Da “Avvenire” di martedì 8 dicembre 2009
L’IMMACOLATA E LA NOSTRA UMANITÀ
NEMICA DEL MALE AMATA PER SEMPRE ERMES RONCHI
« Vergine, se tu non riappari / anche Dio sarà triste» (Turoldo). Se tu non riappari come alfabeto di speranza, come modello d’umano, il cristianesimo si fa triste, impoverito di tutta la dimensione gioiosa e danzante del Magnificat, della dimensione gratuita e festosa del vino di Cana, di un Dio che privilegia non lo sforzo, ma il dono. Si impoverisce del primo annuncio dell’angelo a Maria: «Kaire, sii lieta, sii felice, tu sei colmata di grazia».
Questa parola mai risuonata prima nella Bibbia, quel nome inaudito – Piena di grazia –, che ha il potere di stupire Maria perché nulla di simile aveva mai letto nel Libro, significa: tutto l’amore di Dio è su di te; significa: il tuo nome è 'amata per sempre'.
L’annuncio dell’angelo si estende da Maria a ogni credente: gioisci, il tuo nome è 'amato per sempre, amato mistero di peccato e di bellezza'. In un mondo di disgrazia è possibile ancora trovare grazia, anzi è la grazia che trova noi. Questo nodo di ombra e di luce che compone la nostra umanità profonda, è affiorato alla coscienza della storia in molti modi, ad esempio nella architettura del romanico pisano e senese: sulle facciate, sulle fiancate, sui pilastri, sugli archi di queste chiese si alternano linee di pietre bianche e linee dal colore dell’ombra: verde scuro o nero. Questa alternanza di luce e di notte è la trascrizione sapiente della profonda conoscenza dell’uomo che il grande Medioevo conservava. Il bianco e il nero che si alternano in ogni persona umana, il bene e il male che intrecciano profondamente le loro radici nel cuore, spesso in modo inestricabile, in Maria non ci sono, lei è l’inizio dell’umanità finalmente riuscita.
«Non temere, Maria», aggiunge l’angelo. Lei è la donna senza paura. La paura entra nel mondo dopo il peccato. Nel paradiso terrestre Adamo parla con Dio e con il serpente, e non ha paura. Poi volta le spalle a Dio, e la prima emozione che prova è la paura: mi sono nascosto, ho avuto paura. Gli occhi della paura, la percezione di pericolo nascono con il male, perché il peccato è minaccia per la vita, è l’anti-vita.
Prima della caduta niente e nessuno era pericoloso per la vita, niente minaccioso. Il peccato porta il suo triste corteo di paure, perché in qualche modo percepiamo che è pericoloso per la vita, è diminuzione d’umano, sottrazione di esistenza. Tuttavia Immacolata non significa preservata dalla lotta. Anche Lei ha lottato con il serpente, ha conosciuto la fatica del credere, la crescita nella fede, la noia del quotidiano, il dolore lacerante e poi l’abbraccio pacificante.
Immacolata non significa senza tentazioni o senza fatica del cuore. Anche Eva era immacolata, eppure è caduta, con il cuore diviso. I dogmi che si riferiscono a Maria riguardano anche noi, sono la grammatica per capire l’umanità, per parlare la lingua di ogni uomo, perché il suo destino è il nostro. Celebriamo con l’Immacolata la festa di tutta la luce sepolta in noi e che dobbiamo liberare. Festa delle radici sante e profezia del nostro destino: 'amati e santi', santi perché amati (Rom 1,7).
Piena di grazia la dice l’angelo, Immacolata la proclama il popolo cristiano ed è la stessa cosa. È bello risentire oggi, da Dio e dal suo angelo, i due nomi di Maria e, in Eva, di ogni creatura: nemica del male e amata per sempre. E ascoltare, in pagine piene di ali e di fessure sull’eterno, l’inedito: una donna che parla con Dio e con gli angeli come un profeta o un patriarca. E per la prima volta, nei dialoghi con il cielo, è a una creatura della terra che spetta l’ultima parola.
Da “Avvenire” di sabato 5 dicembre 2009
Bagnasco: i nostri preti, un dono prezioso
Nella nuova lettera pastorale presentata ieri il cardinale si sofferma sul patrimonio liturgico custodito dalla Chiesa e sulla bellezza del sacerdozio Adriano Torti
GENOVA. L’Anno Sacerdotale è, per i presbiteri, «un’occasione per riscoprire la bellezza del sacerdozio», per tutto il popolo cristiano, «un’occasione per ripensare la preziosità dei nostri preti e del loro ministero come pastori delle comunità»: lo afferma l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, nella Lettera pastorale intitolata «È questo il vostro culto spirituale» che verrà consegnata durante le prossime benedizioni delle famiglie. Ai fedeli laici Bagnasco ha chiesto quindi di pregare per i propri sacerdoti, «di stare loro vicini, di aiutarli con discrezione e generosità, di crescere nella partecipazione responsabile alla vita della Chiesa». E, ha aggiunto, «la sorgente di tale corresponsabilità è il Battesimo» che «ci rende figli di Dio e fratelli in Cristo, abilita a partecipare, insieme ai Pastori, alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo».
«L’Anno Sacerdotale – ha aggiunto il cardinale Bagnasco – deve essere anche l’occasione per riscoprire il grande dono del 'sacerdozio battesimale'» proprio di tutti i cristiani e che «li rende partecipi del Sacerdozio di Gesù in modo essenzialmente diverso rispetto ai ministri ordinati ma reale». «La Chiesa – ha aggiunto – ha il compito di custodire il tesoro della preghiera liturgica e guidarne la celebrazione e le forme» perché «la liturgia è un patrimonio nostro ma non proprietà nostra: deve essere celebrata come la Chiesa indica». Anche se «la tentazione può essere quella di credere che la partecipazione attiva» alla liturgia «consista nel fare o dire qualcosa, di far entrare in azione il numero maggiore di persone, il più spesso possibile», «per entrare nel mistero eucaristico, per parteciparvi attivamene e rimanerne trasformati» serve invece «il desiderio profondo, la decisione sincera di perderci in Dio, di affidarci anima e corpo, intelligenza e cuore, alla sua volontà». «È questo – ha affermato ancora – il modo vero e concreto, profondo ed efficace, della nostra personale partecipazione: è la trasformazione della nostra volontà nella comunione di volontà con Dio insieme a Cristo, l’unico sacerdote sommo ed eterno».
Da “Avvenire” di giovedì 10 dicembre 2009
UNA MOBILITAZIONE CHE CONTINUA E LA TESTIMONIANZA FORTE DEI NUCLEI NUMEROSI
La calda voce delle famiglie interpella una politica fredda
Torniamo a chiedere se non sia proprio questo il tempo di investire sui nuclei con figli. Perché, come dimostra anche l’ultimo rapporto Censis, sono quelli che tengono a galla il Paese
DOMENICO DELLE FOGLIE
Per chi conosce la topografia ' politica' della piazze romane, sa bene quanta importanza abbiano e quanto potere evocativo smuovano, rispettivamente, Piazza San Giovanni in Laterano e Piazza del Popolo. Due piazze storiche, luoghi delle grandi manifestazioni di popolo, romane e italiane. Come in un ideale passaggio di consegne, domenica scorsa, in Piazza del Popolo c’è stata la consegna del testimone fra il Family Day ( tenutosi esattamente il 12 maggio del 2007 nella piazza della basilica romana) e le Famiglie numerose. Una parte non riassume ovviamente il tutto, ma appunto lo testimonia. E, in questo caso, con particolare forza. In nome di quel popolo delle famiglie che a ciclo continuo si ritrova in ogni parte d’Italia protagonista di iniziative dal basso e che domenica scorsa ha fatto sentire, ancora una volta, la propria voce nella capitale, chiedendo, con la semplicità dei gesti, un’attenzione diversa da parte di chi regge le sorti della comunità.
È appena il caso di ricordare il ruolo che in questi anni ha avuto il Forum delle associazioni familiari nell’elaborazione delle politiche familiari. Un ruolo pubblico di tutto rilievo che ha avuto sempre interlocutori attenti nelle aule parlamentari e che ha registrato il culmine in un’iniziativa dall’enorme impatto pubblico qual è stata il Family Day. Ma cosa è accaduto in questi due anni e mezzo da quel 12 maggio del 2007, tanto da spingere l’Associazione delle famiglie numerose, uno dei punti di forza del grande cartello del Forum, a convocare a Roma i suoi 9mila iscritti che ad ogni buon titolo rappresentano gli oltre 100mila nuclei con quattro e più figli? È accaduto che la temperatura della politica nei confronti della famiglia si sia nel tempo progressivamente abbassata. Al punto da indurre chi si trova nelle maggiori difficoltà – pensate quanto possa pesare l’impatto della crisi economica su una famiglia con quattro- sei- otto figli – a far sentire alta e forte la propria voce e a chiedere misure immediate di sostegno. Loro se ne sono assunti la responsabilità, ma lo hanno fatto in nome e per conto di tutte le famiglie italiane, stanche delle promesse di aiuti che non vengono mai.
Spesso si sente dire che per le politiche familiari bisogna aspettare tempi migliori, magari quando le casse dello Stato torneranno a riempirsi. Ora, dubitare è lecito, perché il Paese vive di emergenze continue. Torniamo, perciò, a chiedere se non sia proprio questo il tempo di investire sulla famiglia. Se, come è dimostrato da tutte le ricerche, rapporto Censis in testa, sono proprio le famiglie a tenere a galla il Paese, allora non sarà giunto il momento di rischiare per aiutarle? Certo, saremmo ingenerosi con governo e Parlamento se sottovalutassimo il valore degli investimenti pubblici fatti nel 2009 a tutela del lavoro, nelle forme più disparate, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali.
Eppure, ci chiediamo se non ci sia ancora uno spazio, sia in Finanziaria sia nei bilanci degli enti locali, per avviare un serio e organico sostegno alle famiglie, soprattutto – come ha sollecitato Benedetto XVI – quelle numerose. Da questo punto di vista, molto possono fare i Comuni. Il caso di Parma sta lì a dimostrare che si può. E in questa prospettiva appaiono assolutamente confortanti gli impegni assunti in Piazza del popolo dal sindaco di Roma Gianni Alemanno. Sarebbe esemplare per tutta Italia se la capitale adottasse, sia pure gradualmente, il quoziente familiare per la tassazione locale e per l’erogazione dei servizi. Una scelta coraggiosa che merita un incoraggiamento. Forse aiuterebbe a togliere la patente di ' eroe civile' a chi oggi decide di avere un figlio in più. Non ' eroi civili', ma semplici papà e mamma responsabili e generosi.
Da “Avvenire” di martedì 8 dicembre 2009
NOI GIORNALISTI
UN PROBLEMA ENORME RESTA APERTO MARCO TARQUINIO
Noi non facciamo titoli a tutta pagina. O, meglio, non li facciamo quasi mai. Quello che pubblichiamo oggi, infatti, non è un titolo nostro. È un titolo di tutti, perché siamo disposti a prestarlo a tutti in questo Paese dove nessuno corregge mai, o quasi mai, con evidenza i propri errori. Lo prestiamo a ognuno di noi di Avvenire (che pure facciamo una ragione professionale forte dell’accurata verifica dei fatti) e a tutti i colleghi giornalisti: troppo spesso la nostra categoria maneggia con noncuranza, e a volte anche con ferocia, fatti e accuse (soprattutto su chi, a torto o ragione, è ritenuto vulnerabile) e non rettifica mai, quasi mai, con evidenza le imprecisioni, le storture, le falsità che mette in circolazione. Lo prestiamo a tutti coloro che sono convinti che ci siano, sempre, almeno due verità. E lo prestiamo a Vittorio Feltri, che evidentemente di titoli a tutte colonne (nove in dieci giorni tre mesi fa) su Dino Boffo non ha più intenzione di farne. È un fatto che il direttore del 'Giornale', ieri, ha avuto fegato. Dopo quasi cento giorni, alla sua maniera (sempre ruvida) ha corretto la rotta. Una manovra difficile, condotta a denti stretti, sapendo di avere più che buoni e stringenti motivi per non sottrarsi al dovere verso l’interessato, i propri lettori e l’intera opinione pubblica (io – non lo nascondo – l’avrei affrontata in modo assai diverso, ma ognuno mette nel nostro mestiere quel che ritiene e che può). Davvero non so quanti altri avrebbero fatto quel che Feltri ha fatto, sin dal principio. Certo lui un gesto così non lo aveva ancora osato. È un gesto che impressiona, interroga e fa rumore. Come tutti quelli che l’avevano preceduto, eppure in modo infinitamente migliore. Perché ribadisce – e dovrebbe fare chiaro a tutti – che la verità dei fatti può essere maltrattata, stiracchiata, persino negata, ma è una sola. E la verità su Dino Boffo, galantuomo e direttore di questo giornale per tre bellissimi lustri, è sempre stata una: quella che noi abbiamo detto e scritto sin dal principio con la sobrietà che lui stesso ci aveva chiesto di tenere cara e che ora Feltri gli riconosce dicendo che «non può non sucitare ammirazione». La verità su Dino Boffo è quella che la sua vita – passata negli ultimi quarant’anni in una casa di cristallo – racconta. Ce l’eravamo detto – no?– che anche il tempo, giudice inesorabile, sarebbe stato galantuomo. Stavolta non abbiamo dovuto attendere molto, anche se ogni giorno è stato uno di troppo.
Forse qualche lettore penserà che il nostro titolo è imponente e il nostro ragionamento è tutto sommato modesto. Forse chi non conosce bene noi di Avvenire rimarrà interdetto. Dov’è il clangor di sciabole? Dove sono le rivalse, le controaccuse, le scudisciate? Sono altrove. Noi facciamo battaglie, non guerre. Indichiamo problemi e, quando possiamo, soluzioni, non sputiamo sentenze. E siamo e restiamo preoccupati. Perché un atto di riparazione dopo una smisurata operazione denigratoria è stato, in qualche modo, compiuto, ma un problema enorme resta aperto.
Oggi più che mai noi giornalisti dobbiamo avere il coraggio di ammettere che il più lancinante dei problemi che attanagliano il mondo dell’informazione non è quello della libertà, ma quello della responsabilità. Responsabilità verso la realtà dei fatti, verso chi ci legge e ci ascolta, verso noi stessi. Stavolta era stato uno di noi, uno dei migliori tra noi, a finire immotivatamente nel tritacarne. È rimasto in piedi nonostante tutto, perché è un uomo probo e ha la libertà di chi vive una vita spirituale intensa. E ha potuto ricevere pubblica soddisfazione (domani capiremo fino a che punto) dal pubblico ripensamento di Feltri. Ma chi non è altrettanto forte moralmente, chi è solo e disperato, chi non è conosciuto da tanti per ciò che davvero è, chi non è in condizione di ottenere (o anche solo aspirare a ottenere) riparazione nel sommario 'tribunale' dei mass media? È una domanda ancora senza accenno di risposta. E da essa non possiamo e non dobbiamo distoglierci.
Da “Avvenire” di giovedì 10 dicembre 2009
Fede, il Papa: «Senza Dio l'umanità si autodistrugge»
"Quando Dio sparisce dall'orizzonte dell'uomo, l'umanità perde l'orientamento e rischia di compiere passi verso la distruzione di se stessa". Ce lo insegnano, afferma Benedetto XVI, "le esperienze del passato, anche non lontano". Con queste parole, lette dal segretario della Cei Mariano Crociata, si è aperto il Convegno "Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto", promosso dal card. Camillo Ruini e dal Comitato per il Progetto Culturale della Chiesa Italiana da lui presieduto.
"La questione di Dio - scrive il Papa - è centrale anche per la nostra epoca, nella quale spesso si tende a ridurre l'uomo ad una sola dimensione, quella 'orizzontale', ritenendo irrilevante per la sua vita l'apertura al Trascendente". "La fede in Dio - ricorda Ratzinger - apre all'uomo l'orizzonte di una speranza certa, che non delude; indica un solido fondamento su cui poter poggiare senza timore la vita; chiede di abbandonarsi con fiducia nelle mani dell'Amore che sostiene il mondo". E dunque, "la relazione con Dio è essenziale per il cammino dell'umanità e la Chiesa e ogni cristiano hanno proprio il compito di rendere Dio presente in questo mondo, di cercare di aprire agli uomini l'accesso a Dio".
Benedetto XVI incoraggia quindi la Chiesa Italiana a operare sul piano della cultura riproponendo il Vangelo "in una situazione culturale e spirituale come quella che stiamo vivendo, dove cresce la tendenza a relegare Dio nella sfera privata, a considerarlo come irrilevante e superfluo, o a rifiutarlo esplicitamente", il Papa auspica che "questo evento possa contribuire almeno a diradare quella penombra che rende precaria e timorosa per l'uomo del nostro tempo l'apertura verso Dio, sebbene Egli non cessi mai di bussare alla nostra porta". "L'ampiezza di approccio alla importante tematica, che caratterizza l'incontro - rileva il Pontefice - permetterà di tracciare un quadro ricco e articolato della questione di Dio, ma soprattutto sarà di stimolo per una più profonda riflessione sul posto che occupa Dio nella cultura e nella vita del nostro tempo".
La prolusione del card. Bagnasco. "La verità cristiana conosce solo la forza persuasiva delle buone ragioni che la sostengono e dell'amore disinteressato che la propone; non segue la via della strumentalizzazione e della persuasione occulta, conosce invece il dialogo, aperto e franco, chiaro nella propria identità e rispettoso dell'interlocutore". Lo ha affermato il card. Angelo Bagnasco nella prolusione da lui tenuta oggi al Convegno. "Generata dall'amore", la verità cristiana, ha scandito, "non comprime ma esalta la libera scelta dell'uomo". "In un mondo fatto incerto e quasi scettico dal diffondersi della sindrome relativistica, in cui la passione e la stima per le grandi questioni paiono assopite, in cui la ragione strumentale e pragmatica sembra farla da padrona - ha detto Bagnasco - ogni discorso su realtà certe, assolute e trascendenti, rischia di essere respinto, inesorabilmente, nel recinto circoscritto dell'opinabile soggettivo".
La questione di Dio, ha ricordato il presidente della Cei, "non è un interrogativo astratto, ma penetra nel profondo le fibre dell'uomo interiore". Ed è una "domanda che si fa pressante proprio in questo nostro tempo, proprio quando diffusi processi di rimozione culturale tendono ad emarginarla". Soprattutto nel mondo occidentale, la questione di Dio è lasciata fuori dai percorsi abituali della cultura", ha rilevato il cardinale sottolineando che "emarginata e psicologicamente rimossa, essa si presenta però, insopprimibile com'è nel profondo del cuore umano, sotto mentite spoglie". Secondo il cardinale Bagnasco, "molte forme del cosiddetto ritorno del sacro, purtroppo, segnate da sentimentalismo ed emotivismo, finiscono per avallare l'opinione diffusa che religione e ragione appartengano a due mondi, se non contrapposti, quantomeno incomunicabili". Di fronte a tale rischio, per il porporato, è necessario "rivendicare con rispettosa parresia la dignità e la rilevanza culturale del Vangelo, capace di interpretare l'esistenza e di orientare l'uomo viandante del nostro tempo, di ogni tempo".
Del resto, ha spiegato l'arcivescovo di Genova, "la questione di Dio non è una investigazione astratta, avulsa dalla realtà del quotidiano, ma la domanda cruciale, da cui dipende radicalmente la scoperta del senso (o del non senso) del mondo e della vita: della propria vita personale". "Dio - ha aggiunto il porporato - si avvicina al viandante di ogni tempo: se l'uomo ascolta la Sua voce, allora comincia a ritrovare se stesso".
Da “Avvenire” di mercoledì 9 dicembre 2009
IL SUGGERIMENTO DI BENEDETTO
CAPOVOLGIAMO LO SGUARDO MA PER DAVVERO MARINA CORRADI
«Ogni giorno attraverso i giornali, la televisione, la radio, il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci » . Il Papa che ha parlato ieri, nel giorno dell’Immacolata, a piazza di Spagna, mostra di ben conoscere Roma, e le altre nostre città. Di ben sapere come ogni mattina già dalle prime ore i giornali radio ci raccontino questa Italia di scontri, risse politiche, ricatti; di scandali, che paiono tanto diffusi da non risparmiare più nessuno; di violenze e delitti, a volte premeditati, a volte apparentemente nati per una spontanea ferocia, come dal caso.
Mostra, il Papa, di ben sapere come queste storie, che giornali e tv ripetono amplificandole mille volte – cerchio di un sasso nell’acqua, che continua a allargarsi – catturino la nostra attenzione e ci rimangano quasi oltre la soglia della coscienza, mentre andiamo avanti a lavorare. Come una musica che resti nelle orecchie; e che ripeta, un giorno dopo l’altro, che attorno a noi tutto o quasi è guasto, ferito, o corrotto, e che l’idea e la speranza di un condiviso bene comune vanno smarrendosi in questo vivere litigioso, spesso ostile, e talvolta spietato. Dove al centro del circo cade magari un giorno un uomo fino a allora stimato, e improvvisamente è sommerso di vergogna; oppure più spesso uno sconosciuto – un ' invisibile', dice Benedetto XVI – che si trascina ai margini della vita altrui; e subito gli stanno addosso, come fiere, i microfoni e i riflettori, avidi di squadernare quelle vite al pubblico, quali roba da voracemente consumare. O addirittura da spiare, nei video e nelle registrazioni puntualmente diffusi; senza imbarazzo, e anzi con una pronta attitudine a farci, di quelle altrui storie, rigidi censori.
Come conosce bene, il Papa, le nostre città. Sa che la dinamica del circo mediatico è «di farci sentire tutti spettatori, come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero accadere». (Quegli indici tesi a accusare, come gli uomini contro l’adultera, cui Gesù disse solo: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra ». La ostinata tentazione di crederci, noi, liberi dal male). Invece, ci viene detto, «siamo tutti attori ». Del bene e del male. Nessuno è estraneo, e nessuno può dire «non c’entro ». La città vive anche di quanto ognuno di noi oggi farà. Quei volti, per esempio, che ogni giorno incontriamo, oppure quelli che vediamo e rivediamo, esposti alla giostra, in tv: tutti volti di uomini. Noi, dice il Papa, «vediamo tutto in superficie». Ma dietro ogni faccia c’è una storia, un’anima, una profondità che i titoli spesso appiattiscono e annichiliscono. In una povertà che avvilisce e svuota anche chi sta a guardare. ( Come tacitamente chiedendoci in quale mondo abbiamo fatto nascere i nostri figli: che mai vorremmo vedere trattati così, come cose). Cosa dice Maria alla città?, si è chiesto il Papa a piazza di Spagna. Ha risposto: insegna a guardare agli altri come li guarda Dio. « A guardarli con misericordia, con tenerezza infinita, specialmente i più soli e disprezzati».
Che rivoluzione: dall’indice puntato, dalla 'onesta' indignazione, alla coscienza di un male che tutti ci riguarda, in una comune povertà, e dunque all’abbraccio di una misericordia autenticamente materna. Alla memoria della straordinaria promessa delle lettera di Paolo ai Romani: «Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia». Che capovolgimento inaudito in quello sguardo, ogni volta che un cristiano se ne lascia prendere. Ricominciando ogni mattina. Senza astio, senza scandalo, senza grida. Più forte del clamore dei titoli dei giornali, lo sconvolgente annuncio di un Dio che largamente perdona.
Da “Avvenire” di domenica 6 dicembre 2009
Onna ricomincia dalla chiesa Dono del Trentino all’Abruzzo
DA ONNA (L’AQUILA) ALESSIA GUERRIERI
Un raggio di sole squarcia la nebbia andando ad illuminare il nastro inaugurale proprio mentre viene tagliato. Poi con il suono della campana si spalancano le porte della nuova chiesa di Onna, intitolata alla Madonna delle Grazie. Quella campana tanto amata, perché estratta integra dalle macerie, ha accompagnato in questi mesi gli onnesi nella preghiera. Per lei, infatti, era stato costruito accanto alla tenda chiesa una piccolo campanile perché continuasse ogni giorno a suonare al calar della sera. È appunto lei ad annunciare, ma dall’alto di quello in legno, che il villaggio della solidarietà di Onna è davvero completato grazie al buon cuore dei trentini. Sono loro infatti, gli artisti del legno della Val di Sole, ad aver promesso una nuova chiesa entro Natale proprio a quel borgo che più di tutti ha pagato un prezzo alto il 6 aprile. Centotrenta metri quadri che cercano di riproporre gli elementi caratteristici del rinascimento abruzzese; non una chiesa trentina, dunque, ma una che gli aquilani sentano come propria, perché ispirata alle loro chiese distrutte. È entrando nella nuova casa del Signore che però si comprende il profondo legame tra le due terre; sull’altare, infatti, c’è una piccola statua di San Vigilio, il patrono del Trentino. «San Vigilio – spiega l’arcivescovo di Trento, Luigi Bressan – era un evangelizzatore, nel suo peregrinare ha voluto fondare anche un asilium per ospitare i bisognosi; un aiuto che cerchiamo di dare anche noi con questo luogo di culto che invita alla preghiera, alla riflessione». La gente qui non ha mai vacillato: insieme dal primo giorno in tenda, insieme nell’entrare dentro le casette, insieme nel festeggiare l’ultimo tassello che mancava alla nuova Onna. «È bello pensare come in un paese che ha tanto sofferto, oltre alle case – precisa l’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari – ci sarà anche la casa del Signore, un luogo che scandirà i tempi di questa comunità, un luogo di rinascita». La soddisfazione più grande è però quella del parroco, don Cesare Cardozo; questa è una tappa fondamentale, sottolinea, nel percorso della ricostruzione spirituale di questa gente: «Da oggi la comunità ritroverà un proprio spazio di intimità con Dio.
L’inaugurazione arriva alla conclusione della prima settimana di Avvento, un periodo che vogliamo sia un’occasione di attesa e di speranza per tutti». Sarà un Natale nel vero spirito cristiano per Onna, ma anche per i trentini che dopo aver collaborato nell’emergenza, pensano anche alla rinascita dell’Abruzzo, « non solo nel suo bisogno strutturale – precisa il presidente della Provincia, Lorenzo Dellai – ma per far risorgere lo spirito di questa gente». Solidarietà e sobrietà, le parole d’ordine dei trentini e di tanti che nell’ombra lavorano per l’Abruzzo. Il successo del volontariato si aggiunge a quello meno ufficiale degli onnesi. «Ho perso tutto – dice una signora ferma sul ciglio della chiesa – ci hanno donato le case, ma ora sentirò di nuovo il rintocco della nostra campana e questo è il segno che la vita qui è davvero ricominciata».
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