sabato 16 gennaio 2010

12/12/2009 PortaParola Ravenna

Da “Avvenire” di martedì 8 dicembre 2009
L’IMMACOLATA E LA NOSTRA UMANITÀ
NEMICA DEL MALE AMATA PER SEMPRE
ERMES RONCHI

« Vergine, se tu non riappari / anche Dio sarà triste» (Turoldo). Se tu non riap­pari come alfabeto di speranza, come model­lo d’umano, il cristianesimo si fa triste, impo­verito di tutta la dimensione gioiosa e dan­zante del Magnificat, della dimensione gra­tuita e festosa del vino di Cana, di un Dio che privilegia non lo sforzo, ma il dono. Si impo­verisce del primo annuncio dell’angelo a Ma­ria: «Kaire, sii lieta, sii felice, tu sei colmata di grazia».
Questa parola mai risuonata prima nella Bib­bia, quel nome inaudito – Piena di grazia –, che ha il potere di stupire Maria perché nulla di si­mile aveva mai letto nel Libro, significa: tutto l’amore di Dio è su di te; significa: il tuo no­me è 'amata per sempre'.
L’annuncio dell’angelo si estende da Maria a ogni credente: gioisci, il tuo nome è 'amato per sempre, amato mistero di peccato e di bel­lezza'. In un mondo di disgrazia è possibile ancora trovare grazia, anzi è la grazia che tro­va noi. Questo nodo di ombra e di luce che compo­ne la nostra umanità profonda, è affiorato al­la coscienza della storia in molti modi, ad e­sempio nella architettura del romanico pisa­no e senese: sulle facciate, sulle fiancate, sui pilastri, sugli archi di queste chiese si alter­nano linee di pietre bianche e linee dal colo­re dell’ombra: verde scuro o nero. Questa al­ternanza di luce e di notte è la trascrizione sa­piente della profonda conoscenza dell’uomo che il grande Medioevo conservava. Il bianco e il nero che si alternano in ogni persona u­mana, il bene e il male che intrecciano profon­damente le loro radici nel cuore, spesso in mo­do inestricabile, in Maria non ci sono, lei è l’i­nizio dell’umanità finalmente riuscita.
«Non temere, Maria», aggiunge l’angelo. Lei è la donna senza paura. La paura entra nel mon­do dopo il peccato. Nel paradiso terrestre A­damo parla con Dio e con il serpente, e non ha paura. Poi volta le spalle a Dio, e la prima emozione che prova è la paura: mi sono na­scosto, ho avuto paura. Gli occhi della paura, la percezione di pericolo nascono con il ma­le, perché il peccato è minaccia per la vita, è l’anti-vita.
Prima della caduta niente e nessuno era pe­ricoloso per la vita, niente minaccioso. Il pec­cato porta il suo triste corteo di paure, perché in qualche modo percepiamo che è pericolo­so per la vita, è diminuzione d’umano, sot­trazione di esistenza. Tuttavia Immacolata non significa preserva­ta dalla lotta. Anche Lei ha lottato con il ser­pente, ha conosciuto la fatica del credere, la crescita nella fede, la noia del quotidiano, il do­lore lacerante e poi l’abbraccio pacificante.
Immacolata non significa senza tentazioni o senza fatica del cuore. Anche Eva era imma­colata, eppure è caduta, con il cuore diviso. I dogmi che si riferiscono a Maria riguardano anche noi, sono la grammatica per capire l’u­manità, per parlare la lingua di ogni uomo, perché il suo destino è il nostro. Celebriamo con l’Immacolata la festa di tutta la luce se­polta in noi e che dobbiamo liberare. Festa delle radici sante e profezia del nostro desti­no: 'amati e santi', santi perché amati (Rom 1,7).
Piena di grazia la dice l’angelo, Immacolata la proclama il popolo cristiano ed è la stessa co­sa. È bello risentire oggi, da Dio e dal suo an­gelo, i due nomi di Maria e, in Eva, di ogni creatura: nemica del male e amata per sem­pre. E ascoltare, in pagine piene di ali e di fes­sure sull’eterno, l’inedito: una donna che par­la con Dio e con gli angeli come un profeta o un patriarca. E per la prima volta, nei dialo­ghi con il cielo, è a una creatura della terra che spetta l’ultima parola.

Da “Avvenire” di sabato 5 dicembre 2009
Bagnasco: i nostri preti, un dono prezioso
Nella nuova lettera pastorale presentata ieri il cardinale si sofferma sul patrimonio liturgico custodito dalla Chiesa e sulla bellezza del sacerdozio Adriano Torti

GENOVA. L’Anno Sacerdotale è, per i presbiteri, «un’occasione per riscoprire la bellezza del sacerdozio», per tutto il popolo cristiano, «un’occasione per ripensare la preziosità dei nostri preti e del loro ministero come pastori delle comunità»: lo afferma l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, nella Lettera pastorale intitolata «È questo il vostro culto spirituale» che verrà consegnata durante le prossime benedizioni delle famiglie. Ai fedeli laici Bagnasco ha chiesto quindi di pregare per i propri sacerdoti, «di stare loro vicini, di aiutarli con discrezione e generosità, di crescere nella partecipazione responsabile alla vita della Chiesa». E, ha aggiunto, «la sorgente di tale corresponsabilità è il Battesimo» che «ci rende figli di Dio e fratelli in Cristo, abilita a partecipare, insieme ai Pastori, alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo».
«L’Anno Sacerdotale – ha aggiunto il cardinale Bagnasco – deve essere anche l’occasione per riscoprire il grande dono del 'sacerdozio battesimale'» proprio di tutti i cristiani e che «li rende partecipi del Sacerdozio di Gesù in modo essenzialmente diverso rispetto ai ministri ordinati ma reale». «La Chiesa – ha aggiunto – ha il compito di custodire il tesoro della preghiera liturgica e guidarne la celebrazione e le forme» perché «la liturgia è un patrimonio nostro ma non proprietà nostra: deve essere celebrata come la Chiesa indica». Anche se «la tentazione può essere quella di credere che la partecipazione attiva» alla liturgia «consista nel fare o dire qualcosa, di far entrare in azione il numero maggiore di persone, il più spesso possibile», «per entrare nel mistero eucaristico, per parteciparvi attivamene e rimanerne trasformati» serve invece «il desiderio profondo, la decisione sincera di perderci in Dio, di affidarci anima e corpo, intelligenza e cuore, alla sua volontà». «È questo – ha affermato ancora – il modo vero e concreto, profondo ed efficace, della nostra personale partecipazione: è la trasformazione della nostra volontà nella comunione di volontà con Dio insieme a Cristo, l’unico sacerdote sommo ed eterno».

Da “Avvenire” di giovedì 10 dicembre 2009
UNA MOBILITAZIONE CHE CONTINUA E LA TESTIMONIANZA FORTE DEI NUCLEI NUMEROSI
La calda voce delle famiglie interpella una politica fredda
Torniamo a chiedere se non sia proprio questo il tempo di investire sui nuclei con figli. Perché, come dimostra anche l’ultimo rapporto Censis, sono quelli che tengono a galla il Paese

DOMENICO DELLE FOGLIE

Per chi conosce la topografia ' politica' della piazze romane, sa bene quanta importanza abbiano e quanto potere evocativo smuovano, rispettivamente, Piazza San Giovanni in Laterano e Piazza del Popolo. Due piazze storiche, luoghi delle grandi manifestazioni di popolo, romane e italiane. Come in un ideale passaggio di consegne, domenica scorsa, in Piazza del Popolo c’è stata la consegna del testimone fra il Family Day ( tenutosi esattamente il 12 maggio del 2007 nella piazza della basilica romana) e le Famiglie numerose. Una parte non riassume ovviamente il tutto, ma appunto lo testimonia. E, in questo caso, con particolare forza. In nome di quel popolo delle famiglie che a ciclo continuo si ritrova in ogni parte d’Italia protagonista di iniziative dal basso e che domenica scorsa ha fatto sentire, ancora una volta, la propria voce nella capitale, chiedendo, con la semplicità dei gesti, un’attenzione diversa da parte di chi regge le sorti della comunità.
È appena il caso di ricordare il ruolo che in questi anni ha avuto il Forum delle associazioni familiari nell’elaborazione delle politiche familiari. Un ruolo pubblico di tutto rilievo che ha avuto sempre interlocutori attenti nelle aule parlamentari e che ha registrato il culmine in un’iniziativa dall’enorme impatto pubblico qual è stata il Family Day. Ma cosa è accaduto in questi due anni e mezzo da quel 12 maggio del 2007, tanto da spingere l’Associazione delle famiglie numerose, uno dei punti di forza del grande cartello del Forum, a convocare a Roma i suoi 9mila iscritti che ad ogni buon titolo rappresentano gli oltre 100mila nuclei con quattro e più figli? È accaduto che la temperatura della politica nei confronti della famiglia si sia nel tempo progressivamente abbassata. Al punto da indurre chi si trova nelle maggiori difficoltà – pensate quanto possa pesare l’impatto della crisi economica su una famiglia con quattro- sei- otto figli – a far sentire alta e forte la propria voce e a chiedere misure immediate di sostegno. Loro se ne sono assunti la responsabilità, ma lo hanno fatto in nome e per conto di tutte le famiglie italiane, stanche delle promesse di aiuti che non vengono mai.
Spesso si sente dire che per le politiche familiari bisogna aspettare tempi migliori, magari quando le casse dello Stato torneranno a riempirsi. Ora, dubitare è lecito, perché il Paese vive di emergenze continue. Torniamo, perciò, a chiedere se non sia proprio questo il tempo di investire sulla famiglia. Se, come è dimostrato da tutte le ricerche, rapporto Censis in testa, sono proprio le famiglie a tenere a galla il Paese, allora non sarà giunto il momento di rischiare per aiutarle? Certo, saremmo ingenerosi con governo e Parlamento se sottovalutassimo il valore degli investimenti pubblici fatti nel 2009 a tutela del lavoro, nelle forme più disparate, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali.
Eppure, ci chiediamo se non ci sia ancora uno spazio, sia in Finanziaria sia nei bilanci degli enti locali, per avviare un serio e organico sostegno alle famiglie, soprattutto – come ha sollecitato Benedetto XVI – quelle numerose. Da questo punto di vista, molto possono fare i Comuni. Il caso di Parma sta lì a dimostrare che si può. E in questa prospettiva appaiono assolutamente confortanti gli impegni assunti in Piazza del popolo dal sindaco di Roma Gianni Alemanno. Sarebbe esemplare per tutta Italia se la capitale adottasse, sia pure gradualmente, il quoziente familiare per la tassazione locale e per l’erogazione dei servizi. Una scelta coraggiosa che merita un incoraggiamento. Forse aiuterebbe a togliere la patente di ' eroe civile' a chi oggi decide di avere un figlio in più. Non ' eroi civili', ma semplici papà e mamma responsabili e generosi.

Da “Avvenire” di martedì 8 dicembre 2009

NOI GIORNALISTI
UN PROBLEMA ENORME RESTA APERTO
MARCO TARQUINIO

Noi non facciamo titoli a tutta pagina. O, meglio, non li facciamo quasi mai. Quello che pubblichiamo oggi, infatti, non è un titolo nostro. È un titolo di tutti, perché siamo dispo­sti a prestarlo a tutti in questo Paese dove nes­suno corregge mai, o quasi mai, con evidenza i propri errori. Lo prestiamo a ognuno di noi di Av­venire (che pure facciamo una ragione profes­sionale forte dell’accurata verifica dei fatti) e a tutti i colleghi giornalisti: troppo spesso la no­stra categoria maneggia con noncuranza, e a volte anche con ferocia, fatti e accuse (soprat­tutto su chi, a torto o ragione, è ritenuto vulne­rabile) e non rettifica mai, quasi mai, con evi­denza le imprecisioni, le storture, le falsità che mette in circolazione. Lo prestiamo a tutti colo­ro che sono convinti che ci siano, sempre, al­meno due verità. E lo prestiamo a Vittorio Fel­tri, che evidentemente di titoli a tutte colonne (nove in dieci giorni tre mesi fa) su Dino Boffo non ha più intenzione di farne. È un fatto che il direttore del 'Giornale', ieri, ha avuto fegato. Dopo quasi cento giorni, alla sua maniera (sem­pre ruvida) ha corretto la rotta. Una manovra difficile, condotta a denti stretti, sapendo di a­vere più che buoni e stringenti motivi per non sottrarsi al dovere verso l’interessato, i propri let­tori e l’intera opinione pubblica (io – non lo na­scondo – l’avrei affrontata in modo assai diver­so, ma ognuno mette nel nostro mestiere quel che ritiene e che può). Davvero non so quanti al­tri avrebbero fatto quel che Feltri ha fatto, sin dal principio. Certo lui un gesto così non lo a­veva ancora osato. È un gesto che impressiona, interroga e fa ru­more. Come tutti quelli che l’avevano precedu­to, eppure in modo infinitamente migliore. Per­ché ribadisce – e dovrebbe fare chiaro a tutti – che la verità dei fatti può essere maltrattata, stiracchiata, persino negata, ma è una sola. E la ve­rità su Dino Boffo, galantuomo e direttore di que­sto giornale per tre bellissimi lustri, è sempre stata una: quella che noi abbiamo detto e scrit­to sin dal principio con la sobrietà che lui stes­so ci aveva chiesto di tenere cara e che ora Fel­tri gli riconosce dicendo che «non può non su­citare ammirazione». La verità su Dino Boffo è quella che la sua vita – passata negli ultimi qua­rant’anni in una casa di cristallo – racconta. Ce l’eravamo detto – no?– che anche il tempo, giu­dice inesorabile, sarebbe stato galantuomo. Sta­volta non abbiamo dovuto attendere molto, an­che se ogni giorno è stato uno di troppo.
Forse qualche lettore penserà che il nostro tito­lo è imponente e il nostro ragionamento è tutto sommato modesto. Forse chi non conosce be­ne noi di Avvenire rimarrà interdetto. Dov’è il clangor di sciabole? Dove sono le rivalse, le con­troaccuse, le scudisciate? Sono altrove. Noi fac­ciamo battaglie, non guerre. Indichiamo pro­blemi e, quando possiamo, soluzioni, non spu­tiamo sentenze. E siamo e restiamo preoccupa­ti. Perché un atto di riparazione dopo una smi­surata operazione denigratoria è stato, in qual­che modo, compiuto, ma un problema enorme resta aperto.
Oggi più che mai noi giornalisti dobbiamo ave­re il coraggio di ammettere che il più lancinan­te dei problemi che attanagliano il mondo del­l’informazione non è quello della libertà, ma quello della responsabilità. Responsabilità ver­so la realtà dei fatti, verso chi ci legge e ci ascol­ta, verso noi stessi. Stavolta era stato uno di noi, uno dei migliori tra noi, a finire immotivata­mente nel tritacarne. È rimasto in piedi nono­stante tutto, perché è un uomo probo e ha la li­bertà di chi vive una vita spirituale intensa. E ha potuto ricevere pubblica soddisfazione (doma­ni capiremo fino a che punto) dal pubblico ri­pensamento di Feltri. Ma chi non è altrettanto forte moralmente, chi è solo e disperato, chi non è conosciuto da tanti per ciò che davvero è, chi non è in condizione di ottenere (o anche solo a­spirare a ottenere) riparazione nel sommario 'tribunale' dei mass media? È una domanda an­cora senza accenno di risposta. E da essa non possiamo e non dobbiamo distoglierci.

Da “Avvenire” di giovedì 10 dicembre 2009
Fede, il Papa: «Senza Dio l'umanità si autodistrugge»

"Quando Dio sparisce dall'orizzonte dell'uomo, l'umanità perde l'orientamento e rischia di compiere passi verso la distruzione di se stessa". Ce lo insegnano, afferma Benedetto XVI, "le esperienze del passato, anche non lontano". Con queste parole, lette dal segretario della Cei Mariano Crociata, si è aperto il Convegno "Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto", promosso dal card. Camillo Ruini e dal Comitato per il Progetto Culturale della Chiesa Italiana da lui presieduto.
"La questione di Dio - scrive il Papa - è centrale anche per la nostra epoca, nella quale spesso si tende a ridurre l'uomo ad una sola dimensione, quella 'orizzontale', ritenendo irrilevante per la sua vita l'apertura al Trascendente". "La fede in Dio - ricorda Ratzinger - apre all'uomo l'orizzonte di una speranza certa, che non delude; indica un solido fondamento su cui poter poggiare senza timore la vita; chiede di abbandonarsi con fiducia nelle mani dell'Amore che sostiene il mondo". E dunque, "la relazione con Dio è essenziale per il cammino dell'umanità e la Chiesa e ogni cristiano hanno proprio il compito di rendere Dio presente in questo mondo, di cercare di aprire agli uomini l'accesso a Dio".
Benedetto XVI incoraggia quindi la Chiesa Italiana a operare sul piano della cultura riproponendo il Vangelo "in una situazione culturale e spirituale come quella che stiamo vivendo, dove cresce la tendenza a relegare Dio nella sfera privata, a considerarlo come irrilevante e superfluo, o a rifiutarlo esplicitamente", il Papa auspica che "questo evento possa contribuire almeno a diradare quella penombra che rende precaria e timorosa per l'uomo del nostro tempo l'apertura verso Dio, sebbene Egli non cessi mai di bussare alla nostra porta". "L'ampiezza di approccio alla importante tematica, che caratterizza l'incontro - rileva il Pontefice - permetterà di tracciare un quadro ricco e articolato della questione di Dio, ma soprattutto sarà di stimolo per una più profonda riflessione sul posto che occupa Dio nella cultura e nella vita del nostro tempo".

La prolusione del card. Bagnasco. "La verità cristiana conosce solo la forza persuasiva delle buone ragioni che la sostengono e dell'amore disinteressato che la propone; non segue la via della strumentalizzazione e della persuasione occulta, conosce invece il dialogo, aperto e franco, chiaro nella propria identità e rispettoso dell'interlocutore". Lo ha affermato il card. Angelo Bagnasco nella prolusione da lui tenuta oggi al Convegno. "Generata dall'amore", la verità cristiana, ha scandito, "non comprime ma esalta la libera scelta dell'uomo". "In un mondo fatto incerto e quasi scettico dal diffondersi della sindrome relativistica, in cui la passione e la stima per le grandi questioni paiono assopite, in cui la ragione strumentale e pragmatica sembra farla da padrona - ha detto Bagnasco - ogni discorso su realtà certe, assolute e trascendenti, rischia di essere respinto, inesorabilmente, nel recinto circoscritto dell'opinabile soggettivo".
La questione di Dio, ha ricordato il presidente della Cei, "non è un interrogativo astratto, ma penetra nel profondo le fibre dell'uomo interiore". Ed è una "domanda che si fa pressante proprio in questo nostro tempo, proprio quando diffusi processi di rimozione culturale tendono ad emarginarla". Soprattutto nel mondo occidentale, la questione di Dio è lasciata fuori dai percorsi abituali della cultura", ha rilevato il cardinale sottolineando che "emarginata e psicologicamente rimossa, essa si presenta però, insopprimibile com'è nel profondo del cuore umano, sotto mentite spoglie". Secondo il cardinale Bagnasco, "molte forme del cosiddetto ritorno del sacro, purtroppo, segnate da sentimentalismo ed emotivismo, finiscono per avallare l'opinione diffusa che religione e ragione appartengano a due mondi, se non contrapposti, quantomeno incomunicabili". Di fronte a tale rischio, per il porporato, è necessario "rivendicare con rispettosa parresia la dignità e la rilevanza culturale del Vangelo, capace di interpretare l'esistenza e di orientare l'uomo viandante del nostro tempo, di ogni tempo".
Del resto, ha spiegato l'arcivescovo di Genova, "la questione di Dio non è una investigazione astratta, avulsa dalla realtà del quotidiano, ma la domanda cruciale, da cui dipende radicalmente la scoperta del senso (o del non senso) del mondo e della vita: della propria vita personale". "Dio - ha aggiunto il porporato - si avvicina al viandante di ogni tempo: se l'uomo ascolta la Sua voce, allora comincia a ritrovare se stesso".

Da “Avvenire” di mercoledì 9 dicembre 2009
IL SUGGERIMENTO DI BENEDETTO
CAPOVOLGIAMO LO SGUARDO MA PER DAVVERO
MARINA CORRADI

«Ogni giorno attraverso i giorna­li, la televisione, la radio, il ma­le viene raccontato, ripetuto, amplifi­cato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci » . Il Papa che ha parlato ieri, nel giorno del­l’Immacolata, a piazza di Spagna, mo­stra di ben conoscere Roma, e le altre nostre città. Di ben sapere come ogni mattina già dalle prime ore i giornali radio ci raccontino questa Italia di scontri, risse politiche, ricatti; di scan­dali, che paiono tanto diffusi da non ri­sparmiare più nessuno; di violenze e delitti, a volte premeditati, a volte ap­parentemente nati per una spontanea ferocia, come dal caso.
Mostra, il Papa, di ben sapere come queste storie, che giornali e tv ripeto­no amplificandole mille volte – cerchio di un sasso nell’acqua, che continua a allargarsi – catturino la nostra atten­zione e ci rimangano quasi oltre la so­glia della coscienza, mentre andiamo avanti a lavorare. Come una musica che resti nelle orecchie; e che ripeta, un giorno dopo l’altro, che attorno a noi tutto o quasi è guasto, ferito, o corrot­to, e che l’idea e la speranza di un con­diviso bene comune vanno smarren­dosi in questo vivere litigioso, spesso ostile, e talvolta spietato. Dove al cen­tro del circo cade magari un giorno un uomo fino a allora stimato, e improv­visamente è sommerso di vergogna; oppure più spesso uno sconosciuto – un ' invisibile', dice Benedetto XVI – che si trascina ai margini della vita al­trui; e subito gli stanno addosso, come fiere, i microfoni e i riflettori, avidi di squadernare quelle vite al pubblico, quali roba da voracemente consuma­re. O addirittura da spiare, nei video e nelle registrazioni puntualmente diffusi; senza imbarazzo, e anzi con una pronta attitudine a farci, di quelle altrui storie, rigidi censori.
Come conosce bene, il Papa, le nostre città. Sa che la dinamica del circo mediatico è «di farci sentire tutti spettato­ri, come se il male riguardasse sola­mente gli altri, e certe cose a noi non potessero accadere». (Quegli indici te­si a accusare, come gli uomini contro l’adultera, cui Gesù disse solo: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pie­tra ». La ostinata tentazione di creder­ci, noi, liberi dal male). Invece, ci viene detto, «siamo tutti at­tori ». Del bene e del male. Nessuno è e­straneo, e nessuno può dire «non c’en­tro ». La città vive anche di quanto o­gnuno di noi oggi farà. Quei volti, per esempio, che ogni giorno incontriamo, oppure quelli che vediamo e rivedia­mo, esposti alla giostra, in tv: tutti vol­ti di uomini. Noi, dice il Papa, «vedia­mo tutto in superficie». Ma dietro ogni faccia c’è una storia, un’anima, una profondità che i titoli spesso appiatti­scono e annichiliscono. In una povertà che avvilisce e svuota anche chi sta a guardare. ( Come tacitamente chie­dendoci in quale mondo abbiamo fat­to nascere i nostri figli: che mai vor­remmo vedere trattati così, come cose). Cosa dice Maria alla città?, si è chiesto il Papa a piazza di Spagna. Ha risposto: insegna a guardare agli altri come li guarda Dio. « A guardarli con miseri­cordia, con tenerezza infinita, special­mente i più soli e disprezzati».
Che rivoluzione: dall’indice puntato, dalla 'onesta' indignazione, alla co­scienza di un male che tutti ci riguar­da, in una comune povertà, e dunque all’abbraccio di una misericordia au­tenticamente materna. Alla memoria della straordinaria promessa delle lettera di Paolo ai Romani: «Dove ha ab­bondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia». Che capovolgimento inau­dito in quello sguardo, ogni volta che un cristiano se ne lascia prendere. Ri­cominciando ogni mattina. Senza a­stio, senza scandalo, senza grida. Più forte del clamore dei titoli dei giorna­li, lo sconvolgente annuncio di un Dio che largamente perdona.

Da “Avvenire” di domenica 6 dicembre 2009
Onna ricomincia dalla chiesa Dono del Trentino all’Abruzzo
DA ONNA (L’AQUILA) ALESSIA GUERRIERI

Un raggio di sole squarcia la neb­bia andando ad illuminare il na­stro inaugurale proprio mentre viene tagliato. Poi con il suono della cam­pana si spalancano le porte della nuova chiesa di Onna, intitolata alla Madonna delle Grazie. Quella campana tanto a­mata, perché estratta integra dalle ma­cerie, ha accompagnato in questi mesi gli onnesi nella preghiera. Per lei, infat­ti, era stato costruito accanto alla tenda chiesa una pic­colo campanile perché conti­nuasse ogni giorno a suona­re al calar della sera. È appunto lei ad annuncia­re, ma dall’alto di quello in le­gno, che il vil­laggio della soli­darietà di Onna è davvero com­pletato grazie al buon cuore dei trenti­ni. Sono loro infatti, gli artisti del legno della Val di Sole, ad aver promesso una nuova chiesa entro Natale proprio a quel borgo che più di tutti ha pagato un prez­zo alto il 6 aprile. Centotrenta metri qua­dri che cercano di riproporre gli elementi caratteristici del rinascimento abruzze­se; non una chiesa trentina, dunque, ma una che gli aquilani sentano come pro­pria, perché ispirata alle loro chiese di­strutte. È entrando nella nuova casa del Signo­re che però si comprende il profondo le­game tra le due terre; sull’altare, infatti, c’è una piccola statua di San Vigilio, il patrono del Trentino. «San Vigilio – spie­ga l’arcivescovo di Trento, Luigi Bressan – era un evangelizzatore, nel suo pere­grinare ha voluto fondare anche un asi­lium per ospitare i bisognosi; un aiuto che cerchiamo di dare anche noi con questo luogo di culto che invita alla pre­ghiera, alla riflessione». La gente qui non ha mai vacillato: insieme dal primo gior­no in tenda, insieme nell’entrare dentro le casette, insieme nel festeggiare l’ulti­mo tassello che mancava alla nuova On­na. «È bello pensare come in un paese che ha tanto sofferto, oltre alle case – pre­cisa l’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari – ci sarà anche la casa del Si­gnore, un luogo che scandirà i tempi di questa comunità, un luogo di rinascita». La soddisfazione più grande è però quel­la del parroco, don Cesare Cardozo; que­sta è una tappa fondamentale, sottoli­nea, nel percorso della ricostruzione spi­rituale di questa gente: «Da oggi la co­munità ritroverà un proprio spazio di in­timità con Dio.
L’inaugurazione arriva alla conclusione della prima settimana di Avvento, un periodo che vogliamo sia un’occasione di attesa e di speranza per tutti». Sarà un Natale nel vero spirito cri­stiano per Onna, ma anche per i trenti­ni che dopo aver collaborato nell’emer­genza, pensano anche alla rinascita del­l’Abruzzo, « non solo nel suo bisogno strutturale – precisa il presidente della Provincia, Lorenzo Dellai – ma per far ri­sorgere lo spirito di questa gente». Soli­darietà e sobrietà, le parole d’ordine dei trentini e di tanti che nell’ombra lavora­no per l’Abruzzo. Il successo del volontariato si aggiunge a quello meno ufficiale de­gli onnesi. «Ho perso tutto – dice una si­gnora ferma sul ciglio della chiesa – ci hanno donato le case, ma ora sentirò di nuovo il rintocco della nostra campana e questo è il segno che la vita qui è dav­vero ricominciata».

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