sabato 13 febbraio 2010

13/02/2010 PORTAPAROLA

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Da “Avvenire” di venerdì 12 febbraio 2010
Il Papa: i sofferenti persone da accogliere
Giornata mondiale del malato: «Pastorale della salute, bene prezioso per la Chiesa»

DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
« Promuovere un mondo più capace di accogliere e curare i malati come persone». Per contribuire a questo o­biettivo la Santa Sede ha istituito un Pontificio Consiglio dedicato alla pa­storale della salute. Lo ha ricordato Benedetto XVI nell’omelia pronun­ciata ieri nel corso della Messa cele­brata nella Basilica di San Pietro in oc­casione dalla XVIII Giornata mondia­le del malato. Che quest’anno cade nel venticinquesimo anniversario dall’istituzione dell’organismo vati- cano creato l’11 febbraio del 1985 al­lo scopo di valorizzare l’interesse del­la Chiesa per l’uomo che soffre, i gran­di progressi realizzati dalla medicina e la necessità di coordinare tutti gli or­ganismi dediti al mondo della salute. Il Papa ha ringraziato quanti in que­sto quarto di secolo si sono spesi in ta­le compito.
A partire dai presidenti del dicastero: l’attuale, monsignor Zygmunt Zi­mowski e i predecessori, i cardinali Ja­vier Lozano Barragan e Fiorenzo Angelini, primo a ricoprire l’incarico. Alla liturgia han­no partecipato, in particolare, opera­tori sanitari, volontari, aderenti ai so­dalizi che organizzano pellegrinaggi ai santuari mariani – come l’Unitalsi e l’Opera romana pellegrinaggi –, per­sone sofferenti, molte delle quali in carrozzella, insieme con i familiari. Al rito era presente anche il ministro del­la Salute, Ferruccio Fazio. Prima del­la Messa, una piccola processione, formata soprattutto da pellegrini e malati dell’Unitalsi, ha percorso via della Conciliazione ed ha raggiunto la Basilica vaticana. A risaltare nella liturgia di ieri – memoria della Vergi­ne di Lourdes – il Magnificat, ha sot­tolineato il Pontefice. Preghiera che «non è il cantico di coloro ai quali ar­ride la fortuna, che hanno sempre il 'vento in poppa'». Piuttosto è «il rin­graziamento di chi conosce i drammi della vita, ma confida nell’opera re­dentrice di Dio».
Drammi sui quali si sono chinati molti santi: da Camillo de Lellis e Gio­vanni di Dio, a Damiano de Veuster, l’apostolo dei lebbrosi e Benedetto Menni. Malati e sofferenti – ha proseguito Ratzinger – nella Chiesa non sono solo « destinatari di attenzione e di cura, ma prima ancora e soprat­tutto protagonisti del pellegrinag­gio della fede e della speranza, te­stimoni dei prodigi dell’amore, della gioia pasquale che fiorisce dalla croce dalla risurrezione di Cristo » . Un discorso di speranza che in conclusione il Papa ha este­so alla società, citando la Spe Sal­vi « La misura dell’umanità si de­termina essenzialmente nel rap­porto con la sofferenza e il soffe­rente. Questo vale per il singolo co­me per la società » .

www.unitalsi.info
SOTTOSEZIONE DI RAVENNA
via Port'Aurea 8 Ravenna 0544-38170
Quella dell’Unitalsi è una “storia di servizio” che dal 1903, anno della sua fondazione, si è sempre alimentata del desiderio di essere uno “strumento” nelle mani di Dio, per portare la speranza dove c’è disperazione, un sorriso dove regna la tristezza.
È una missione semplice che si nutre del desiderio di vivere il Vangelo nella quotidianità, offrendo, ciascuno secondo le proprie possibilità, un contributo fondamentale per costruire una società dove ci sia spazio per la carità.
Questa è la nostra missione che si costruisce ogni giorno grazie all’impegno smisurato di quanti abbracciano il cuore della nostra associazione che, partendo dai pellegrinaggi, con l’aiuto della Provvidenza, ha realizzato una serie numerosa di progetti in grado di offrire risposte concrete ai bisogni di ammalati, disabili, persone in difficoltà.
Vogliamo essere uno strumento di “carità operativa” e di “carità creativa” nelle mani del Signore. Vogliamo condividere un impegno per costruire la speranza. I molteplici ’Progetti Unitalsi’ rappresentano una opportunità per quanti vogliono condividere con noi questa missione di carità, scegliendo l’ambito più vicino alla propria sensibilità e alle proprie attitudini.

Da “Avvenire” di venerdì 12 febbraio 2010
Vittorio Bachelet un coraggioso testimone
LIBRO E DVD
Un libro e un DVD per ricordare Vittorio Bachelet a trent'anni dal suo "martirio laico", come lo definì allora il cardinal Martini. Un testo ricco di fotografie e un documentario di 24 minuti, realizzato da Giovanni Panozzo, con immagini e testimonianze inedite sulla figura del presidente dell'Azione Cattolica del Concilio e vicepresidente del CSM ucciso nel 1980 dalle Brigate rosse.
"La vicenda umana e la testimonianza credente di Vittorio Bachelet ci interpellano come cittadini e come cristiani; si può, anzi, affermare con certezza che la ricchezza di quel che egli ci ha lasciato rimane davanti a noi come una responsabilità grande, che sta a noi non sprecare", ha scritto il presidente dell'Ac, Franco Miano, nella presentazione del volume.
Il libro contiene una biografia di Bachelet corredata da molte fotografie, alcune pubblicate per la prima volta, e una breve antologia di alcuni suoi significativi scritti.

13 febbraio 1980
Sette proiettili per il professore di GIAMPAOLO PANSA
ROMA - Nell'atrio della facoltà di Scienze politiche, in quell'angolo, accanto alla grande porta vetrata, c'è un lenzuolo di tela grossa, e sotto il lenzuolo qualcosa che da lontano sembra un fagotto o un animale abbattuto. Poi ti avvicini e vedi che il lenzuolo ha lasciato scoperta la fronte di un uomo, e con la fronte un ciuffo di capelli grigi e un paio di occhiali dalle lenti spezzate. Da sotto il telo esce un rivolo di sangue, un rivolo brillante nel sole, mentre la vetrata chiusa rimbomba per il tam-tam dei fotografi che gridano furiosi: "Fatece entrà!".
Tutto ciò che resta di Vittorio Bachelet, 54 anni ancora da compiere, ucciso ieri mattina dieci minuti prima di mezzogiorno nella città universitaria di Roma, da quella banda di macellai che si firmano Brigate rosse. Bachelet insegnava in questo ateneo Diritto amministrativo, ma era soprattutto il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura che ha come presidente Pertini. Un uomo, dunque di prima fila della nostra democrazia, e anche un insegnante e un padre di famiglia. Adesso di lui rimane soltanto quel corpo sotto il lenzuolo, circondato dai bossoli dei proiettili che gli hanno dato la morte. Sette proiettili che gli hanno dato la morte. Sette proiettili calibro 32 Winchester per un altro assassinio politico, il più grave dopo il delitto Moro.
Proprio dall'aula intitolata a Moro, l'aula 11 di Scienze politiche, comincia l'ultima giornata del professor Bachelet. Attorno a lui, vittima inconsapevole, c'è una scenografia perfetta. Sembra costruita apposta per un film politico da concludere nel sangue. Un sole splendido di primavera. I pini marittimi. I marmi fascisti dello Studium Urbis. Le pompose scritte in latino. "Iustitia omnium est domina et regina virtutum".
Bachelet varca i cancelli dell'ateneo pocodopo le 10 del mattino. Ha la sua solita andatura tranquilla, da uomo alto, corpulento, le lenti da miope, l'espressione mite e un po' distratta. Per lui è un giorno di lavoro come un altro. (...)
La lezione non ha storia. Alle 11,30 tutto è finito e Bachelet se ne va. L'aula "Moro" è al pianterreno di Scienze politiche. Il professore comincia a salire lentamente lo scalone che lo porterà al grande atrio rialzato, quello della vetrata, invaso da un bel sole caldo. Accanto a lui c'è la sua assistente, la professoressa Bindi. Dietro, un paio di allievi, poi altri giovani.
Sono le 11 e 50 e Bachelet mette il piede sull'ultimo gradino della scala. Conversa con la Bindi e non fa caso ad una giovane donna. Costei sta proprio al centro della vetrata, anzi la tiene socchiusa per metà. Ad un tratto, la sconosciuta si fa avanti. Raggiunge Bachelet alle spalle. Lo afferra con una mano e lo costringe a voltarsi. Partono i primi tre colpi di pistola, tutti al ventre del professore, a canna quasi schiacciata contro la vittima.
La dottoressa Bindi urla, mentre la giovane donna arretra velocemente. Allora si fa avanti un uomo. Giovanissimo, poco più di un ragazzo. Impugna anch'egli una pistola. Il killer si china su Bachelet e gli spara qualche altro proiettile. Uno è diretto alla nuca ed è il colpo di grazia.
Da questo istante tutto si confonde. Bachelet rantola accanto alla vetrata. Attorno a lui si agitano decine di studenti che renderanno poi testimonianze contraddittorie. Qualcuno sostiene: "Il ragazzo terrorista camminava alle spalle di Bachelet e aveva addirittura seguito la sua lezione". Un altro dirà di aver sentito gridare: "Ci sono delle bombe, scappate, scappate!".
Nel cortile di Scienze politiche c'è il caos. Adesso molti fuggono davvero, gridando. I killer ripiegano con calma e vengono raccolti su di un'auto "A 112" che se ne va dal cancello di viale Regina Elena. Una uscita secondaria protetta da una catena che poi verrà scoperta tranciata.
Una cosa è certa: gli assassini hanno agito con straordinaria freddezza. (...) Suona il mezzogiorno. Il cadavere del professore è in quell'angolo accanto alla vetrata, non ancora coperto dal lenzuolo. I cancelli della città universitaria vengono chiusi, ma ormai è troppo tardi: chi doveva fuggire, è fuggito. Lo Studium Urbis è preso d'assalto dalle Alfette blu in servizio di Stato.
Per primo arriva Pertini e passa impietrito al centro di quella marea di giovani che, ad un tratto, lo applaudono con furia, commossi, quasi disperati. (...) Noi siamo sullo scalone d'ingresso, dietro la vetrata chiusa. Fotografi e cronisti tempestano per entrare. Un momento difficile da dimenticare. Qualcuno piange. E c'è chi dice, angosciato: "Questo è un avvertimento diretto a Pertini, la risposta al discorso di Marghera".
Passa il ministro dell'Interno, Rognoni. Passa, stravolta, la figlia di Bachelet, Maria Grazia. La moglie del professore, Maria Teresa, viene fatta entrare da un altro ingresso. Si china sgomenta su quel corpo. Piange. Accarezza il viso del marito ucciso. Poi c'è un lungo parlare fra le due donne, un brusio sommesso e straziante nel grande silenzio dell'atrio.
Fuori, tra la folla, accorrono i colleghi di Bachelet.(...) Un bersaglio persino troppo facile, nella babele dello Studium Urbis. E in questa babele arriva anche Fanfani, vecchio amico di Bachelet. Sosta terreo dinanzi al cadavere, poi viene ospitato nell'Istituto di studi economici. Forse non si accorge che la targa d'ingresso è stata corretta con la vernice in "stupri economici".
(...) Lo sguardo della signora poi si fissa su Lama che vien su con Marianetti, Trentin e Giovannini. Ecco una vendetta della storia. Cacciato dai violenti nel febbraio del 1977, adesso Lama torna in questa università per inchinarsi davanti ad un altro dei tanti, troppi morti di violenza. (...)
Alle 14,33, un'altra voce, una voce da burocrate della morte, detterà al nostro giornale questo annuncio: "Ascoltatemi bene. Qui Brigate rosse. Bachelet l'abbiamo giustiziato noi. Presto seguirà comunicato".
(13 febbraio 1980)

Da “E’ Vita” supplemento di “Avvenire” di giovedì 11 febbraio 2010
«Gli stati vegetativi ora possono risponderci» di Viviana Daloiso
Parla il neurologo inglese Owen, che insieme al belga Laureys ha pubblicato le sorprendenti scoperte scientifiche sui pazienti come Eluana: «Il prossimo obiettivo? Farli comunicare»
E’ l’autore, insieme al belga Steven Laureys e a un altro manipolo di giovani ricercatori, della scoperta scientifica destinata a rivoluzionare il campo delle neuroscienze. Eppure Adrian Owen, il guru di Cambridge che per la prima volta nel 2006 scoprì in una ragazza vegetativa tracce evidenti di coscienza, è già più avanti della sua ultima sensazionale scoperta, pubblicata sul New England Journal of Medicine . Perché le diagnosi corrette non bastano: per i pazienti in stato vegetativo bisogna fare ancora di più.
Professor Owen, già nel 2006 aveva fatto scalpore il suo esperimento condotto con una paziente in stato vegetativo che dimo­strava di essere in grado di attivare le aree motorie del cervello e giocare, mentalmen­te, un partita di tennis. Quali passi avanti avete compiuto con i pazienti monitorati nello studio apparso sul «New England Journal of medicine»?
«Nel 2006 era la prima volta in assoluto che si riscontrava attività cerebrale volontaria in un paziente in stato vegetativo. Era, per intendersi, il primo risultato, e non avevamo alcuna certezza che potesse ripetersi. Ora sappiamo che non è così. Inoltre abbiamo fatto passi da gigante dal punto di vista degli strumenti impiegati nel campo dei disordini di coscienza: allora scoprimmo tracce di coscienza nella paziente solo dopo molte settimane dall’esame nello scanner, e dopo l’analisi di migliaia di dati. Oggi possiamo vedere che un paziente in stato vegetativo è cosciente mentre è nello scanner: in presa diretta, insomma. E poi, c’è l’aspetto più importante».
Quale?
«Nel 2006 il test sulla nostra paziente dimostrò che era cosciente rispetto alle domande che le facevamo. Oggi uno dei pazienti su cui abbiamo imperniato la nostra ricerca è stato in grado non solo di 'attivarsi' davanti alle domande ma anche di rispondere 'sì' e 'no'. Questo è davvero straordinario».
Come definirebbe un paziente in 'stato vegetativo' oggi? È ancora appropriato uti­lizzare questo termine o è cambiato qual­cosa? «Non sono cambiati i pazienti, né il loro stato: semplicemente è cambiato quello che noi sappiamo. Ora possediamo una tecnica attraverso cui possiamo identificare lo stato reale dei pazienti che appaiono vegetativi, da fuori, ma che non lo sono affatto. Questo non significa che non ci siano più pazienti vegetativi, o che tutti i pazienti in questo stato siano coscienti. Non credo che sia tanto importante cambiare la definizione, ma applicare questa tecnica a tutti i pazienti con traumi cerebrali e sapere in che stato sono davvero. Solo così non sbaglieremo più diagnosi, vedendo stati vegetativi là dove invece c’è coscienza».
Sembra però difficile scardinare questa e­quivalenza: vegetativi, ergo vegetali. Qual­cuno la chiama l’'etichetta' dello
stato ve­getativo: una volta che viene messa, è im­possibile toglierla da un paziente...
«Quello che il mio team a Cambridge e quello di Laureys a Liegi facciamo è 'scienza' nel senso proprio del termine, e la scienza – si sa – ha bisogno di tempo per essere assimilata dalla pratica clinica. Al momento i nostri protocolli non vengono applicati in tutti gli ospedali: alle famiglie di questi pazienti, però, dobbiamo delle risposte, e al più presto. Mi sento di dire che devono essere fiduciose: stiamo facendo il possibile per diffondere le nostre scoperte e sono certo che nel giro di poco raggiungeranno il maggior numero di persone possibile».
Che dire delle diagnosi errate? Il numero è impressionante: si stima che vengano con­siderati erroneamente stati vegetativi il 41% dei pazienti che presentano disordini di coscienza.
«Vero. Per fortuna, grazie al nostro protocollo, le cose potranno cambiare».
Lei guarda ai pazienti in stato vegetativo come un neuroscienziato, in primis. Ma cosa può dire dell’aspetto umano del suo lavoro? Come si sente quando scopre che in un paziente considerato in stato vegeta­tivo ci sono tracce evidenti di coscienza? «Io sono uno scienziato, il mio lavoro è cercare, non smettere di tentare. Da scienziato devo sforzarmi senza sosta di sviluppare strumenti innovativi per aiutare questi pazienti. Ecco tutto».
C’è una ragione particolare per cui ha de­dicato la sua vita a pazienti così 'diffici­li'?
«Ho sempre considerato la condizione dello stato vegetativo come una sfida. Cos’è la coscienza, come possiamo davvero sapere se una persona è conscia di quello che le accade intorno: queste sono domande che hanno diviso e acceso il dibattito filosofico per secoli. Qui in laboratorio, e in ospedale, noi abbiamo vite vere che possono risponderci, e io credo sia fondamentale che ogni giorno la scienza si sforzi di rispondere a queste domande. Cosa può essere più interessante?».
Quali saranno i prossimi passi nel campo delle vostre ricerche?
«Spero che arriveremo a creare dei criteri diagnostici precisi, definitivi e condivisi da tutta la comunità scientifica e medica. La risonanza magnetica funzionale, con cui 'troviamo' tracce di coscienza in questi pazienti, è uno strumento ormai presente dappertutto e può essere impiegato ovunque, su tutti i pazienti. In particolare, spero che presto potremo dare la possibilità a queste persone di comunicare con l’esterno grazie a interfacce cervello­computer, relativamente economiche, trasportabili e non-invasive». Parliamo di un futuro remoto?
«Al contrario. Io credo, e potrei assicurare, che ci arriveremo in dieci anni».

Da “Avvenire” di venerdì 12 febbraio 2010
«Mai soli davanti al piccolo schermo»
Lo psicologo pediatra Biondi: pericoloso l’apparecchio in camera, così come lasciarli per ore a guardare i cartoni E i tanti stimoli televisivi non migliorano l’apprendimento
«La fascia protetta non è un’area in cui un genitore si può fida­re di lasciare i bambini davan­ti alla tv e non è più accettabile che le emittenti, per paura di perdere l’audience degli adulti, sottovalutino questa situazione. I rischi sono trop­po alti». A parlare è Gianni Biondi, di­rettore del Servizio di psicologia pe­diatrica dell’ospedale Bambino Ge­sù. Alla presentazione del consunti­vo 2009 del Comitato tv e minori ha portato i dati di uno studio diretto sugli effetti dell’esposizione alla tv sui bambini da zero a cinque anni, arricchito da un’importante biblio­grafia internazionale.
In quella fascia d’età trascorrere mol­to tempo davanti alla tv incide sui comportamenti dei bambini indi­pendentemente dalla qualità dei programmi. «La tv in camera, per e­sempio – afferma Biondi –, è perni­ciosa, così come lasciare i bambini a vedere cartoni, così stanno buoni. In questo modo consumano ali- menti sbagliati, non giocano, non sperimentano, non accrescono i loro interessi. Non è vero che la visio­ne precoce di dvd migliora la capa­cità cognitiva. Semmai è il contra­rio. Si assiste anzi a una sovrapposi­zione fra realtà e finzione. Non è ve­ro che i tanti stimoli televisivi mi­gliorano l’apprendimento. Perché ciò accada, serve che gli stimoli sia­no mediati da una persona di fidu­cia del bambino». Lo studio elenca i possibili danni causati da una simile visione della tv: riduzione dell’attività motoria; o­besità; ritardi nello sviluppo psico­motorio; alterazione dei ritmi del sonno, soprattutto quello pomeri­diano; ritardi nel linguaggio; pro­blemi di attenzione; scarsa predi­sposizione al gioco; difficoltà nella lettura; difficoltà nell’apprendimen­to della matematica; insicurezza; si­tuazioni di violenza inelaborata; for­me di passività e videodipendenza, che col crescere del bambino si tra­sferisce dai dvd, dalla tv a internet.
Situazioni che per certi versi si so­vrappongono all’ennesima denun­cia del Censis sulla rappresentazio­ne della donna nei media. Una re­centissima indagine presentata da Elisa Manna evidenzia come l’im­magine della donna intesa come gio­cattolo sessuale sia alla base, verifi­cata, di tante perversioni e devian­ze sessuali fra gli adolescenti, «che nelle trasmissioni, persino nei tg, vengono banalizzate, normalizzate, con danni, disorientamenti e gravi conseguenze» . L’aumento, per esempio, dei casi di prostituzione pre­coce e precocissima, citato da Man­na, è stato confermato « per espe­rienza diretta» da Biondi. (R. Zan.)


FESTA CARNEVALESCA
Martedì 16 febbraio ore 21
Piccolo Anfiteatro Banca Popolare Ravenna

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