non lascia le cose come stanno. Che non lascia in pace nessuno. Così quando ieri il Papa si è sof­fermato sul fatto che non si può dire che mentire o rubare è umano, devono tre­mare i petti di tutti. Così quando ha detto che invece è veramente umano l’essere generosi, devono tremarci i polsi in que­sta società dove la generosità sembra per­dere terreno in favore del bieco e a volte scorretto tornaconto. Il Papa non ha det­to: rubare non è legale. Sarebbe stato trop­po poco. E troppo comodo, in un certo senso. Ha detto: non è umano. Ha detto ben di più. E ha usato la parola 'pecca­to'. Che è come dire la ferita più dura. L’orrendo. E’ un peccato di disumanità. E ha detto ai suoi: chiamatelo con il suo no­me. Non dite che rubare è umano. No, è disumano.

Perché invece la generosità è veramente umana, la ricerca della giustizia è vera­mente umana. E lo sappiamo, se lasciamo parlare un poco la nostra esperienza lo sappiamo: avvertiamo molto più com­piuta la nostra vita quando è generosa, quando sa donarsi, di quando ricaviamo per noi stessi gioie rubate. La compassio­ne, il farsi vicino all’uomo come è, segna­to dal peccato, significa ricordare sempre cosa è l’uomo veramente. Cosa lo rende veramente tale. Cioè dove sta la sua vera soddisfazione.

Ha osato per questo, il Papa, soffermarsi sulla parola più temuta della nostra epo­ca: la parola obbedienza. La parola riget­tata da tutti come fonte di alienazione, di­ce, è invece la descrizione della esperien­za che conforma il nostro essere a ciò che è più suo, più adeguato a noi. Per questo l’obbedienza è una forma della libertà. Poi­ché ascoltando Dio, si ascolta il bene del­la natura del nostro essere più profondo.

Parlando ai suoi preti, il Papa vescovo di Roma, non ha girato intorno ai problemi. Ha descritto un clero appassionato alla vi­ta degli uomini. Che non si fa dettare le categorie di giudizio e di pensiero sulla vi­ta da altro che non sia il Vangelo. E perciò sa essere dalla parte della persona sem­pre. Parlava ai suoi, il Papa. Ma poiché la sua è l’unica leadership mondiale che si fonda sull’essere servo, parlava in un cer­to senso come servizio a tutti. E infatti so­no parole che, in mezzo al troppo chiac­chierume anche di queste settimane, ser­vono veramente.

Da “Avvenire” di venerdì 19 febbraio 2010

«Gli aborti? Diminuirebbero del 90% se ci fossero più aiuti economici»

Basterebbero 4 mila euro per seguire e aiutare una donna per 18 mesi durante e dopo la gravidanza, e per scongiurare che scelga di abortire a causa di difficoltà economiche. Eppure questi soldi non ci sono: ed è una situazione che incute inquietudine e disagio ai volontari del Centro per l'aiuto alla vita (CAV) della Clinica Mangiagalli di Milano, soprattutto perché dicono, "se aiutate seriamente,8-9 donne su 10 non vanno più ad abortire". "Queste donne devono essere aiutate - spiega Paola Marozzi Bonzi, fondatrice e direttrice del CAV - perché noi non siamo più in grado di farlo. Noi incontriamo ogni mese circa 70 donne entro il primo trimestre di gravidanza che stanno pensando di abortire, e circa tre quarti di queste hanno bisogno di aiuti anche economici, che noi non riusciamo più a dare".

Attualmente, al CAV "abbiamo in carico circa 800 famiglie, a cui regaliamo pannolini, latte, cibo. L'anno scorso abbiamo speso 800 mila euro solo per gli aiuti economici". Per questo Bonzi lancia un appello a Regione, Provincia e Comune perché li sostenga economicamente: "Ci vorrebbero almeno 3 milioni di euro l'anno, noi possiamo garantirne solo uno. Gli altri due dove andiamo a prenderli? Basterebbero circa 4 mila euro per ogni mamma, per seguirla in 18 mesi di aiuti, anche solo sotto forma di buoni acquisto. È assurdo che per questi 4 mila euro ci sono bambini che non nascono". Il Centro di aiuto alla vita ha incontrato e aiutato nel solo 2009 circa 2.200 donne. Ora si trovano nell'impossibilità di sostenere economicamente le prossime che arriveranno:"Vorremmo aiutarle - conclude Bonzi - ma stiamo male all'idea di non poterlo fare solo perchè le casse sono vuote".

Da “Avvenire” di martedì 16 febbraio 2010

IL PD E IL PROGRESSIVO DISTACCO DEGLI ESPONENTI CATTOLICI

LA STRANA SUFFICIENZA DEL «PARTITO DEL SECOLO» SERGIO SOAVE


La sofferta decisione di Paola Binetti di lasciare il Partito democratico per aderire all’UdC ha suscitato freddi commenti burocratici nel vertice e un irrefrenabile moto di soddisfazione nei settori più laicisti di quel partito. Com’è noto Binetti aveva più volte chiesto che il carattere pluralistico e accogliente del PD venisse effettivamente espresso nelle scelte politiche concrete, ma la sua richiesta è stata ignorata anche nel momento di massimo dissenso, quello originato dall’accodamento dei democratici all’autocandidatura della leader radicale Emma Bonino alla guida della regione Lazio.

Lo stillicidio di personalità di cultura cattolica che abbandonano il PD ormai rappresenta un elemento permanente del nostro panorama politico, che ha nella scelta di Paola Binetti l’ultima – nel senso di più recente – conferma. Il fatto che questo fatto non venga considerato un problema ai piani alti del partito, con Pierluigi Bersani che, dopo aver espresso il suo dolore di circostanza, parla di nuove acquisizioni che faranno del suo, addirittura, «il partito del secolo», è piuttosto sorprendente.

Da quando è stato progettato nei congressi paralleli dei DS e della Margherita, il Partito democratico ha già subito altri abbandoni o secessioni preventive. In quei casi, come la scissione promossa da Fabio Mussi e altri esponenti della sinistra dei DS, nessuno espresse giubilo, nemmeno tra le file della Margherita. Al contrario, parve grave che nella fase di costruzione di un contenitore pluralista, come sono in sostanza tutti i grandi partiti occidentali, venisse meno una componente, per quanto collocata su posizioni piuttosto eccentriche rispetto all’asse riformista dato come fondamentale. Nei confronti, invece della secessione di esponenti moderati o cattolici, già più di una mezza dozzina solo tra i parlamentari, pare si riscontri, nel migliore dei casi, un disinteresse colmo di sufficienza. A questo si aggiunge un diffuso dileggio incomprensibile (o fin troppo comprensibile...) nei confronti dell’Opus Dei, ai funerali del cui fondatore avevano invece partecipato con rispetto e commozione esponenti della sinistra, dal leader storico Massimo D’Alema a Cesare Salvi, riferimento dell’area più legata al radicamento 'socialista' dei DS.

Quella che Binetti denuncia come «deriva zapaterista», anche se forse non coinvolge l’intero partito, si presenta come una tendenza rilevante e forse prevalente nel Partito democratico, che ovviamente non esclude gli apporti cattolici, ma rifiuta di fatto una loro pari dignità che può essere garantita solo dal limpido e pieno rispetto della libertà di coscienza nelle scelte che hanno un oggettivo rilievo etico. C’è chi pensa che in questo modo si realizza un progetto strategico attribuito a Bersani, quello di lasciare fuori dal partito i settori moderati e cattolici, per poi recuperarli 'dall’esterno' con un’alleanza organica con l’UdC.

Però è proprio sul terreno delle alleanze che si sono determinate le condizioni per l’abbandono di Binetti e di altri. Una tattica studiata a tavolino, che pensa di poter spostare le truppe come in un gioco di soldatini di piombo, trascura la soggettività delle scelte politiche, che è poi il connotato fondamentale della libertà in generale e dell’agibilità effettiva di una formazione che si autodefinisce come presidio fondamentale della democrazia.


Da “Avvenire” di domenica 14 febbraio 2010

Una nota dottrinale del presule richiama il valore del matrimonio tra uomo e donna

«NO ALLE NOZZE GAY NON SI DICA CATTOLICO CHI LE PROMUOVE»

Il cardinale Caffarra sottolinea le responsabilità anche di chi dovesse attuare una tale legge

DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI

È’ impossibile ritenersi cat­tolici se in un modo o nel­l’altro si riconosce il dirit­to al matrimonio fra persone dello stesso sesso ».

È chiarissimo il cardi­nale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bo­logna, in una nota dottrinale dal tito­lo “Matrimonio e unioni omosessua­li” che intende illuminare «quei cre­denti cattolici che hanno responsabi­lità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smen­tirebbero la loro appar­tenenza alla Chiesa». Il segno di una crescente «disistima intellettuale» nei confronti del matri­monio, afferma Caffar­ra « è il fatto che in al­cuni Stati è concesso, o si intende concedere, riconoscimento legale alle unioni omosessuali equiparan­dole all’unione legittima fra uomo e donna, includendo anche l’abilitazione all’adozione dei figli » . A prescin­dere dal numero di coppie che voles­sero usufruire di questo riconosci­mento - fosse anche una sola! - una tale equiparazione, osserva il cardi­nale «costituirebbe una grave ferita al bene comune » . Essa, continua Caffarra «avrebbe il significato di dichia­rare la neutralità dello Stato di fronte a due modi di vivere la sessualità, che non sono in realtà ugualmente rile­vanti per il bene comune. Mentre l’u­nione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene - non solo bio­logico! - della procreazione e della so­pravvivenza della specie umana, l’u­nione omosessuale è privata in se stes­sa della capacità di generare nuove vi­te» E neppure le possibilità delle nuo­ve tecniche artificiali di riproduzio­ne «mutano sostanzialmente l’inade­guatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita».

Per non parlare dei figli: « L’assenza della bipolarità ses­suale può creare seri ostacoli allo svi­luppo del bambino eventualmente a­dottato ». L’equipara­zione, insiste il cardinale avrebbe « una conseguenza che non esito definire deva­stante. Significhereb­be che il legame della sessualità al compito procreativo ed educa­tivo, è un fatto che non interessa lo Stato, poi­ché esso non ha rile­vanza per il bene co­mune ».

E con ciò, commenta Caffarra «crolle­rebbe uno dei pilastri dei nostri ordi­namenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico.

Un pilastro già rico­nosciuto non solo dalla nostra Costi­tuzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti».

L’arcivescovo smentisce anche che co­sì facendo ci si troverebbe di fronte a una discriminazione. «Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né posso­no essere matrimoniali, non è discri­minazione ma semplicemente rico­noscere le cose come stanno » . L’ob­bligo dello Stato di non equiparare na­sce dalla considerazione, ricorda il cardinale « che in ordine al bene co­mune il matrimonio ha una rilevanza diversa dall’unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruo­lo di garantire l’ordine delle genera­zioni e sono quindi di eminente inte­resse pubblico. Non svolgendo un ta­le ruolo le coppie omosessuali non e­sigono un uguale riconoscimento».

Il cardinale si rivolge inoltre ai credenti che hanno responsabilità pubbliche. « È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra u­nioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono» E se «la responsa­bilità più grave è di chi propone l’in­troduzione » di questa equiparazione, «o vota a favore in Parlamento di una tale legge», esiste anche la responsa­bilità «di chi dà attuazione ad una ta­le legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie».


Da “Avvenire” di domenica 14 febbraio 2010

PD, BERSANI APPOGGIA LE RICHIESTE DEGLI OMOSESSUALI

DA ROMA PIER LUIGI FORNARI

In piena campagna elet­torale per le regionali Pier Luigi Bersani sposa integralmente le tesi del mo­vimento degli omosessuali, partecipando al congresso dell’Arcigay in corso a Peru­gia. Accetta senza riserve la identificazione tra l’ugua­glianza sancita dall’articolo 3 della Costituzione e le ri­vendicazioni gay. Quella norma, afferma il segretario del PD, «ha un risvolto so­ciale e sui diritti». «Sono qui per testimoniare questo», di­ce equiparando le difficoltà sociali ai problemi che pon­gono le richieste omosessuali.

«Bisogna reagire sul piano culturale, sul piano politico, sul piano legislati­vo », rincara il leader dei De­mocratici, ripetendo argo­menti usati dalle lobby gay per aprirsi la strada all’ado­zione: «Nessuno di quei bambini che anche in Italia già vivono con coppie di genitori omosessuali si dovrà mai sentire discriminato». Sfodera una certa cono­scenza del linguaggio reli­gioso per sostenere che «se lo Stato non regola la mate­ria delle coppie di fatto, commette un peccato di o­missione ». Suona ambiguo anche il riferimento al fatto che «il nostro Paese comun­que è in Europa» a proposi­to dei prossimi pronuncia­menti della Consulta sui matrimoni gay. Bersani solleci­ta infine l’iter di una propo­sta di legge che dovrebbe combattere la cosiddetta 'o­mofobia', introducendo profonde modifiche nel no­stro ordinamento.

In Emilia-Romagna Gian Luca Galletti, candidato del­l’UdC, assicura che il suo par­tito andrà da solo fino al 28 marzo, poi si vedrà. Naviga­ta in solitario per i centristi anche in Veneto con Anto­nio De Poli, convinto che la partita sarà tra lui ed il le­ghista Luca Zaia per il Pdl, perché Giuseppe Bortolussi ed il centrosinistra «non san­no più nemmeno dove stan­no di casa, sul tema del Ve­neto, della sua identità, dei suoi valori». «Non sono qui per testimoniare o per par­tecipare, sono qui per vin­cere », ribatte Bortolussi. Mercedes Bresso, alla ricer­ca di un altro mandato per il PD in Piemonte, annuncia che intende approvare una legge ad hoc per la famiglia: c’è da augurarsi che non sia influenzata da un big del PD, come il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino che il 27 febbraio vuole dare un se­gnale politico partecipando ad un simbolico matrimo­nio tra due donne.

Per quanto riguarda il Lazio il quotidiano di area PD 'Eu­ropa' in un fondo di prima pagina sostiene che Emma Bonino «sta prendendo la direzione giusta».

La lista in­titolata a lei e a Marco Pan­nella ieri ha organizzato a Milano un convegno sulla Cannabis con consigli sull’autocoltivazione.


Dal presidente del Comitato scientifico delle «Settimane sociali» l’invito a difendere i valori che contano e a non ingrossare il partito dell’astensionismo

«Etica e solidarietà? Nessuna dicotomia»
Il vescovo Miglio sui candidati alle prossime elezioni: certe storie personali inconciliabili con i principi cristiani

DA ROMA MIMMO MUOLO

Per prima cosa prendere sul serio le e­lezioni. «Non bisogna ingrossare il partito dell’astensionismo». Quindi scegliere accuratamente i candidati da vo­tare. «Certe militanze e storie personali so­no inconciliabili con i principi cristiani». In­fine non cadere nel tranello della presunta dicotomia tra etica e solidarietà. «I principi sono un insieme. Non si possono dividere». Sono i tre semplici criteri che monsignor Ar­rigo Miglio indica a chi si appresta a votare alle elezioni regionali. Il vescovo di Ivrea, presidente del Comitato scientifico e organiz­zatore delle Settimane sociali, spiega: «Pren­dere sul serio le elezioni significa informarsi, seguire i dibattiti, rendersi conto della per­sonalità e della storia personale dei candi­dati. In definitiva il voto va preparato atten­tamente, tenendo presente il criterio del be­ne comune, cioè il bene di tutto l’uomo, di ogni uomo e di ogni donna in tutte le sue di­mensioni ».

Come ritrovare il bene comune nei singoli programmi?

In elezioni regionali e locali come queste, te­niamo d’occhio gli eventi che vengono pro­mossi sul territorio, poiché sono indicativi della cultura di riferimento. Al momento del­la scelta elettorale siamo chiamati a far fun­zionare la ragione, a portare le ragioni per difendere i valori umani e cristiani e tradur­re in argomentazioni ragionevoli i nostri principi.

Lei accennava anche alle storie personali dei candidati. Qualcuno dice che sono più importanti i programmi. È d’accordo?

È la stessa storia dello spartito e del suona­tore. Se il musicista stecca, anche lo sparti­to più bello finisce per diventare poco gradevole. Fuori di metafora, è bene che ci sia­no programmi validi, chiari e verificabili. Ma è altrettanto importante, se non di più, che vi siano persone affidabili chiamate a met­terli in opera. Da questo punto di vista le sto­rie personali sono un’ipoteca molto pesan­te.
Dunque non tutte le storie personali sono conciliabili con la fede cri­stiana.

A meno che non vi siano se­gni reali di cambiamento, le storie personali dei candida­ti non possono essere igno­rate al momento del voto. Specie di fronte a certe mili­tanze assolutamente non condivisibili da parte di noi cristiani. Oggi poi si sente il bisogno di un rinnovamento generazionale, poiché molte storie personali di candidati sono legate a visioni dell’uo­mo decisamente obsolete. Ritengo sia venuto il mo­mento di chiedersi se, ad e­sempio, una certa cultura di tipo radicale e libertario abbia portato l’Europa a essere gio­vane o a invecchiare, a dare speranza di vita o a causare l’inverno demografico, a creare posti di lavoro per i giovani o a moltiplicare il precariato. Penso che le risposte siano sot­to gli occhi di tutti.

Lei ha messo in relazione istanze etiche e sociali. Eppure c’è chi vede l’impegno per la bioetica in contrapposizione a quello per la solidarietà. Non ritiene che si tratti di un fal­so problema?

Il Papa l’ha chiamata una dicotomia nefa­sta. Una simile visione non considera la ri­caduta sociale e anche economica dei principi cosiddetti etici. E viceversa non consi­dera la dimensione etica dei principi socia­li. Ci sono vari passaggi della Caritas in veri­tate (ad esempio al numero 51) che metto­no in rapporto ecologia ambientale e uma­na. I principi, infatti, sono un insieme. Trascurato uno, si indeboliscono tutti gli altri. Del resto possiamo anche fare delle verifi­che in base all’esperienza di tutti i giorni. Quali costi ha per il Paese la crisi della fami­glia? E le derive etiche dell’Europa e dell’Oc­cidente non hanno nessuna relazione con la crisi economica in cui siamo caduti? O an­cora, la fame nel mondo non dipende da in­giustizie colossali e purtroppo consolidate? Ecco perché occorre una visione che tenga insieme solidarietà ed etica.


Centro Culturale “Il Seme” e Parrocchia di Piangipane Ravenna

“Il Volto dell’amore”

Incontro sulla Sindone

interverrà Don Giandomenico Tamiozzo

(sindonologo – Diocesi di Vicenza)

VENERDI’ 26 FEBBRAIO 2010

Ore 20,30 CHIESA di PIANGIPANE