sabato 30 gennaio 2010

30/1/2010 PortaParola Ravenna

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EMERGENZA HAITI

Offerte per HAITI
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specificando nella causale: Emergenza terremoto Haiti


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Da “Avvenire” di martedì 26 gennaio 2010

LE RESPONSABILITÀ DEI CREDENTI L’OPERA CIVILE PIÙ GRANDE

FRANCESCO D’AGOSTINO
Le feste natalizie appena trascorse danno alla prolusione con la quale il cardinal An­gelo Bagnasco ha aperto i lavori del Consiglio permanente della Conferenza episcopale ita­liana un forte carattere spirituale e pastorale. Non si pensi però che la memoria del Natale abbia indotto il presidente della Cei, e i ve­scovi riuniti con lui, ad allontanarsi dalla sof­ferta realtà di queste ultime settimane (con­trassegnate dal terremoto haitiano, dalle do­lorose vicende di Rosarno, dalle sciagure – e non solo ecologiche – che hanno colpito la Li­guria, la Toscana, la Sicilia): il Natale – si ri­marca con energia fin dall’inizio di questa pro­lusione – è un’occasione fondamentale per il cristiano per non estraniarsi dal mondo, per tenere sempre nella sua mente e nel suo spi­rito quello che è il cuore della sua fede, il fat­to che, in Gesù Cristo, Dio ha definitivamen­te rivelato la sua volontà di stare con l’uomo, di condividere la sua storia. Queste parole di Papa Benedetto, che il cardinal Bagnasco fa sue, servono a ribadire come la nostra sia u­na fede di incarnazione; una fede che esige un continuo confronto con il mondo. Chi la professa non può cedere alla tentazione del­l’indifferenza verso le cose, né è legittimato ad assumere verso i non credenti un atteg­giamento di freddezza. Nessuno deve sentir­si ignorato dalla Chiesa e di nessuno possia­mo dire che non ci interessa.
L’esortazione a inventare modalità nuove di attenzione verso coloro che non credono – co­sa non facile, ma indispensabile – viene rias­sunta dal cardinale col riferimento a uno dei compiti centrali del nostro tempo, quello del­la «riconciliazione»: un tema che precede ogni tema politico e ne costituisce nello stesso tem­po il fondamento. Riconciliarsi non significa solo fare il primo passo verso l’altro, ma (e an­che qui sono preziosi i diretti riferimenti alle parole del Papa) «assumersi la sofferenza che comporta la rinuncia al proprio aver ragione». Le ricadute di questo principio ci aiutano a mettere a fuoco l’unico modo corretto, per un cristiano, di pensare alla politica. Questa, che continua ad essere intesa da parte di un mal inteso realismo come l’ordine del potere, del­la forza, della persuasione delle masse, è piut­tosto l’ordine della solidarietà, della sussidia­rietà, della reciprocità. I successivi riferimen­ti che il cardinale fa ad alcune delle questioni più urgenti o più scottanti della società inter­nazionale e italiana (la questione ecologica e ambientale, quella bioetica, quella educativa, quella economico-sociale) acquistano una lo­ro corretta configurazione solo in questo qua­dro di riferimento.
Non si può elogiare la Chiesa, quando essa si batte per la salvaguardia dell’ambiente, quan­do chiede al mondo economico di farsi cari­co seriamente dei bisogni dei soggetti social­mente più deboli, angosciati dalla perdita del posto di lavoro o quando essa richiama l’at­tenzione di tutti sull’emergenza educativa che caratterizza il nostro tempo e non compren­dere le sue ragioni quando stigmatizza la ba­nalizzazione dell’aborto (l’unico autentico e­sito della pillola Ru486) o la frettolosa e ingiu­stificata «iniziativa dei registri», che in alcuni Comuni e in alcune Regioni è indice di inde­bite fughe in avanti, sulle delicatissime que­stioni del fine vita di timbro palesemente pro­eutanasico. Ancora una volta – e può forse es­sere la sintesi di questa prolusione – al centro dell’attenzione della Chiesa italiana c’è anche la sfera politica. Non però la politica pensata come equilibrio di forze, o peggio ancora co­me potere, secondo il tipico paradigma pro­prio dei laicisti, al di là del quale i laicisti non riescono a spingere lo sguardo. Il cardinal Ba­gnasco ci ha parlato di un’altra politica, ben più autentica e umana; la politica che, per citare una sua efficace espressione, è l’«opera civile più grande» che si possa porre in essere al ser­vizio degli altri. Un’opera che merita anche il «sogno» di una nuova generazione di cattoli­ci capaci di presenza e d’impegno.

Da “Avvenire” di mercoledì 27 gennaio 2010
OGGI LA GIORNATA DELLA MEMORIA
LASCIAMOCI FERIRE PER STARE SVEGLI PER RESTARE UOMINI
MARINA CORRADI
Sono le facce di 364 ebrei italiani finiti nei lager, u­na parte delle migliaia deportate in Germania. Dei 1.023 di Roma solo in diciassette ritornarono. Le ha messe on line il Centro di documentazione ebraica contemporanea (
www.cdec.it/voltidellamemoria), per la Giornata della memoria. E chi va su può restarci pa­recchio. È un attonito viaggio tra storia collettiva e privati ricordi, quello in cui cadi in questo allinearsi di volti dai nomi, dai sorrisi italiani. Uomini e donne, così uguali alle foto d’epoca di ogni altro nostro non­no. Qualcuno che di nome fa Vittorio Emanuele, o I­talo: nell’ingenuo patriottismo che almeno fino ai pri­mi anni del Ventennio aveva contagiato anche gli e­brei – certi, com’era ovvio, di essere italiani come gli altri. Ci sono donne e vecchi, in quell’elenco, di set­tant’anni, e più vecchi; ma accanto, inesorabile, la scritta: deportato a Auschwitz.
Ci sono giovani foto­grafati su una barca a vela, o ai bordi di un campo da tennis, in ancora spensierate estati. Proprio questa normalità serena da album di famiglia ha un impat­to da schiaffo su chi osserva. Non sono, questi, i vol­ti dei lager tramandati dai primi scatti dell’esercito a­mericano nel ’45, non sono i corpi scheletriti sotto la divisa da prigionieri, con le facce sca­vate di fantasmi. Questi sono borghesi, artigiani, famiglie lie­te e impettite davanti al foto­grafo, in un giorno di festa: mentre ti pare di immaginare, appena un attimo dopo lo scat­to, i bambini che corrono alla tavola imbandita. Proprio la normalità delle immagini ren­de ancora più lacerante la me­moria di ciò che è accaduto.
E poi, ci sono i bambini. Molti bambini. A nidiate, tre fratelli o quattro divisi da pochi anni. Come Fiorella, Anna, At­tilio, nati tra il ’37 e il ’41 a Roma, portati via dal Ghet­to. (Fiorella sembra una bambola, i nastri bianchi tra i capelli ricci). E la famiglia Sadun coi due ragazzini, ritratti al mare, in costume, in una giornata che si in­dovina di piena, felice estate. E Olimpia, infagottata e ridente nel freddo della sua Bolzano. E Carlo e Mas­simo, fratelli milanesi, il maggiore che abbraccia il più piccolo, neonato, con tenero orgoglio.
Questi non sono i ragazzini atterriti delle foto con la stella gialla sul petto e le mani in alto davanti ai sol­dati nazisti. Sono gli stessi, ma 'prima'. Bambini e ba­sta. Solo da Roma, ne deportarono 288 (ne tornò u­no solo). E non puoi non pensare come fu che li strap­parono ai parenti, li incolonnarono, e con quali rau­che grida straniere li fecero salire sui camion. Non puoi non pensare cosa fu, nel brutale tramestio del rastrellamento, staccarsi dal padre, e avvinghiarsi al­la mano di una sorella di poco più grande, che sus­surrava materna: non aver paura. Partire stringendo in mano un orsacchiotto, disperatamente, come un ultimo brandello di casa. Poi, su quei treni, non sap­piamo. Il film si ferma, l’immaginazione si oscura – forse perché non tolleriamo di sapere. Che le vedano i nostri figli, le facce di quei vecchi i­nermi, e di quei bambini. Che facciano questo dolo­roso sbalordito tuffo in una memoria che, se a noi pa­re lontana, è in realtà così breve: quei ragazzi anda­vano a scuola con i nostri genitori. 66 anni, nei mil­lenni della storia, sono un soffio. L’Olocausto – il cuo­re del male, il genocidio sistematico, scientifico, pia­nificato, taylorizzato in una maggiore efficienza – è sta­to appena ieri. Che sappiano, i figli. Che non siano troppo, ottusa­mente tranquilli. Girano voci su Internet e non solo che dicono che l’Olocausto è bugia e propaganda. Che non è vero. Che non è accaduto. In un vertice di menzogna, che vorrebbe annientare anche la me­moria. Che li guardino, i nostri ragazzi, quei bambi­ni. Che sussultino, riconoscendoli familiari. Che sia­no, dal loro destino, almeno per un momento feriti. Ci sono ferite necessarie, che occorre lasciare aperte. Occorre lasciarsi ferire e ricordare per stare svegli, per restare uomini.
www.cdec.it/voltidellamemoria


Da “Avvenire” di domenica 24 Gennaio 2010


BENEDETTO XVI CHIEDE AI SACERDOTI DI APRIRSI ALL’UMANITÀ « DIGITALE »
C’è Dio sul Web 2.0 FRANCESCO OGNIBENE

Saper riconoscere Dio che passa. È la millenaria competenza naturale della creatura umana, che nell’età moderna sembra però essersi offuscata fino a smarrirsi in questa nostra contemporaneità pulviscolare dentro il dedalo inesauribile delle opinioni.
Eppure, lo sappiamo: per quanto si adoperi, il clamore del mondo non riesce a spegnere la voce interiore che ci rende ancora distinguibile una Presenza sottesa ai segni della vita quotidiana. A istinto, Dio lo 'sentiamo': capiamo ancora che è Lui, per quanto insensibile o distratta sia diventata l’anima di ciascuno. Nessuna raffinata spiegazione scientifica, psicologica o economica riesce infatti da sola a dar conto di ciò che l’intelligenza coglie e registra, di offrire risposte all’altezza della nostra ricerca. Siamo 'capaci' di Dio ma è come se ce lo fossimo dimenticato, nello stordimento al quale siamo ormai consegnati. L’esplosione digitale dei mezzi di comunicazione, dei loro strumenti e messaggi, non fa altro che alzare il volume col quale dobbiamo convivere da abitatori della 'pubblica piazza' mediatizzata, condivisa con tutti. Un rumore di fondo che rende semmai più acuta quella nostalgia infinita del cuore colta da sant’Agostino. C’è un solo 'canale' che dà sempre il programma giusto, ma è necessario che qualcuno ci aiuti a captare la sua non facile frequenza. Basterebbe un prete, la figura che deve «aiutare gli uomini di oggi a scoprire il volto di Cristo». È sempre bastato, dentro qualsiasi cultura. E quando lo stordimento cresce la sua mano si fa ancor più necessaria.
È dunque ai sacerdoti – guide predestinate di una simile ricerca del 'Dio che passa' in ogni tempo – che Benedetto XVI ha pensato di dedicare il Messaggio 2010 per la Giornata mondiale delle comunicazioni, in calendario domenica 16 maggio. Una scelta in qualche modo annunciata nell’Anno Sacerdotale al quale il Papa sta riservando una cura magisteriale continua. Ma col testo diffuso ieri – e che oggi pubblichiamo a pagina 9 – il Santo Padre delinea per la prima volta i tratti di una inedita «pastorale nel mondo digitale», citata per ben due volte come il percorso necessario all’annuncio del Vangelo in quel territorio mediatico definito nel Messaggio 2009 come un vero «continente» brulicante di vita e in attesa di nuovi evangelizzatori. Anche 'giù nel cyberspazio' – per dirla con lo scrittore-futurologo William Gibson – Dio chiama apostoli evangelicamente saldi e mediaticamente credibili, i sacerdoti in primis: non 'occupatori' di una porzione di suolo – avverte il Papa – secondo una «mera esigenza di rendersi presente», ma «animatori di comunità che si esprimono ormai, sempre più spesso, attraverso le tante 'voci' scaturite dal mondo digitale». Se Dio oggi passa nel Web 2.0 e nella galassia multicanale della tv digitalizzata, i sacerdoti devono farsi carico della nuova ricerca che sgorga da navigazioni e consumi entrati nella struttura stessa dell’esistenza: quasi una loro componente essenziale, una dimensione nutrita da strumenti a loro volta trasformati in prolungamenti dei sensi, protesi indispensabili per connettersi al prossimo. Altro che sfizi per tecno-maniaci: computer, cellulare e televisore rivisitati dalla tecnologia digitale hanno il volto amichevole del compagno di viaggio quotidiano, e chi ha anime affidate alla propria cura deve conoscere le mediazioni per le quali oggi passa la ricerca di notizie, valori, mete, amicizie. Di Dio, anche.
Non è più il tempo dei soli sacerdoti col 'pallino' delle comunicazioni: il Papa vuole farlo capire bene al punto da scrivere che siamo «all’inizio di una storia nuova»: «Quanto più le moderne tecnologie creeranno relazioni sempre più intense e il mondo digitale amplierà i suoi confini, tanto più egli (il sacerdote) sarà chiamato a occuparsene pastoralmente». Chi avesse dubbi al riguardo venga a Roma, a fine aprile: il Papa attende tutti gli «animatori» della comunicazione della Chiesa italiana per un convegno – «Testimoni digitali» – che scriverà una delle prime pagine di questa «storia nuova». È anche nel digitale che Dio passa, per aprirci gli occhi e riconoscerlo, come ai discepoli di Emmaus.
Per la Giornata mondiale delle comunicazioni 2010 il Papa consegna un messaggio che descrive ai preti le esigenze di «una storia nuova»

Da “Avvenire” di domenica 24 Gennaio 2010

Verucchi: «Tornare ad alimentare l’autentica riflessione sulla verità»

DA RAVENNA QUINTO CAPPELLI

«Negli ultimi decenni i mass media mirano più a sedurre che a conquistare, più a emozionare che a far riflettere, più al patologico che alla ragione. I media sono come l’ac­qua per i pesci: li avvolge, li accarez­za e li massaggia, mentre dovrebbe dare loro l’ossigeno per la vita». L’im­magine usata dall’arcivescovo di Ra­venna-Cervia, Giuseppe Verucchi, a­prendo i lavori del convegno regio­nale dell’Ucsi dell’Emilia Romagna a Ravenna, su Informazione e verità, è stata analizzata dai relatori inter­venuti per celebrare il patrono dei giornalisti, san Francesco di Sales. Per il presidente della Fondazione Cassa dei Risparmi di Ravenna, An­tonio Patuelli, «i media hanno sosti­tuito alla pacatezza dei toni e alla forza del ragionamento le urla e la provocazione». Non si salvano nep­pure i giornali, «che non svolgono più il compito di approfondimento delle notizie televisive, attraverso la cultura della verità e del ragiona­mento, per seguire il fanatismo vio­lento che dalle curve degli stadi è sbarcato in tv e nei giornali».
Il vaticanista del Tg1, Aldo Maria Val­li, ha approfondito «le tre parole che fondano la verità per un cristiano impegnato nei mass media: servizio, dubbio, rispetto». Per Valli «il servi­zio alla verità (dono di Dio, non i­deologia), alla gente e all’onestà in­tellettuale è una sfida continua, per­ché la tentazione di molti è di esse­re al servizio del potere o di corrom­pere la verità». «La verità – ha con­cluso – va guidata dal rispetto per o­gni persona, dal Papa al barbone di strada, perché la persona umana è sempre il soggetto e mai l’oggetto di un servizio giornalistico o televisi­vo ». Nel dibattito, moderato da Ful­via Sisti della Rai di Bologna, sono intervenuti Elio Pezzi, vice presi­dente regionale dell’ordine dei gior­nalisti, Giorgio Tonelli della Rai e An­tonio Farnè, presidente regionale dell’Ucsi, che hanno denunciato il rischio dei media quali «strumenti di consenso e consumo e non di ve­rità». In conclusione Verucchi ha e­sortato i giornalisti a invertire la ten­denza culturale dei giovani, per « i quali il valore della vita sta nell’ap­parire nei media e non più nell’es­sere persone».

Da “Avvenire” di mercoledì 27 Gennaio 2010

«Testimoni digitali» parla online
di VINCENZO GRIENTI
Il primo avviso ai 'naviganti' della Rete è stato lanciato il 24 gennaio scorso con l’attivazione del sito internet http://www.testimonidigitali.it/. La risposta dal web è stata immediata: e-mail, telefonate e sms ricchi di spunti di riflessione, di suggerimenti ma anche le prime richieste di informazioni al desk della segreteria sulle modalità di iscrizione al convegno nazionale 'Testimoni digitali.
Volti e linguaggi nell’era crossmediale' (Roma dal 22 al 24 gennaio 2010). Promosso dalla Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali ed organizzato dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e dal Servizio nazionale per il Progetto culturale della Cei, il convegno è articolato in quattro sessioni: tecnologica, antropologica, teologica e pastorale. Il sito web è strutturato con criteri di usabilità e immediatezza ed è una piattaforma caratterizzata da una interfaccia grafica e da una struttura che offrirà contenuti informativi prima, durante e dopo il convegno di aprile. Grazie alla sinergia con i media Cei, sono disponibili i servizi televisivi e radiofonici di Tv2000 (http://www.tv2000.it/) e Radio inBlu (http://www.radioinblu.it/), gli approfondimenti di Avvenire (http://www.avvenire.it/), i lanci, gli speciali e le interviste curate dall’Agenzia Sir (http://www.agensir.it/) ma anche diversi contenuti realizzati dallo staff di chiesacattolica.it. Stare al passo con il mondo del web 2.0 è stata la mission del sito che sfrutta le opportunità offerte dai social network senza dimenticare il significato delle tradizioni cristiane. Ne è un esempio l’immagine della testata che fa riferimento alla Cappella Sistina intesa come medium e come messaggio.
«Due caratteristiche della Cappella Sistina la avvicinano alla tv di oggi: l’esperienza immersiva in cui è trasportato chi vi entra, avvolto e sovrastato da immagini grandiose e il carattere tattile di questa esperienza generato – si legge nel sito – secondo la nota definizione di 'tattilità' di Marshall McLuhan, da un coinvolgimento profondo di tutti i sensi e da una 'traduzione' delle percezioni da un canale sensoriale all’altro, in modo tale da intensificare il rapporto con l’ambiente». Altro link importante è dedicato all’ufficio stampa (con la possibilità di accreditamento on line dei giornalisti). Infine, l’area 'mediacenter' contiene contenuti video-audio e foto su temi riguardanti i media e le nuove tecnologie. Interessante l’area 'rassegna stampa' con gli articoli di opinionisti, intellettuali ed esperti del web sul ruolo e sull’impatto di Internet nella società e sull’informazione.

Da “Avvenire” di venerdì 29 Gennaio 2010

«Un sant’Agostino tv per i confusi d’oggi» di TIZIANA LUPI
Su una cosa sono unanime­mente d’accordo tutti coloro che, a vario titolo, hanno lavo­rato alla miniserie Sant’Agostino (Raiuno, domenica 31 gennaio e lu­nedì 1 febbraio in prima serata): la modernità del pen­siero del Santo. E, insieme, «la speranza che, proprio in virtù di questa mo­dernità, la sua storia possa lasciare nel pubblico qualcosa in più della sensa­zione di avere visto un bel film». Sant’A­gostino (realizzata dalla Lux Vide e in­terpretata da Alessandro Preziosi, Monica Guerritore, Franco Nero e Andrea Giordana, con la regia di Ch­ristian Duguay) ripercorre la vicen­da umana e spirituale dell’autore de Le Confessioni , dall’inquieta adole­scenza a Tagaste, paesino dell’en­troterra nordafricano, fino alla mor­te, avvenuto nel 430 ad Ippona, du­rante l’assedio della città da parte dei Vandali di Genserico.
Sono gli anni confusi e difficili del­la caduta dell’Impero Romano e, per Agostino, sono, prima, gli anni tor­mentati del lusso e della spregiudi­catezza che precedono l’incontro con Dio e, poi, quelli della conver­sione, fortemente voluta e incorag­giata dalla madre Monica, e di una vita al servizio del Signore e della pa­ce.
Il presidente della Lux Vide Ettore Bernabei osserva: «Questa fiction fa conoscere al pubblico non solo un periodo della storia dell’umanità ma anche il percorso di un uomo che sarebbe potuto benissimo vivere ai giorni nostri. Sono in molti oggi a potersi riconoscere nella sua vicen­da di uomo che, in tutte le sue e­sperienze, anche le più trasgressive, ha sempre avvertito la sensazione di qualcosa che gli mancava. Fino al momento in cui Sant’Ambrogio, allora Vescovo di Milano, non gli dis­se di non cercare la verità ma di lasciarsi trovare da essa. Quando, lo scorso settembre, abbiamo mostra­to in anteprima una parte di questa fiction a Papa Benedetto XVI a Ca­stel Gandolfo, lui ci ha detto: 'Spe­riamo che qualcuno si faccia trova­re dalla verità e poi trovi la carità'». A dare il volto a Sant’Agostino sono, negli anni della maturità e in quelli della vecchiaia, rispettivamente A­lessandro Preziosi e Franco Nero. Entrambi sottolineano l’importan­za della parola: «La cosa che mi ha affascinato di più di Sant’Agostino è la ricerca della verità legata alla pa­rola – osserva Preziosi –. Oggi che le parole vogliono dire tutto e niente a seconda di come le interpretiamo, il rapporto di Sant’Agostino con la pa­rola è, senza dubbio, il suo aspetto più moderno » . Franco Nero ag­giunge: « La sua modernità è nel­l’importanza data alla parola. Oggi potrebbe parlare molto ai giovani, insegnando loro ad essere meno su­perficiali e meno pressappochisti». E, probabilmente, non solo ai gio­vani. Perché, come sottolineano i produttori Luca e Matilde Bernabei, « l’ansia, il disagio e il disorienta­mento di Agostino e dei suoi con­temporanei sono gli stessi di noi, uomini e donne di oggi. E fu attra­verso queste esperienze nella sua e­sistenza piena di cambiamenti che Agostino giunse a scrivere, rivolto a Dio: il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».
Sant’Agostino in prima serata domenica 31 gennaio lu­nedì 1 febbraio

«Bella», il film che promuove la vita
Arriva nelle nostre sale la pellicola che in Usa è stata un caso DI ALESSANDRA DE LUCA

Mentre Avatar prose­gue la sua corsa agli incassi conquistan­do botteghini e spettatori, piccoli film crescono nelle sa­le, in silenzio, sperando nel pubblico che ama la qualità. Arriva nei nostri cinema que­sta settimana Bella del messicano Alejandro G. Monte­verde, girato in quattro setti­mane e costato solo tre mi­lioni di dollari.
Diventato un vero e proprio caso cinema­tografico negli Usa, Bella è na­to dall’impegno dell’attore protagonista, Eduardo Vera­stegui, che ha gettato alle or­tiche il suo glamour di ex star televisiva per fondare con il regista Monteverde e il pro­duttore Leo Severino una ca­sa di produzione impegnata nel finanziamento di pellico­le nate per interrogarsi sulle grandi questioni umane, ce­lebrando i valori della vita e della fede. Bella è infatti la sto­ria di José, ex calciatore che, abbandonato il pallone in se­guito a tragiche circostanze, fa il cuoco nel ristorante del fratello a New York.
Nello stes­so locale lavora Nina, appena licenziata a causa di una gra­vidanza. Sola, senza aiuto né soldi, la ragazza decide di in­terrompere la gravidanza, ma José le farà cambiare idea re­galandole tutto il proprio so­stegno. Ad aiutare la difficile circolazione del film, anche attraverso copie dvd, ci sono invece la società Microcinema con il suo circuito di sale digitali e l’Acec (esercenti cat­tolici cinema).

sabato 23 gennaio 2010

23/1/2010 PortaParola Ravenna

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EMERGENZA HAITI
INIZIATIVA CEI

Il 24 gennaio raccolta di fondi in tutte le chiese italiane
La Chiesa italiana si mobilita a favore della popolazione di Haiti.
A livello nazionale è stata annunciata ieri dalla presidenza della Cei, che ha così voluto raccogliere l’accorato invito del Santo Padre, una raccolta straordinaria indetta per domenica 24 gennaio 2010 in tutte le chiese d’Italia.
Le offerte si andranno così ad aggiungere ai due milioni di euro già stanziati dalla stessa Cei, attraverso i fondi otto per mille destinati alle emergenze umanitarie.
Offerte per HAITI
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Da “Avvenire” di mercoledì 20 gennaio 2010
LA VITA IN GIOCO
EMILIA ROMAGNA: «ABORTO CHIMICO IN DAY HOSPITAL»
La Regione smentisce l’Aifa e viola la 194: la Ru486 viene somministrata senza ricovero
DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI
Le donne che in Emilia Romagna hanno abortito con la pillola Ru486 sono state, da dicembre 2005 a marzo 2009, 1.684 (circa 42 al mese). Tutte le interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) sono state praticate in regime di day-hospital. Il dato è stato fornito dall’assessorato regionale alla Sanità in risposta a una interrogazione del consigliere Gianni Varani (Pdl).
Le Ivg totali effettuate in Emilia Romagna sono state 11.274 nel 2007, 11.124 nel 2008 (-1,3% rispetto al 2007) e, nel primo trimestre 2009, 2.986. Nel 2007 quelle praticate con metodica medica sono state 563 (5,7% delle Ivg totali), mentre nel 2008 sono state 526 (4,7% delle Ivg totali). Nel 1° trimestre 2009 gli aborti con pillola abortiva sono stati 161, pari al 5,4% del totale.
Quanto ai fallimenti dell’Ivg farmacologica, gli interventi di revisione della cavità uterina a seguito di mancato o incompleto aborto sono stati 97, pari al 5,8% delle procedure con pillola abortiva; in particolare nel 2008 si sono registrate 28 revisioni su 526 Ivg mediche pari al 5,3% dei casi. Per l’assunzione della pillola, ha anche reso noto l’assessorato, si prevede un percorso assistenziale di 14 giorni, con l’assunzione il primo giorno in day hospital (e quindi con le immediate dimissioni), un periodo di osservazione di 3 ore il 3° giorno, prolungando eventualmente il ricovero in caso di necessità o se richiesto dalla donna; infine, quando necessario o richiesto, un controllo a casa tra il 3° e il 14° giorno.
Su cosa avvenga del feto espulso la risposta ufficiale è la seguente: «Poiché l’espulsione si presenta come una mestruazione abbondante non è possibile determinare in maniera esatta l’avvenuta espulsione del tessuto embrionale, pertanto il controllo clinico ed ecografico al 14° giorno è necessario per verificare l’avvenuto aborto». Per il consigliere Varani il fatto che le Ivg siano avvenute in regime di day hospital, è «palesemente in contrasto con la legge 194 e con le disposizioni nazionali associate di recente alla liberalizzazione della pillola abortiva decisa dall’Aifa», l’Agenzia del farmaco che aveva disposto il ricovero nel rispetto della legge demandando però alle Regioni l’applicazione della direttiva. Quanto riferito dall’assessorato conferma, secondo Varani, gli aspetti più discutibili della pillola abortiva, compresa la delicata questione del ricovero ospedaliero non effettivamente assicurato e l’espulsione 'anonima' del feto. I dati forniti ieri dalla Regione sembrano confermare il giudizio critico espresso più volte da Paolo Cavana, docente alla Lumsa, sulle linee guida regionali per l’applicazione della legge 194 nel caso dell’aborto chimico-medico. Sorprende – afferma il giurista – che dall’Emilia Romagna non venga dato alcun rilievo ai princìpi ispiratori della legge 194, tra cui la tutela della vita umana dal suo inizio e l’esplicito divieto di considerare l’aborto come «mezzo per il controllo delle nascite», né al compito da essa espressamente assegnato alle Regioni e agli enti locali di assumere le «iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
Dedurre la piena applicazione della 194 sulla base del mero riscontro della corretta applicazione delle sue procedure significa «darne una lettura riduttiva e fuorviante, rispetto non solo al chiaro dettato normativo ma anche alla giurisprudenza costituzionale, che ha sempre ribadito come le sue disposizioni attuano un bilanciamento tra la tutela della salute della donna e il diritto alla vita del feto, il cui sacrificio non può quindi essere rimesso alla volontà discrezionale della madre». Le statistiche della Regione non riescono a spegnere la preoccupazione delle donne. Teresa Mazzoni, esperta di questioni educative, dice che «permettere che una madre risolva da sé il 'problema' del figlio indesiderato è una scelta del tipo 'me-ne-lavo-le­mani', che non ha nulla a che vedere con la tutela della salute della donna. Né di quella fisica, né tanto meno di quella psicologica».

Da “Avvenire” di mercoledì 20 gennaio 2010
LA VITA IN GIOCO
Allarmanti dati forniti dall’assessorato regionale alla Sanità
Quasi il 6 per cento delle interruzioni di gravidanza con la pillola Ru486 ha richiesto un intervento di revisione uterina

Bisogna ringraziare l’assessore alla Sanità dell’Emilia Romagna Giovanni Bissoni.
Perché la nota con la quale ieri ha gelidamente informato che dopo la somministrazione della Ru486 negli ospedali della regione le donne vengono rispedite a casa ad abortire da sole è un contributo alla chiarezza. Basta con l’ipocrisia del «ricovero» che l’Agenzia del farmaco – del cui consiglio d’amministrazione Bissoni fa parte – diceva di voler assicurare. Non c’è proprio alcun ricovero: l’Emilia Romagna rimanda le pazienti a spasso, perché la grande conquista, il nuovo diritto civile acquisito, il magnifico trofeo del femminismo post-moderno è l’aborto domiciliare.
Tanto è solo «una mestruazione abbondante», meglio non intralciare gli ospedali per una sciocchezza simile.
Un tragico inganno, spacciato per 'libertà'.

Da “Avvenire” di domenica 17 Gennaio 2010
LA GIORNATA MONDIALE DELLE MIGRAZIONI DEDICATA AI MINORI
Integralmente al fianco dei più vulnerabili

GIANCARLO PEREGO Direttore della Fondazione Migrantes
Dal 1914, all’inizio del Pontificato di Benedetto XV, in Italia e nel mondo si celebra la Giornata mondiale delle migrazioni. Una Giornata nata nell’emergenza della Prima guerra mondiale, con la mobilitazione di persone e famiglie soprattutto in Europa, ma che in quasi cent’anni ha saputo interpretare 'con gli occhi della fede' il fenomeno della mobilità sempre crescente, che oggi interessa un miliardo di persone, 800 milioni delle quali migrano all’interno del proprio Paese, mentre 200 milioni scelgono anche Paesi e continenti diversi. Quest’anno, il tema della Giornata riguarda i minori migranti e rifugiati. È un tema che sceglie, dal mondo della mobilità, volti e storie particolarmente vulnerabili.
Sono i volti dei minori stranieri nati in Italia che attendono la cittadinanza, bambini stranieri che mediamente perdono un anno di scuola; dei bambini italiani all’estero, che vivono il disagio della scuola; dei bambini nomadi o dello spettacolo viaggiante talora tollerati se non discriminati nelle scuole.
Sono i mille bambini di donne o famiglie richiedenti asilo e profughi che per mesi attendono di entrare in città, nella scuola; sono i volti dei minori in carcere o usciti da drammatici percorsi di prostituzione. Oggi, 17 gennaio, nelle parrocchie e nella manifestazione nazionale a Capua, promossa dalla Fondazione Migrantes della Cei, si penserà a loro, si pregherà per loro: in particolare, per i 100mila bambini e ragazzi che annualmente, via mare e via terra, per nascita o per ricongiungimento familiare o per tratta, in fuga da 24 guerre e disastri ambientali, tra fame, siccità e violenze, nascosti spesso nelle stive di navi, nei camion, negli autobus, arrivano in Italia, tra noi. Attorno ai diversi volti di minori stranieri, per evitare violenze, sfruttamento e abusi, è messa alla prova la capacità istituzionale di tutela dei diritti fondamentali dei minori, primo tra tutti il diritto di famiglia.
Si tratta di avviare più percorsi di advocacy e di cura, di cittadinanza, anche sperimentali, sia per la diversa età dei minori, ma anche per i numerosi Paesi di provenienza e le differenze culturali. La città oggi è chiamata a vedere in tutto il mondo dei minori migranti e rifugiati un tassello importante della preparazione di un futuro, che passa necessariamente attraverso un dialogo interculturale – che un modello legislativo nuovo di cittadinanza può aiutare –, che rifiuta nuove forme di esclusione o provvisorietà sociale. In questo contesto, si inserisce la centralità della scuola, che non può non essere attenta a garantire il diritto all’istruzione di tutti i minori immigrati e rifugiati, regolari o irregolari. In questa direzione, occorre sperimentare modelli nuovi di incontro tra scuola e comunità sociali, valorizzando anche le figure degli educatori di strada e i tempi di permanenza in centri di accoglienza da parte dei minori, così da evitare il drop out, l’abbandono scolastico. Nel rapporto con i minori migranti è cresciuta anche la Chiesa, da una parte nella sua capacità caritativa di costruire 'segni di fraternità', ma anche di avviare esperienze di pastorale giovanile che rinnovino gli ambienti di aggregazione giovanile e gli oratori, sperimentando percorsi d’incontro e d’intervento specifici, tesi alla crescita integrale, attenti alle diverse dimensioni della vita giovanile (sport, scuola, affetti, amicizie, formazione al lavoro...).
L’azione per lo «sviluppo integrale della persona», ricordata da Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio (1967) e ribadita da Benedetto XVI nella recente enciclica Caritas in veritate , trova nella cura e nell’accompagnamento dei minori una delle esperienze più qualificanti ed efficaci della missione sociale ed educativa della Chiesa di oggi.
www.migrantes.it

La Sindone
Nella primavera del 2010, dopo 10 anni dall’Ostensione del Giubileo, la Sindone sarà nuovamente esposta nel Duomo di Torino dal 10 aprile al 23 maggio.
Nel 2010 per la prima volta sarà possibile vedere direttamente la Sindone dopo l’intervento per la
conservazione a cui è stata sottoposta nel 2002.
Nuovo e più ricco di informazioni sarà l’allestimento del percorso di introduzione alla visione del Lenzuolo, che, tra le altre cose, nell’area di prelettura proporrà inedite immagini ad altissima risoluzione.
Il sistema di
prenotazione per visitare la Sindone, a cui si potrà accedere attraverso il sito Internet (http://www.sindone.org/) oppure rivolgendosi a un call center telefonico, funzionerà a partire dal mese di dicembre. Nei giorni dell’ostensione sarà anche reso disponibile un servizio di prenotazione “immediata” (per visite in giornata) presso un punto di accoglienz a che sarà allestito in piazza Castello, nelle adiacenze del Duomo. Massima attenzione sarà riservata alle esigenze di ammalati, disabili, religiosi e pellegrinaggi diocesani.
L’ostensione della Santa Sindone sarà accompagnata da iniziative ecclesiali e culturali, appuntamenti che nei prossimi mesi saranno definiti dal comitato organizzatore.
Durante l’ostensione,
domenica 2 maggio, Papa Benedetto XVI verrà a Torino e celebrerà la Messa in piazza San Carlo.

Da “Avvenire” di venerdì 22 Gennaio 2010
La Chiesa di Venezia: non equiparabili matrimonio e «unioni anagrafiche»
Il Patriarcato interviene sui criteri di assegnazione delle case decise dal Consiglio comunale

Francesco Dal Mas
VENEZIA. La Chiesa veneziana aiuta con disponibilità le famiglie in difficoltà, sotto molteplici aspetti, ma anche in virtù di questa testimonianza sostiene che la famiglia anagrafica non può essere messa sullo stesso piano di quella fondata sul matrimonio. Neppure per quanto riguarda l’accesso alla casa. Lo afferma il Patriarcato di Venezia intervenendo sulle nuove graduatorie delle case Erp, che il Consiglio comunale ha aperto alle coppie di fatto che vengono equiparate nei punteggi alle famiglie di neosposi. «Tale provvedimento – fa notare il Patriarcato – pone sullo stesso piano la famiglia fondata sul matrimonio - una realtà oggettiva sussistente in una unione pubblica tra un uomo e una donna, il cui significato intrinseco è dato dalla sua capacità di generare, promuovere e proteggere la vita - e la cosiddetta famiglia anagrafica», realtà del tutto diversa, che assume rilievo a livello normativo solo agli scopi circoscritti propri dello strumento anagrafico».
Pertanto, «un simile provvedimento, che vorrebbe presentarsi come una misura antidiscriminatoria, finisce così per introdurre nelle politiche abitative una previsione normativa che oggettivamente discrimina le famiglie fondate sul matrimonio». Il Patriarcato precisa infine che la Chiesa veneziana continuerà ad accogliere «tutti senza alcuna discriminazione e non intende entrare nelle scelte di vita che ciascuno liberamente intraprende».

CINEFORUM DI QUALITA’
INIZIATIVA NEL COMUNE DI FUSIGNANO

L’Assessorato alla Cultura e l’Assessorato all'Istruzione del Comune di Fusignano, insieme all’ Istituto Comprensivo “Luigi Battaglia”, avviano l’iniziativa cinematografica dal titolo LA SFIDA CONTINUA!
L’esemplare iniziativa del cineforum per tutti è programmata per la domenica pomeriggio e sarà dedicata ai rapporti educativi.
L’inizio delle proiezioni è previsto per le ore 15,30 presso l’AULA MAGNA della SCUOLA MEDIA in Via Vittorio Veneto, 36 a Fusignano; l’ingresso sarà ad offerta libera e, per tutti,vi saranno snacks da consumare in compagnia
La presentazione ed il commento dei film sarà curata da Don Giovanni Desio, direttore dell'Ufficio pastorale per le comunicazioni sociali e del settimanale diocesano “Il Risveglio 2000” dell’Archidiocesi di Ravenna - Cervia.

DOMENICA 31 GENNAIO 2010 - ore 15,30
UN PO' PER CASO, UN PO' PER DESIDERIO Francia 2006, commedia, regia di Danièle Thompson con Cecile De France, Laura Morante, Claude Basseur, Sidney Pollack

DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010 - ore 15,30
BRONX USA 1993, drammatico, regia di Robert De Niro con Robert De Niro, Chazz Palminteri, Joe Pesci

DOMENICA 28 FEBBRAIO 2010 - ore 15,30
THE WAR USA 1994, dramma familiare, Regia di John Avnet con Kevin Costner, Elljah Wood, Mare Winningham

CINEFORUM a FUSIGNANO AULA MAGNA della SCUOLA MEDIA ore 15,30

L'iniziativa di cinema LA SFIDA CONTINUA è inserita nel percorso LA DOMENICA DELLE FAMIGLIE. Il percorso LA DOMENICA DELLE FAMIGLIE che da Domenica 21 febbraio vedrà spettacoli di teatro, musica ed animazione pomeridiana nell'Auditorium Arcangelo Corelli di Fusignano (Ravenna).

domenica 17 gennaio 2010

16/1/2010 PortaParola Ravenna


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Da “Avvenire” di mercoledì 13 gennaio 2010
EMERGENZA HAITI
LA CARITAS LANCIA LA COLLETTA


La Caritas Italiana lancia un appello per l'emergenza vittime del terremoto di Haiti. È un'«enorme catastrofe, migliaia le vittime.
I danni sono enormi" afferma l'organizzazione che si è già attivata per gli aiuti anche a livello locale. Haiti - ricorda - è il paese più povero dell'America Latina ed è periodicamente provato da calamità naturali e crisi sociali. Dei circa nove milioni di abitanti, su una superficie che è poco più di quella della Sicilia, oltre la metà vive con meno di un dollaro al giorno.
La Caritas di Haiti, nata nel 1975, oltre ai consolidati impegni in settori fondamentali come l'alimentazione, la salute, l'educazione e l'abitazione, lo sviluppo integrale, si è sempre attivata in ogni emergenza e anche in questa occasione ha avviato aiuti d'urgenza, in coerenza con quella che il suo presidente, Mons. Pierre Andrè Dumas, vescovo di Anse--Veau et Miragone, ha definito «una pastorale samaritana, di prossimità, attenta alle piccole comunità, con una rinnovata opzione per i più poveri».
La Caritas Italiana da anni sostiene la Chiesa locale - in particolare per le emergenze e per interventi di promozione della donna e di economia solidale - ed ha prontamente manifestato vicinanza e solidarietà. In collegamento costante con l'intera rete Caritas, lancia un appello per poter contribuire alla realizzazione del piano d'emergenza. Per sostenere gli interventi in corso si possono inviare offerte a Caritas Italiana tramite

C/C POSTALE N. 347013
specificando nella causale: Emergenza terremoto Haiti


Offerte sono possibili anche tramite altri canali, tra cui:

- UniCredit Banca di Roma Spa, via Taranto 49, Roma
Iban: IT50 H030 0205 2060 0001 1063 119

- Intesa Sanpaolo, via Aurelia 796, Roma
Iban: IT19 W030 6905 0921 0000 0000 012

- Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma
Iban: IT29 U050 1803 2000 0000 0011 113

- CartaSi e Diners telefonando a Caritas Italiana tel. 06 66177001 (orario d'ufficio)

La Croce Rossa. La Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa ha immediatamente allertato il proprio Centro Logistico di Soccorso che si trova a Panama per fronteggiare il terribile terremoto che ha colpito Haiti. Una squadra di valutazione è stata inviata sul luogo del disastro ed un primissimo stanziamento di 1,7 milioni di Euro è stato effettuato per venire incontro alle prime necessità. Tutte le 186 Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa sono state poste in stato di allarme per l'organizzazione di un ponte aereo per inviare soccorsi sanitari, viveri, coperte e tende.La Croce Rossa Italiana fa appello alla solidarietà degli italiani per sostenere questo intervento di aiuto umanitario. I contributi finanziari, raccolti dalla CRI, saranno impiegati a sostegno delle attività di assistenza alle popolazioni terremotate, in stretta collaborazione con la Croce Rossa haitiana e la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

Unicef. «Nonostante i gravi danni subiti ai propri uffici a Port-au-Prince, l'Unicef si è subito attivato per fornire un aiuto immediato alle vittime del terremoto che ha colpito oggi Haiti». È quanto afferma il Presidente dell'Unicef Italia Vincenzo Spadafora. «In coordinamento con le altre agenzie delle Nazioni Unite presenti aggiunge - l'Unicef fornirà gli aiuti necessari per garantire accesso ai servizi igienici, all'acqua potabile e all'assistenza sanitaria di base». «È necessario - prosegue Spadafora - che i bambini, i più vulnerabili in caso di catastrofi naturali, siano protetti.
Già da queste prime ore chiediamo a tutti i donatori e alle aziende di sostenere la nostra raccolti fondi per le vittime del terremoto di Haiti. È un forte appello che rivolgiamo all'opinione pubblica: non lasciamo soli i bambini di Haiti.

Da “Avvenire” di venerdì 15 Gennaio 2010
UNISONO SQUASSATO DEL MONDO
PER SPEGNERE L’INFERNO
ROBERTO MUSSAPI

Scene di inferno: le abbiamo viste e le vediamo, in internet e in televisione, le raccontano i reporter. E la discesa a Port-au-Prince ha i toni di una periglio­sa discesa infera dal piccolo charter no­leggiato faticosamente a Santo Domingo dalla troupe di una tv americana. Nelle ri­prese, l’approssimarsi all’inferno: le case crollate, i palazzi sventrati, voragini e in giro poche persone, quasi tutte a piedi. E poi, in un montaggio da incubo, alle im­magini si fondono le frasi riportate, sen­tite o lette, la terra che ondeggia, la fitta nube di polvere che copre ogni cosa, tan­ta gente che stringe tra le braccia i corpi dei propri cari. Il fatto che quelle braccia e quei volti e quei cadaveri siano presso­ché universalmente neri rende più ango­scioso l’incubo: nella loro pelle nera c’è un precedente inferno nel quale l’uomo bianco – dall’età della conquista spagno­la e francese e poi della pirateria inglese fino a oggi – ha fatto di quella gente bel­lissima una popolazione disperata, la più povera del mondo occidentale.
Poi, accanto, anzi attorno alla tragedia, un fiume di notizie di segno inverso: i so­cial network che vincono il black out te­lefonico, le voci che subito annunciano, comunicano, mettono in contatto, una frenesia immediata nella reazione del mondo. I primi gruppi che arrivano nel­la capitale rasa al suolo, medici, parame­dici, attrezzature per creare ospedali da campo, un tam-tam incessante in tutto il globo, un messaggio ossessionante e li­taniante, una sommessa e inconscia pre­ghiera globale. Accadono cose senza tregua, il mondo pare muoversi all’unisono, un unisono paradossale, disordinato, squassato dal terremoto.
Accade qualcosa, nella tragedia, qualco­sa di antico e qualcosa di nuovo e strano. Accade l’angoscioso e spontaneo dilem­ma espresso e risolto ieri in un abbraccio dolente e vitale da Davide Rondoni: o ma­ledire Dio o pregarlo (ed è naturale per o­gni credente conoscere anche una parte dell’uomo che si ribella a Dio, senza la quale molto spesso avrebbe avuto poco senso accettarlo, e a volte desiderarlo). Ma il dilemma, che ci assedia, non è tut­to. Accade, dolorosa, umile e potente, la preghiera consapevole e tutta offerta. E accade l’azione di chi magari non si sof­ferma sul senso che può avere una simi­le sventura, sul suo significato profondo («O Dio o il nulla governano il mondo»), ma si mette immediatamente in comu­nicazione con l’inferno per spegnerlo, non annullarlo ma attenuarne le deva­stazioni. Migliaia di uomini pratici e for­se poco propensi al pensiero, che, per na­tura altruistica (esistono tali nature), per elementare istinto di solidarietà si met­tono in moto.
Così il dilemma s’inscrive in un contesto più vasto, imprevedibile, ricco e sor­prendente: tanti uomini, di importanza mondiale come capi di Stato o delle Na­zioni Unite, o del tutto sconosciuti, mili­tari, tecnici, volontari, che senza porsi al­cuna domanda si buttano al lavoro, al computer, al telefono, a raccogliere fon­di, voci, appelli, o sbarcando con attrez­zature sofisticate come siamo abituati a vedere in guerra… Accadono uomini che si lanciano verso l’eroica resistenza all’inferno, nel sogno di una ricostruzione impossibile (la vita umana non si restituisce in terra), ma che adombra la fede in qualcosa che superi la tragedia stessa, obbedendo, senza sa­perlo, al sogno che espresse in pieno No­vecento il poeta Dylan Thomas: «E la morte non avrà dominio».

Da “Avvenire” di venerdì 15 Gennaio 2010
TRA CARICATURE DATATE E IL NO DELLA BONINO AL QUOZIENTE FAMILIARE
Quel pregiudizio delle élite sul «familismo» italiano
PIER LUIGI FORNARI


Non sembra che Emma Bonino abbia pronun­ciato il suo drastico 'no' al quoziente fami­liare conti alla mano.
L’esponente radicale candidata per la presi­denza del Lazio tantomeno pare aver va­lutato gli effetti prodotti da questo siste­ma e da altri simili di favor familiae adot­tati in alcuni Paesi europei, dove non si è prodotta la segregazione domiciliare del­le donne tanto temuta dalla parlamenta­re pd. Ma il punto di fondo è un altro: perché il fisco non dovrebbe trattare la famiglia come un’unica squadra nella quale si decide d’accordo 'chi' gioca e 'dove' nell’interesse di tutto il team? Per­ché i rapporti tra coniugi e figli devono essere assimilati al rapporto oppressori­oppressi e non a quelli di un 'collettivo' vincente?
Una spiegazione può venire da una lettu­ra attenta del libro ( L’Italia fatta in casa) di Alberto Alesina e Andrea Ichino, che nella sostanza propugna le stesse tesi della Bonino. I due economisti, spalleg­giati da autorevoli analisi di Francesco Giavazzi, hanno abilmente riciclato la leggenda nera di un’Italia cronicamente malata di «familismo amorale», le cui ne­faste conseguenze sarebbero addirittura mafia, illegalità, lentezza della giustizia civile, ecc. Una caricatura imposta fin da­gli anni Cinquanta sulla base di un’inda­gine circoscritta a un piccolo paese del potentino, Chiaromonte, da Edward C.Banfield, sociologo Usa con un lungo training nelle agenzie governative. Stra­namente il testo che riporta l’obsoleta in­dagine ( Le basi morali di una società arre­trata ) è stato ripubblicato un anno fa, no­nostante in cinquant’anni le cose siano cambiate, e di molto, in tutto il pianeta.
L’accusa lanciata contro l’Italia era la mancanza di senso civico in confronto al pullulare di associazioni a St. George (U­tah) negli Usa. Il sociologo americano af­fermava esplicitamente, peraltro, che la redenzione della nostra gente sarebbe potuta giungere da una missione prote­stante. Banfield additava perfino l’esem­pio delle campagne culturali condotte in tal senso in Brasile. Per fortuna nessuno ebbe il cattivo gusto di ripagarlo con la sua stessa moneta, anche se la tentazione di farlo certo non mancava: si pensi alle suggestioni suscitate dai film Usa con i quali in quegli anni si bombardò il nostro Paese. Del resto già nell’Assemblea costi­tuente il conquistatore del Polo Nord, Umberto Nobile (eletto come indipen­dente nelle liste del Pci), lamentava i di­vorzi facili e a ripetizione dell’american way of life.
Lo stigma del «familismo amorale» fu magistralmente confutato dalla sociologa Loredana Sciolla (nel libro Italiani, stereo­tipi di casa nostra, 1997) dimostrando co­me nella storia la nostra cultura relazio­nale, al cui centro c’è anche la famiglia, ha originato un fiorire di confraternite e associazioni così come la tradizione forte dell’autonomismo locale. Come mai quel lavoro scientifico non ha avuto la consi­derazione che meritava? Alcune élite hanno cercato di inculcare un diffuso senso di colpa per una supposta menta­lità familista. Un contributo venne anche dal modo in cui fu raccontata nel film di Vittorio De Sica («Ieri, oggi, domani») la vicenda di una venditrice abusiva di siga­rette che per non essere arrestata ricorre­va a una lunga serie di maternità. «Tiene a panza, tiene a panza, cià, cià, cià», gri­dava dietro ad 'Adelina', interpretata da Sofia Loren, una frotta di bambini nel contesto di una Napoli degradata. Simili stereotipi hanno fatto dimenticare che personalità italiane di notevole calibro sono nate in famiglie numerose.
Anche una rilettura attenta delle criticità del mondo anglosassone potrebbe aiu­tarci a riscoprire il valore delle nostre ra­dici: è il caso del film di Ken Loach Fa­mily life (1971), nel quale il regista britan­nico ha raccontato la vicenda di una gio­vane inglese portata alla follia dal peso del moralismo puritano perché rimasta incinta. «Di aborto nemmeno parlarne», dice la madre, che di fatto la induce a in­terrompere la gravidanza. Ebbene, quella mentalità con la sua repressione dei sen­timenti e la rimozione della coniugalità non appartiene al cuore delle nostre radi­ci culturali. E neppure a quelle di Adelina. Radici, appunto, familiari.

Da “Avvenire” di venerdì 15 Gennaio 2010
LA SENTENZA DI SALERNO, IL SENTIRE DEL CUORE, L’« INVISIBILE » VERITÀ
Gli embrioni «sbagliati» sono morte data, sono lutti
MARINA CORRADI

Una figlia perduta a sette mesi, tre aborti, un unico bambino sano. Con questa odissea alle spalle una coppia portatrice di una grave malattia genetica ha ottenuto da un giudice l’autorizzazione a ricorrere alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto – per scartare gli embrioni malati e individuare quelli sani. Che la legge 40 da questa sentenza sia violata, è una evidenza: la procreazione assistita è solo per le coppie sterili, e la selezione degli embrioni, in Italia, è eugenetica. Una vicenda umana dolorosa è stata usata per aprire una breccia nella legge. E tuttavia, dire questo non basta. Non basta per quella coppia né per gli altri come loro e nemmeno per tanti che ascoltano la storia in tv, e pensano che in fondo una eccezione, dopo tanti lutti, sia giusta. In un 'sentire del cuore' che contrasta con la rigidità dei codici.
Eppure a volte il cuore, o almeno questa parola usata nella sua accezione sentimentale, non vede bene. Perché la realtà è che ai quei genitori viene consentito di 'produrre' molti germi di figli, che saranno scrutati e analizzati; a quello 'perfetto' verrà data una possibilità di vita, gli altri, segnati dal loro stigma, cancellati. Nel nome del 'diritto alla salute', espressione usata dal giudice, quei principi di uomo saranno eliminati. (Paradossale: essere uccisi per il 'diritto alla salute' di altri).
Il fatto è, e lo diciamo con rispetto verso chi ha il dolore di non poter avere figli sani, che un fattore manca in questa somma di diritti e di poteri, che porta al 'sì' della sentenza di Salerno. Quei figli abortiti, e quella persa a pochi mesi di vita, e quello vivo e tanto amato, sono stati, in principio, uguali agli embrioni che si vogliono scartare. Davvero si può negare questa prima uguaglianza, e accettare che gli 'sbagliati' siano buttati via come cose? Per avere un figlio sano, quanti difettosi fratelli annientati, e, davvero è buon cuore consentire, per soddisfare il desiderio di paternità, questa silenziosa strage?
Certo, sono invisibili quei semi, e ciò che è invisibile agli occhi raramente ci commuove. Però lo sappiamo in fondo che nel principio è già scritto, intero, un uomo. Lo sappiamo, che nel seme è inciso se avrà gli occhi chiari, e i capelli, e le mani grandi di suo padre. Tutto è già scritto, in quel frammento da niente; come uno straordinario 'file' che attende solo per dispiegarsi il calore di una madre.
La ragione del no alla selezione è questa. È il rispetto a un bene molto grande, benché infinitamente piccolo.
Anche se non si vedono, quegli embrioni rifiutati sono morte data, sono lutti. È una coscienza, questa della pienezza del principio, che avevano molte delle nostre madri, e che ora neghiamo. Non è ancora figlio quel grappolo di cellule, ci diciamo per tollerare l’aborto. Ma lo sappiamo invece, e lo conferma la scienza, che a poche ore dal concepimento il disegno è già vergato, unico, non ripetibile: il disegno di quell’ uomo.
E le sentenze argomentino pure di un 'diritto alla salute' e di un ideologico 'diritto alla procreazione', che nessun codice ci potrà mai garantire. Evochiamoli pure questi diritti immaginari, che nella vita un istante di malattia o di disgrazia bastano a contraddire drammaticamente. La realtà non ideologica, innegabile, carnale, è invece quel grappolo di cellule che cresce, e forma gli occhi e le mani, mentre il cuore già batte: in un disegno inesorabilmente ordinato a vedere la luce.


Da “Io amo l’Italia” di Magdi Cristiano Allam
(Magdi Cristiano Allam è deputato al parlamento europeo nel gruppo del Partito Popolare Europeo)
ISLAM E INTEGRAZIONE - Le difficoltà riguardo la costruzione di moschee
La libertà di culto è un principio irrinunciabile per ogni nazione che si voglia definire civile. Però vi sono alcune condizioni affinché i culti siano rispettati: reciprocità e rispetto dei diritti umani
Andrea Sartori (Insegnante)

E' odioso pensare di negare luoghi di culto ad appartenenti a religioni differenti, però non possiamo non tenere conto di episodi che ci invitano alla cautela sui luoghi di culto islamici.
Il primo, ed è una faccenda tutta interna all'islam, è la mancanza di unità. L'imam Sergio Yahya Pallavicini ha dichiarato che i musulmani milanesi non hanno "luoghi di culto dignitosi". Però nel caso dell'erezione di una moschea, quale sarebbe l'islam che vi si seguirebbe? La Coreis, l'associazione dei Pallavicini, è molto peculiare, ad esempio: innanzitutto raccoglie solo italiani convertiti, in secondo luogo ha un'impostazione eminentemente mistica e non politica. Forse è la forma di islam più compatibile con la nostra civiltà, ma è certamente elitaria. Dall'altra parte vi sono gli Abu Imad e i predicatori dell'islam più violento.
Negli ultimi mesi è stata spesso ascoltata la voce di Hamid Abdel Shaari, rettore di Viale Jenner, moschea jihadista. Poi vi sono le moschee che fanno capo ai Fratelli Musulmani, quindi ad un islam fortemente politico ed autoritario, che intenderebbe imporre la sharia: la legge islamica che prevede la pena di morte per le adultere o il taglio della mano per i ladri. Quella sharia che indirettamente ha condannato sia Hina che Sanaa. Allora, quale islam è quello cui si fa riferimento?
Poi c'è il nodo della reciprocità: se l'islam vuole convivere con noi deve accettare le regole del libero pensiero e della reciprocità.Questo è il passo più difficile per una religione ancora fortemente autoritaria e che non tollera critiche. Invece il gioco deve essere il medesimo cui si sottopongono cristianesimo, ebraismo, buddhismo e ogni altra fede in occidente: la possibilità di essere criticata o di perdere fedeli.
Sappiamo come il cristianesimo venga quotidianamente attaccato. Ma queste sono le regole della libertà di coscienza, e come tali vanno rispettate. Ma dai pulpiti non si lanciano inviti a ripristinare l'inquisizione, bensì confutazioni. Se si è sicuri della propria fede non si risponde attraverso minacce, ma con argomenti.
L'islam non tollera ancora la critica: i casi delle vignette danesi, o di Salman Rushdie ne sono la prova. Anche il caso di Oriana Fallaci, insultata e minacciata. Oggi vediamo che Daniela Santanché viene aggredita per le sue posizioni. Odifreddi o Margherita Hack non sono mai stati aggrediti, e la Chiesa non ha chiesto certo la testa di Vauro per le sue vignette.
Non si può convivere con chi non accetta critiche, questo è logico. Non è una questione di razzismo, è una questione di buonsenso.L'islam, per vivere nel nostro mondo, deve accettare la reciprocità, che si traduce nel "libero mercato delle religioni" (espressione usata da Messori, piuttosto brutta ma che rende bene l'idea): i musulmani devono accettare che alcuni di loro possano allontanarsi dalla fede così come lo ha accettato la Chiesa a partire almeno dalla fine del Settecento.
Molti imam ripetono il celebre versetto coranico "Non vi sia costrizione nella religione" però lo smentiscono nei fatti. Anche la condanna del comportamento di Sanaa da parte della madre è una preoccupante spia della pericolosità di questo atteggiamento. Sanaa non rubava, non commetteva nessuna azione disonesta, anzi aveva un lavoro e viveva una relazione con un ragazzo. Il fatto che si condanni il fatto che ha amato la "persona sbagliata" perché non musulmana e che con questa argomentazione si sminuisca di fatto la gravità del gesto del padre rende un tipo di mentalità inaccettabile. Perché nessuno si può e si deve permettere, eccettuati casi gravi, di intromettersi nella libertà d'amore ("sacra quanto la libertà di parola" diceva Victor Hugo). Ma questi insegnamenti provengono dalle moschee. Provengono da un insegnamento religioso che non viene proposto, ma imposto. E che di fatto va a distruggere la vita delle giovani generazioni.
Tutte le religioni sono bene accette, a patto che rispettino i diritti umani fondamentali. Lo Stato deve farsene garante, visto che l'Italia comunque è una nazione rispettosa dei diritti umani. E quindi non deve chiudere gli occhi dinanzi a tali cose. Ma il discrimine principale devono essere i diritti umani.

I principali diritti umani violati a causa della predicazione nelle moschee sono:
1 L'uguaglianza tra uomo e donna (che sono violati dal concetto di poligamia, dal velo, dalla sottomissione ad un tutore maschio, dall'impossibilità di contrarre matrimonio con un non musulmano mentre all'uomo è permesso)
2 La libertà di coscienza, che si risolve nella condanna dell' "apostasia" (termine già odioso di per sé, e di sapore realmente medioevale ed inquisitorio: dalle nostre parti gli ex cristiani sono chiamati "convertiti" e non subiscono persecuzioni)
3 La contemplazione e l'applicazione della pena di morte contemplato nella sharia non solo per reati gravi, ma anche per cose che di fatto non ledono nessuno (come l'abbandono della religione); o solo una persona, e non in maniera grave (come l'adulterio)
4 La divisione della società in "musulmani" e "non musulmani", considerati questi ultimi inferiori e, nell'eventualità di un predominio islamico, sottoposti a restrizioni e a tasse se monoteisti, forzati a scegliere tra la conversione e la morte se politeisti o atei: una forma di razzismo religioso inaccettabile.

Qualora nelle moschee si propagandino tali ideologie, non è possibile tollerare un luogo di culto islamico. Qualora si dia un'altra lettura della religione, allora è possibile.
La reciprocità inoltre coinvolge anche una situazione a livello internazionale: la difficoltà di erigere luoghi di culto non islamici in molti Paesi musulmani, e il veto assoluto di praticare una forma di culto diversa dall'islam in Arabia Saudita. I difensori di tale misura saudita argomentano capziosamente che non esistono moschee in Vaticano (argomentazione risibile già se si confrontano le dimensioni di Città del Vaticano e dell'Arabia Saudita). Ma i luoghi di culto non islamici non sono vietati solo nelle città sante della Mecca e di Medina (cosa che potrebbe avere un senso, se proprio vogliamo. Anche se è possibile ai musulmani entrare in Vaticano, ma non ai non musulmani entrare alla Mecca o a Medina), ma su tutto il territorio saudita. Seguendo questa logica aberrante bisognerebbe vietare la costruzione di luoghi di culto non cattolici in tutta Italia. La più grande moschea d'Europa è a pochi chilometri da Città del Vaticano.
E se vogliamo parlare di reciprocità anche con altri culti, esistono moschee a Lhasa e in Tibet, la "Mecca" del buddhismo, ed ebbero anche privilegi sotto alcuni antichi Dalai Lama. Anche questo è un punto che non va ignorato.

9/1/2010 PortaParola Ravenna

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Da “Avvenire” di giovedì 7 gennaio 2010
CELEBRATA L’EPIFANIA. IN TUTTA ITALIA L’ARRIVO DEI MAGI NEI PRESEPI VIVENTI
Il Papa: troviamo il coraggio di essere bambini nel cuore GENNARO MATINO

LA MANIFESTAZIONE DI UN DIO COSÌ GRANDE DA FARSI PICCOLO
RICONOSCERE IL MESSAGGIO RESISTERE AGLI ERODI DI OGNI TEMPO


L’Epifania è un giorno che rac­conta luce svelata, è un gior­no di straordinario fascino: e, ieri, il Santo Padre si è lasciato illumi­nare dalla luce della pagina di Mat­teo e l’ha riflessa nel significato quotidiano dei nostri giorni.
Nel co­gliere l’apparente distanza tra il te­sto di Isaia e quello di Matteo, tra la profezia e la realtà della grotta di Betlemme, Benedetto XVI ci ha ricordato come invece tra la pro­messa e l’adempimento non vi sia affatto una frattura, ma la difficoltà dell’uomo di comprendere le vie di Dio, perché le sue parole non sono le nostre parole, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri. Imprigiona­to in categorie propriamente uma­ne, identificando l’onnipotenza in una sorta di strapotere capace di schiacciare e sottomettere chiun­que, l’uomo di ogni tempo è inca­pace di comprendere che l’onni­potenza di Dio è tale perché Dio è Amore, amore infinito, gratuito che dona se stesso, il Figlio unigenito, per la salvezza dei suoi figli: «La sua grandezza e potenza non si espri­mono nella logica del mondo, ma nella logica di un bambino inerme, la cui forza è solo quella dell’amo­re che si affida a noi».
Gaspare, Melchiorre, BaldassarreRavenna, Basilica di Sant'Apollinare in Classe, ca 600.Indubbiamente, ha spiegato il San­to Padre, rispetto alla splendida vi­sione di Isaia, in cui la grande luce di Dio avrebbe attirato a sé tutti i re delle nazioni, «quella che ci pre­senta l’evangelista Matteo appare povera e dimessa: ci sembra im­possibile riconoscervi l’adempi­mento delle parole del profeta I­saia. Infatti, arrivano a Betlemme non i potenti e i re della terra, ma dei Magi, personaggi sconosciuti, forse visti con sospetto, in ogni ca­so non degni di particolare atten­zione ».
È dunque comprensibile che da sempre l’uomo sia rimasto affascinato dalla visione di Isaia, più che dal racconto di Matteo, tanto che ancora oggi, ha ricorda­to il Papa, nei nostri presepi i Ma­gi vengono rappresentati con vesti da re, su cammelli e dromedari. Eppure, al di là dell’apparente con­traddizione, della potenza e della crudeltà di Erode, che costringe al­la fuga la Sacra Famiglia, nono­stante «l’episodio dei Magi sembra essere cancellato e dimenticato», il Santo Padre ha colto in tutta la sua pienezza l’adempimento del­la profezia nella pagina di Matteo.
L’episodio dei Magi non si chiude con il ritorno frettoloso alle loro terre, non scompaiono dallo sce­nario della storia della salvezza. Al contrario per Benedetto XVI «quei personaggi provenienti dall’O­riente non sono gli ultimi, ma i pri­mi della grande processione di co­loro che, attraverso tutte le epoche della storia, sanno riconoscere il messaggio della stella, sanno cam­minare sulle strade indicate dalla Sacra Scrittura».
Le parole del Papa sono dunque un forte invito a seguire la stella, ad a­prire gli occhi e il cuore per abban­donarci all’amore di Dio. Come i Magi nell’offrire oro, incenso e mir­ra, segno della regalità e divinità di quel Bambino che avrebbe ingoia­to la più amara delle erbe, dichia­rano la loro sottomissione al pic­colo Re, così noi tutti, uomini del­la terra, di Oriente e di Occidente, del Nord e del Sud siamo chiamati a scegliere tra la presunzione del mondo e «l’umiltà autentica», tra il potere della terra e il vero coraggio «di essere bambini nel cuore, di stu­pirsi, e di uscire da sé per incam­minarsi sulla strada che indica la stella, la strada di Dio».
E chi si la­scia illuminare dalla stella come i Magi non può più tornare indietro, né può sottomettersi al potere de­gli Erodi di ogni tempo, ma seguirà la luce, quella dell’amore di Dio, che sempre si manifesta tra i poveri, tra gli ultimi della terra.
L’invito del Santo Padre a incamminarci sulla strada segnata dalla stella è un in­vito coraggioso a non lasciarsi vin­cere dalla notte, la notte della crisi economica, la notte della violenza, del terrorismo, è un invito a non ri­manere indifferenti di fronte alla stravolgente novità di un Dio che si fa carne per rimanere vicino a noi.
Un Dio così grande da farsi picco­lo, che facendosi Bambino ha l’u­miltà di affidarsi alle nostre cure per poter crescere nel nostro cuore, nel­la nostra storia, nella storia del mondo.

Da “Avvenire” di mercoledì 6 gennaio 2010
A TREVISO UNA STORIA DI NATALE TUTTA DA RACCONTARE
Sara e il suo bambino: gran notizia che non fa rumore
GABRIELLA SARTORI

Fino all’Epi­fania le favole di Natale si possono raccontare. Se poi sembrano favole ma sono storie vere, raccontarle è necessario.
La notte del 23 dicembre scorso, Sara, di Montebelluna, Treviso, trentadue anni, incinta alla ventinovesima settimana, si sente male. Diagnosi pesante: « aneurisma dissecante all’aorta ascendente » , patologia molto grave in sé ma ancora più grave in quanto Sara non solo è incinta ma ha anche già subito un importante intervento al cuore, di diversa natura, nel 2005. Sara e il bambino che porta in grembo hanno bisogno urgente di ricovero in una struttura altamente attrezzata: se no, moriranno tutti e due. Comincia il giro convulso di telefonate in vari ospedali del Veneto e del Friuli, ma il posto non si trova: periodo difficile, molti operatori hanno appena cominciato le agognate ferie natalizie. All’ospedale civile ' Ca’ Foncello' di Treviso, il cardiochirurgo professor Carlo Valfrè, con la sua équipe, è impegnato in un intervento d’urgenza. Ma i dirigenti di Ca’ Foncello non si arrendono. Con un giro di telefonate, fanno l’impossibile per reperire altro personale in tempi record, medici, infermieri, ostetriche, anestesisti: e ci riescono. Anche perché trovano in tutte le persone allertate la massima disponibilità a tornare immediatamente in servizio anche se sono appena rientrati a casa per il meritato riposo e si apprestano a festeggiare il Natale in famiglia.
Nessuno dice di no: in poche ore nasce una seconda équipe cardiochirurgica in grado di far fronte alla difficile situazione.
L’elicottero del Suem porta la mamma Sara a Ca’ Foncello alle sedici e trenta. Comincia l’intervento. Sara dice: pensate prima al bambino. Così si fa: alle sedici e 41, il primario di ginecologia Giuseppe Dal Pozzo e la patologa neonatale dottoressa Linda Bordignon portano alla luce Lorenzo, 942 grammi di peso, vitale e sano. È il primo bambino trevigiano che nasce in cardiologia.
Poi comincia l’intervento su Sara: otto ore di duro lavoro e alle due di notte della vigilia è salva anche lei.
Cardiologia dei miracoli quella natalizia di Treviso? Chi se ne intende, dice che l’espressione non è esagerata. Però di questa meravigliosa storia nessuna traccia è arrivata sui mass media nazionali.
I quali, anche a Natale, non hanno mancato di informarci di tutt’altre vicende. Vedi il caso della sfortunata bambina di Agrigento che ha perduto la vita in quanto non soccorsa in tempo dai volontari (?) del 118: che avrebbero litigato per ore su chi avesse il compito di intervenire prima di passare ai fatti.
O l’altra bambina di Cosenza, cui medici... disattenti, hanno ingessato il braccino sano invece di quello rotto. Anche stavolta, il circo mass- mediatico italiano ha obbedito all’antica , cinica legge secondo la quale « una buona notizia non è una notizia » . E che importa se, a dare solo cattive notizie, si altera in negativo il profilo morale e professionale del Paese, si distrugge la speranza delle persone, si scoraggiano i giovani.
Nel suo discorso di Capodanno alla nazione, il presidente Napolitano ha detto con forza che l’Italia reale è migliore di come la si fa apparire. Il presidente dice il vero, e chi sta in mezzo alla gente lo sa. Tanto più noi credenti per i quali Natale o ' è' la Buona Notizia o non è Natale. Per questo, noi sappiamo che, a Treviso, quest’anno il Bambino è nato in un reparto di cardiologia, che sua madre, che l’ha voluto a rischio della vita, si chiama Sara, che gli angeli sono scesi dal cielo con l’elicottero del Suem, e che i pastori che l’hanno soccorso indossavano i camici bianchi della sala operatoria. È una buona notizia: e vogliamo che sia conosciuta.

Da “Avvenire” di giovedì 7 gennaio 2010
INTITOLATA AD ALDO MORO L’UNIVERSITÀ DI BARI
Un debito saldato Un obiettivo cruciale DOMENICO DELLE FOGLIE

Forse Bari ha finalmente saldato il suo debito d’onore nei confronti dell’uomo che più le ha dato lustro nel secolo scorso: Aldo Moro. Il senato accademico ha infatti deciso di intitolare l’Università degli Studi allo statista pugliese, nato a Maglie ma studente e poi professore di Diritto penale nell’Ateneo barese. Il presidente della Democrazia cristiana rapito e ucciso dalle Brigate Rosse, il cui nome ha segnato anche la ritrovata forza della nazione nel combattere l’eversione terroristica, sarà forse ricordato più facilmente dalle generazioni future. E quanto serva la memoria nel nostro Paese è facile verificarlo facendo solo qualche domanda a tanti nostri giovani, forse a più agio con il Grande Fratello o con X Factor. La decisione del senato accademico, peraltro, sana formalmente un vecchio problema: viene infatti abrogata la vecchia intestazione al cavaliere Benito Mussolini. Caduta effettivamente in disuso dopo la Liberazione e bandita dalla legge, non era mai stata annullata con un atto ufficiale dell’Ateneo. Ora un voto rimette le cose a posto.
In queste ore in cui la Puglia fa notizia soprattutto per la difficoltà nel trovare i candidati giusti nella corsa alla presidenza della Regione e mentre a Milano si discute sull’opportunità di intitolare una piazza a Bettino Craxi, è confortante che almeno sul nome di Aldo Moro si trovi un’ampia intesa, sia pure dopo un dibattito approfondito e con un voto contrario che resta agli atti. Il 'no' è quello del giovane rappresentante degli studenti di Azione universitaria, formazione di destra, che così ha motivato la sua scelta: «Intitolare l’Ateneo a un uomo politico connota eccessivamente la nostra Università e non ci permette di riconoscerci in essa'» In queste parole, c’è tutto il retaggio di un giudizio politico che affonda le radici in alcune scelte strategiche di Aldo Moro, dal centrosinistra alla solidarietà nazionale. Se quelle opzioni politiche alle quali lui spinse non senza pesanti contraccolpi personali (e anche ecclesiali) l’intera Democrazia cristiana, nella quale la sua corrente non superò mai il 4/5 per cento, hanno trasformato e segnato la storia repubblicana, è certamente vero che Aldo Moro aveva soprattutto una grande aspirazione: allargare la base democratica del Paese. Una possibilità realizzabile, in quel contesto storico, solo estendendo la partecipazione alle masse popolari che si riconoscevano nelle diverse sinistre (socialdemocratica, socialista e comunista) che popolavano la scena politica italiana.
Questo può ancora oggi non piacere e creare dei moti di rifiuto, ma la storia recente della cosiddetta Seconda Repubblica sta lì a dimostrare che l’opzione morotea dell’allargamento della base democratica era assolutamente giusta. Basterebbe pensare all’ancora recente sdoganamento di Alleanza nazionale (anch’essa una formazione popolare), da parte di Silvio Berlusconi, per valutare con un occhio meno prevenuto le lontane scelte di Aldo Moro. Non si finirà mai di associare lo statista democristiano ai 'professorini' cattolici della Costituente, ma di sicuro è bello poterlo ricordare con una vecchia foto custodita nei polverosi archivi cartacei dei giornali. Lui che si affaccia dal finestrino di un treno, alla stazione di Bari, mentre parte per Roma. La sua mano accenna un saluto e un sorriso contenuto gli illumina il volto. Meglio ricordarlo così, piuttosto che nella istantanea che ne immortalò il corpo rannicchiato nella Renault 4, in via Caetani, quel terribile 9 maggio del 1978. Una vita fa.

Da “Avvenire” di giovedì 7 gennaio 2010
DOPO L’ITALIA ( E IL CROCIFISSO) NEL MIRINO L’IRLANDA ( E LA LEGGE ANTIABORTO)
I consueti bersagli «cattolici» dell’ormai solita Corte GIANFRANCO AMATO

Dopo i crocifissi in Italia, tocca alla legge antiabortista irlandese. Nei giorni scorsi si è svolta infatti a Strasburgo, davanti ai 17 giudici della Grande Camera della Corte europea dei Diritti dell’uomo, l’udienza sul ricorso promosso contro l’Irlanda a causa della sua legislazione contraria all’aborto. Il caso è giunto avanti alla Corte a seguito della richiesta avanzata da tre donne di veder riconoscere il 'diritto' di abortire anche nell’isola, anziché dover cercare – come loro hanno fatto – una soluzione in Inghilterra.
L’interruzione volontaria della gravidanza è illegale in Irlanda – a meno che la vita della donna non sia in grave pericolo –, tanto che persino la Costituzione è stata modificata nel 1983 per includere un emendamento pro­life: «Lo Stato – si legge nella Carta – afferma il diritto alla vita del nascituro e, tenuto conto dell’eguale diritto alla vita della madre, garantisce nella propria legislazione il riconoscimento e, per quanto possibile, l’esercizio effettivo e la tutela di tale diritto, attraverso idonee disposizioni normative».
Davanti ai giudici di Strasburgo, che si pronunceranno nei prossimi mesi, il governo irlandese non ha esitato a difendere a spada tratta la propria Costituzione e le norme che ne derivano in tema di aborto, argomentando che «il diritto alla vita del nascituro è basato su fondamentali valori morali profondamente radicati nel tessuto sociale irlandese». A prescindere dal merito dei singoli casi pendenti avanti la Corte (prima il crocifisso, ora l’aborto), la questione più generale che si pone è di capire se sia ammissibile che la cultura, la tradizione, i valori e persino le norme approvate in Parlamento attraverso un processo democratico possano essere messe in discussione da un organismo internazionale artificialmente creato e del tutto avulso dal contesto che è chiamato a giudicare. Il paradosso si ingigantisce se si considera che quella cultura, quelle tradizioni, quei valori e quelle leggi appartengono a uno Stato membro dell’Unione Europea e possono essere smantellate da un organismo che con l’Unione non ha nulla a che vedere. Sì, perché la 'Corte europea dei diritti dell’uomo', non è un’istituzione della Ue e non va confusa, come spesso accade, con la Corte di giustizia europea, che invece è, a tutti gli effetti, un’importante componente dell’architettura istituzionale comunitaria.
Gli strenui difensori dei princìpi liberali e democratici si dovrebbero porre il problema se sia giusto consegnare la sovranità popolare di un Paese membro della Ue nelle mani di 17 uomini delle più disparate estrazioni, visto che fanno attualmente parte della Corte anche giudici provenienti da Turchia, Macedonia, Albania, Montenegro, Moldavia, Georgia e persino dall’Azerbaigian. Sono costoro che hanno la facoltà di giudicare cultura, tradizioni, valori e leggi di Paesi civili e democratici del Vecchio Continente come l’Irlanda e l’Italia, accomunati – guarda caso – dal 'difetto' di essere entrambi di tradizione cattolica. Quando scoppiò il caso dei crocifissi, scoprimmo che il giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo in rappresentanza dell’Italia è Vladimiro Zagrebelsky, talmente imparziale da aver meritato il premio di 'Laico dell’anno 2008' conferitogli dalla Consulta torinese per la laicità delle istituzioni, aderente alla Ehf-Fhe, la Federazione umanista europea. E purtroppo abbiamo potuto già verificare che 'laicità' in questo caso non fa rima con 'terzietà' e neanche con 'serenità' (di giudizio).

Da “Avvenire” di domenica 3 gennaio 2010
L’ESTERNAZIONE DI UN MINISTRO DI ANKARA CONTRO LA CITTÀ DI BARI
Cose turche su san Nicola (ma non è un caso serio)
GIORGIO FERRARI

« Se costruiremo un museo a Demre, la prima cosa che faremo sarà quella di chiedere le spoglie di Babbo Natale».
Non è una battuta di un film dei fratelli Coen, è accaduto davvero. Il minaccioso avvertimento lo dobbiamo al ministro della cultura turco, Ertugul Gunay, che forse da bimbo fantasticava sulle figurine del Feroce Saladino, forse ha nostalgia delle rodomontate che noi europei abbiamo cantato tanto bene nelle Chansons de Geste medievali, o forse ancora la battuta gli è semplicemente sfuggita di bocca: fatto che sta che, a sentire Gunay, la Turchia pare proprio voler reclamare le spoglie di san Nicola, conservate come è noto a Bari, che l’intemerato ministro bolla come «città di pirati» e dalla quale vorrebbe strappare le reliquie del patrono per riportarle in Anatolia, precisamente a Demre, che un tempo si chiamava Myra, e dove Nicola fu vescovo nel quarto secolo.
Stiamo scherzando? Si spera, anche se è storicamente vero che nel 1087 una spedizione navale partita da Bari si impadronì delle spoglie del Santo che due anni più tardi furono poste definitivamente nella cripta della Basilica a lui dedicata. Ma che dire allora di tutti i tesori italiani finiti all’estero per mano di condottieri e saccheggiatori senza scrupoli? Dovessimo reclamarli, si svuoterebbero i musei di mezzo mondo, alcuni dei quali chiuderebbero i battenti. E come sorvolare sul fatto che della città di Myra i Turchi hanno cancellato storia cristiana e nome? Un pregio tuttavia l’alzata d’ingegno del ministro Gunay – che involontariamente ci mostra come la Turchia che anela a far parte della Ue stia già metabolizzando i difetti più antichi del Vecchio Continente – ce l’ha: quella di aver ricordato a coloro che non lo sanno che l’onnipresente Babbo Natale è in realtà una trasposizione relativamente recente della figura di san Nicola, santo generoso e apportatore di doni, venerato un po’ dovunque: fu infatti una campagna della Coca Cola americana a globalizzare negli anni Trenta del secolo scorso quel vecchio barbuto e vestito di rosso. I turchi dunque sono avvertiti: se fanno sul serio, dovranno seriamente considerare che un Santo cristiano non è un «bene culturale» commerciabile. E non si mette in museo

Da “Avvenire” di martedì 5 gennaio 2010
Anche in questa nostra epoca sotto il segno della torre e del povero
DAVIDE RONDONI

Due notizie apparentemente riferite a cose lontane colpiscono in questi giorni. Ieri è stata inaugurata a Dubai la torre grattacielo più alta del mondo. La Burj Khalifa di 828 metri di altezza. Su­pera di gran lunga le sorelle di Taipei (508) e le Petronas malesi di Kuala Lumpur (452).
Figuriamoci di quanto svetta su quei grattacielini oramai mignon che pur ci stupiscono ancora in giro per Manhattan o quelli progettati con gran sussiego a Milano. Però c’è un problema: Dubai è attraversata da una crisi profonda, e la torre che doveva gridarne la potenza e­conomica al mondo diviene un simbolo grottesco (e per metà sfitto, visto che gli appartamenti non son per nulla andati a ruba…). E l’altra notizia, ben approfon­dita da questo giornale domenica scor­sa, riguarda il numero di coloro che so­no in Europa a rischio povertà. Una cifra enorme, 78 milioni. A costoro un po’ di riparo viene dai cosiddetti 'ammortiz­zatori sociali'. E dalla gran carità diffusa tra il popolo.
La gran torre di Dubai è stata lanciata al cielo come segno di potenza. Facevano così già le famiglie medievali nelle no­stre città e nei bor­ghi d’Italia. Tra le due torri di Bolo­gna e questa nuova di Dubai corre un filo diretto: manifestazioni di pote­re e di prestigio. E l’Europa che si sta dotando di organi­smi politici di go­verno tesi a farne una potenza unica, scopre di avere co­sì tanti suoi abitanti sulla soglia della po­vertà. Due potenze che scoprono di non esserlo. O di esserlo molto meno di quan­to pensavano. La torre e il povero sono due segni della nostra epoca.
Forse i due principali segni della nostra epoca, si potrebbe dire come di ogni epoca. In ogni regno antico c’è stata la costruzione di torri e la plebe pian­gente. Così in ogni regno moderno e ora anche nella nostra epoca. Che pensa di essere diversa, che ha millantato per tan­to tempo d’essere la 'moderna', la 'nuo­va', la 'più avanzata', e invece si ritrova come le altre: con la torre che evoca un prestigio destinato a passare, e con le fol­le dei poveri vicino a casa, anzi in casa. C’è qualcosa di vertiginoso nell’accostare questi due segni. Queste due notizie sim­bolo. Dubai con il suo mercato finanzia­rio e immobiliare che parevano aver in­serito il turbo fino a pochi mesi fa, erano visti come la nuova mecca, il futuro. E l’Europa pur tra mille difficoltà raggiun­geva lo status di grande realtà politica, con un presidente, un ministro degli esteri (anche se quasi nessun europeo sa come si chiamano). Ma ecco che la grande co­struzione economico-finanziaria e la grande architettura politica mostrano la loro debolezza. La loro fragilità.
La torre e il povero. La torre in rovina già all’inaugurazione e il povero che non ces­sa di rovinare la festa alla corte dei po­tenti sono il segno anche della nostra e­poca. Che non è in definitiva né migliore né peggiore di quelle che i nostri avi si so­no trovati a vivere. Che non è più forte solo perché si autodefinisce più moderna. Il problema di ieri è anche il problema di oggi. Come ricorda il grande poeta Eliot: c’è qualcosa che non cambia nella storia degli uomini. Una lotta che non cambia. Tra bene e male, per la quale occorre es­sere buoni. La torre e il povero stanno ancora lì, come in ogni civiltà a ricordarci di cercare dav­vero quale è la nostra forza. Il Papa in que­sti giorni ha parlato di sobrietà e solida­rietà.
Solo l’uomo che ha una vera forza è capace di sobrietà e di solidarietà. È dei deboli il ricorso al lusso e all’egoismo. Ma allora, in questa nostra epoca ancora sot­to il segno della torre e del povero, da do­ve ci verrà la forza per costruire case per tutti e non totem, e ripari per chi ne ha bisogno? Da dove ci può venire la forza?

Da “Avvenire” di martedì 5 gennaio 2010
La seconda vita del pane “salvato” dal cassonetto DA MILANO PAOLO FERRARIO

Siticibo, Lastminute market e gli altri: ecco le storie di chi valorizza il recupero delle eccedenze alimentari e invita a sprecare di meno

Interi sacchi di pane destinati al­la spazzatura. Un pugno nello stomaco di quanti fanno fatica non solo ad arrivare alla fine del me­se ma, spesso, anche a coniugare il pranzo con la cena. L’allarme del pa­ne sprecato è ritornato drammati­camente in primo piano in questi giorni, insieme a quello per altre quantità di cibo gettate nella spaz­zatura. Ma è un trend inarrestabile? No. Da tempo infatti sono attive or­ganizzazioni che si occupano di rac­cogliere il pane in eccedenza e di di­stribuirlo ai poveri. Una di queste è Siticibo, che dal 2004 raccoglie e di­stribuisce cibo non consumato da refettori scolastici, mense aziendali, ospedali, alberghi, ristoranti e da al­tre strutture della ristorazione orga­nizzata (vedi dati nel grafico in pa­gina). L’idea è venuta a un’impren­ditrice milanese, Cecilia Canepa, che un pomeriggio, andando a recupe­rare i figli a scuola, ha assistito alla preparazione degli avanzi della men­sa per il camion della nettezza urba­na. Uno choc (che soltanto a Milano è quantificato in 180 quintali di pa­ne buttato ogni giorno) che presto si è tradotto in azione a beneficio di chi fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena.
Secondo gli ultimi dati Istat, in Ita­lia, dove si buttano, ogni anno, 6 mi­lioni di tonnellate di cibo, oltre 8 mi­lioni di persone non hanno la possi­bilità di avere una dieta alimentare diversificata e, rileva la Fondazione per la sussidiarietà, almeno 3 milio­ni sopravvivono in una condizione di vera e propria “povertà alimentare”. Dal 2004 al 2009, Siticibo, che fa ri­ferimento alla Fondazione Banco alimentare ed è presente in cinque città italiane (Milano, Como, Roma, Firenze e Modena), con i suoi 119 volontari ha raccolto e distribuito, ad 88 enti caritativi, 350 tonnellate di pane, per un controvalore commer­ciale di 770mila euro. «Nelle scuole dove raccogliamo il pa­ne non consumato – spiega la re­sponsabile nazionale di Siticibo, Giu­liana Malaguti – abbiamo assistito anche a profondi cambiamenti nel comportamento dei bambini nei confronti del cibo.
A loro raccontia­mo della fatica che, dal contadino che semina e raccoglie il grano fino al fornaio che lavora la farina e sfor­na le pagnotte, sta dietro alla roset­ta che trovano sul tavolo in mensa. È una metafora che fa centro e che spinge i bambini a rispettare il pane e a consumarlo con una consapevo­lezza maggiore, evitando di sprecar­lo ». Il pane non consumato dai piccoli milanesi finisce poi sulla tavola dei poveri ed emarginati. In questo sen­so, è molto interessante l’esperienza in atto con i Fra­telli di San France­sco, realtà che nella metropoli lombarda gestisce una mensa da 1.200 pasti al giorno. Il quantitati­vo di pane quotidia­namente necessario è garantito dalla rac­colta delle eccedenze alimentari di dodici scuole della città, che copro­no interamente il fabbisogno.
www. bancoalimentare.org
www.siticibo.it www. fratellisanfrancesco.it www.lastminutemarket.org

Trasformare lo spreco in risorsa è an­che l’obiettivo di Last minute market, un progetto della Facoltà di Agraria di Bologna, che da dieci an­ni raccoglie e ridistribuisce, a enti ca­ritativi che operano nel terzo setto­re, eccedenze alimentari in quaran­ta città italiane. Grazie a una fitta re­te di volontariato locale, è garantito il recupero “a chilometro zero”, «sen­za costi di trasporto e costi ambien­tali », come spiega il presidente An­drea Segrè, docente di Politica agra­ria internazionale e comparata. «Per favorire i più bisognosi – sottolinea il docente – non ci si può permette­re di sprecare neppure un minuto e nemmeno un prodotto». Di grande interesse è anche il risvol­to educativo che i volontari di Last minute market osservano tra i do­natori di cibo. «Nei punti di raccolta storici – racconta Segrè – le ecce­denze alimentari che noi intercet­tiamo sono sempre più contenute, segno che si produce e quindi si spreca di meno».
L’esperienza di Last minute market è stata presentata anche al recente K­limaforum di Copenaghen, in Dani­marca, dove il professor Segrè ha ri­velato che «il 10% delle emissioni di gas serra dei Paesi sviluppati deriva dalla produzione di cibo che viene giornalmente gettato». «Se il model­lo Last minute market venisse im­plementato sull’intero territorio ita­liano – aggiunge il professor Segrè – secondo i nostri studi sull’impatto ambientale, da tutto il settore distri­butivo dall’ingrosso al dettaglio, si potrebbero recuperare all’anno ben 244.252 tonnellate di cibo per un va­lore complessivo di 928.157.600 eu­ro. Sarebbe inoltre possibile fornire tre pasti al giorno a 636.600 persone e risparmiare 291.393 tonnellate di anidride carbonica che sono invece attualmente prodotte a causa dello smaltimento del cibo come rifiuto. Per neutralizzare tutta questa ani­dride carbonica sarebbero necessa­ri 586.205.532 metri quadrati di area boschiva equivalenti a 58.620 ettari o a 117.200 campi da calcio».

Da “Avvenire” di mercoledì 6 gennaio 2010
Radio inBlu vetrina di future popstar
Parte stasera «Effetto Notte Live» in cui gli artisti emergenti avranno a disposizione un’intera ora per far sentire la loro musica

Un passaporto per la po­polarità. Lo offre a par­tire da stasera il circui­to radiofonico cattolico Radio inBlu attraverso Effetto Notte Live, il nuovo programma de­dicato agli artisti emergenti ma di provata qualità, che cerca­no, spesso con enorme fatica, un piccolo e meritato angolo di notorietà.
A partire da stasera, ogni mer­coledì alle 22, negli studi ro­mani di Radio inBlu, ogni gio­vane avrà a disposizione un’o­ra di musica eseguita rigoro­samente dal vivo e alternata all’intervista al microfono di Paola De Simone. «Dare spazio agli emergenti – spiega la cu­ratrice e conduttrice del pro­gramma – è una scelta corag­giosa.
Se poi si sceglie di offri­re un intero programma a gio­vani senza etichetta chiamati a esibirsi dal vivo, allora la scommessa si fa più dura. Ma affascinante. Questo è quello che abbiamo deciso di fare con Effetto Notte Live, una tra­smissione che non ha traguar­di, ma tanta curiosità e voglia di esplorare nell’infinito sot­tobosco della musica indi­pendente. Una vetrina, un trampolino di lancio. Ma for­se qualcosa di più». Alla pun­tata integrale di Effetto Notte Live farà eco, la domenica suc­cessiva, la rubrica Provini (in onda alle 17.15) che conterrà un breve estratto dell’esibizio­ne del mercoledì e, non a ca­so, è anche il riferimento e­mail per iscriversi alle selezio­ni: provini@radioinblu.it.
Tutto è pronto, dunque, per l’esordio con Carlo Contoca­lakis che finora ha pubblicato un singolo e un ep e attual­mente sta lavorando, in piena autonomia, al suo primo disco di inediti. Carlo ha suonato molto dal vivo, tra concerti e festival. Nel suo curriculum c’è anche la vittoria al 'Premio 29 settembre', dedicato a Lucio Battisti.
Ora il taglio del nastro a Effet­to Notte Live. Con la speranza di un esordio beneaugurante per sé e per la nuova avventu­ra di inBlu, estesa a tutta Italia grazie alla fitta rete di radio lo­cali che animano il singolare circuito radiofonico. (P.F.)