sabato 29 maggio 2010

IL VANGELO DI DOMENICA 30 maggio 2010

Il Vangelo di Ermes Ronchi
Domenica dopo Pentecoste Solennità della Santissima Trinità Anno C
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Trinità: un solo Dio in tre persone. Dogma che non capisco, eppure liberante, perché mi assicura che Dio non è in se stesso solitudine, che l’oceano della sua essenza vibra di un infinito movimento d’amore. C’è in Dio reciprocità, scambio, superamento di sé, incontro, abbraccio. L’essenza di Dio è comunione. Il dogma della Trinità non è un trattato dove si cerca di far coincidere il Tre e l’Uno, ma è sorgente di sapienza del vivere: se Dio si realizza solo nella comunione, così sarà anche per l’uomo. I dogmi non sono astrazioni ma indicazioni esistenziali.
In principio aveva detto: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza ». L’uomo è creato non solo a immagine di Dio, ma ancor meglio ad immagine della Trinità. Ad immagine e somiglianza quindi della comunione, del legame d’amore. In principio a tutto, per Dio e per me, c’è la relazione. In principio a tutto, qualcosa che mi lega a qualcuno.« Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora non potete portarne il peso ». Gesù se ne va senza aver detto e risolto tutto. Ha fiducia in noi, ci inserisce in un sistema aperto e non in un sistema chiuso: lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera.
La gioia di sapere, dalla bocca di Gesù, che non siamo dei semplici esecutori di ordini, ma – con lo Spirito – inventori di strade, per un lungo corroborante cammino. Che la verità è più grande delle nostre formule. Che in Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga (Luis De Leon). Che nel Vangelo scopri nuovi tesori quanto più lo apri e lo lavori. La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in formule o concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nella vicenda terrena di Gesù. Una sapienza sulla nascita, la vita, la morte, l’amore, su me e sugli altri, che gli fa dire: « io sono la verità» e, con questo suggeritore meraviglioso, lo Spirito, ci insegna il segreto per una vita autentica: in principio a tutto ciò che esiste c’è un legame d’amore. L’uomo è relazione oppure non è. Allora capisco perché la solitudine mi pesa tanto e mi fa paura: perché è contro la mia natura. Allora capisco perché quando sono con chi mi vuole bene, sto così bene: perché realizzo la mia vocazione.La festa della Trinità è come uno specchio: del mio cuore profondo, e del senso ultimo dell’universo.Davanti alla Trinità mi sento piccolo e tuttavia abbracciato dal mistero. Abbracciato, come un bambino. Abbracciato dentro un vento in cui naviga l’intero creato e che ha nome comunione.
(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16,12-15)

PortaParola Ravenna del 29/5/2010



Da PiùVoce.net di giovedì 27 Maggio 2010
Le cifre drammatiche dell`Istat sui giovani italiani senza lavoro e studio
di Domenico Delle Foglie
Due milioni di giovani italiani fra i 15 e i 29 anni (fra i quali un milione di meridionali) non lavorano e non studiano. Parola di Istat.
Il che ci rassicura sulla scientificità delle rilevazioni, ma non può tranquillizzarci sul versante sociale e soprattutto familiare.
Due milioni di persone destinate a sopravvivere per chissà quanti anni in una sorta di limbo sociale possono diventare una bomba a tempo. La storia ci insegna che quando intere generazioni sono tagliate fuori dalla vita sociale del proprio Paese, le conseguenze sono imprevedibili. E’ già accaduto nella storia italiana ed europea fra le due Grandi Guerre. E’ difficile immaginare che queste forze possano essere escluse dalla storia senza pesanti rivolgimenti. Del tutto imprevedibili, anche per gli analisti più raffinati.
Questa volta, purtroppo, non basterà la famiglia a fare da stanza di compensazione. Le famiglie italiane certamente non si tireranno indietro nel garantire la sopravvivenza ai figli in “fuorigioco”, ma nessuno si può nascondere che il tirare a campare è solo l’anticamera del fallimento e della disperazione. Fallimento economico delle famiglie, già messe all’angolo dalla più grande crisi del Dopoguerra, e costrette a erodere i risparmi. Ma già tante, troppe famiglie non arrivano alla quarta settimana. E poi la disperazione, cioè l’assenza di speranza nel futuro.
Ecco perché ci auguriamo che la manovra del governo sia quella giusta per rimettere in equilibrio i conti dello Stato, ma a nessuno può sfuggire la necessità di dare una prospettiva realistica a questi due milioni di giovani. Una classe dirigente degna di questo nome non può cavarsela dicendo “arrangiatevi”. Condannare due milioni di cittadini all’esclusione sociale, affidandosi esclusivamente ai poteri taumaturgici del mercato, può rivelarsi un suicidio. Politico, ma soprattutto sociale.

Da Avvenire di mercoledì 27 maggio 2010
LA CHIESA INVITA A VIVERE, NON A VIVACCHIARE
L’agenda di chi spera è piena di futuro
MARINA CORRADI
Se un amico straniero ci domandas­se: allora, come va da voi in Italia?, forse non sapremmo rispondere che con imbarazzo, e un fondo di rassegnazione. Bah, diremmo, come vuoi che vada. Si sopravvive. Nonostante la crisi, non siamo la Grecia. La politica è in un affanno cronico, dentro a un interminabile travaglio che sembra non partorire niente; se non provvedimenti per far fronte a urgenze irrimandabili; se non rumore, scontri, uscite estemporanee che il giorno dopo sono già lettera morta. Come vuoi che vada, diremmo a quell’amico: sui giornali c’è ogni giorno un nuovo scandalo, nuove indagini, nuovi veri o presunti corruttori e concussi. Tuttavia, si sopravvive.
Lavoriamo, mandiamo a scuola i figli, pensiamo, chi può, alle vacanze. Tiriamo avanti. Quasi alla giornata. Un progetto comune, una condivisa speranza sembrano cose troppo ambiziose, e troppo proiettate in un futuro in cui non nutriamo gran fiducia.
Nei libri di storia leggiamo delle passioni e dello slancio di ricostruzione del dopoguerra; e pur sapendo da quali lutti e povertà veniva quell’Italia, noi, che non c’eravamo, ne proviamo rimpianto.
Ma c’è una profonda differenza fra «vivere, e vivacchiare», ha detto lunedì il cardinale Bagnasco alla assemblea generale della Cei.
Ha usato quella stessa espressione di Piergiorgio Frassati che Benedetto XVI aveva ricordato pochi giorni fa ai giovani in piazza San Carlo, a Torino. Come se, in questa Italia, lo sguardo della Chiesa fosse rimasto quasi il solo a ricordare che 'tirare avanti', in un Paese, non basta. Che la vita di un popolo chiede altro: un respiro più ampio, uno sguardo più lungo, dei progetti, e in fin dei conti una fondata speranza.
Lo sguardo della Chiesa italiana espresso da Bagnasco non calca su inchieste, corruzioni, rendimenti di conti, scandali. C’è un filo conduttore invece che parla di educazione, di famiglia, di contrasto al declino demografico, di lavoro da dare ai giovani. Un filo in cui la sfida della educazione è al primo posto, «decisiva anche sotto il profilo storico, sociale e politico». Una sfida che, non accolta, porta alla «decomposizione sociale». Come un’altra agenda, un’altra serie di priorità rispetto a quelle che si prendono i titoli più grandi sui giornali. Come una sottolineatura di ciò che davvero è vitale.
In che cosa consiste questa differenza di sguardo? È la stessa che spesso vediamo compiersi in chi mette al mondo dei figli.
Quando si diventa padri e madri si comincia a interessarsi, oltre che al presente e a ciò che possiamo trarne, a quel che sarà dei figli, quindi al futuro. La paternità è per quasi tutti la svolta per cui ci interessa e ci preme una scuola che funzioni, una televisione decente, un ambiente sociale in cui quei figli possano crescere, studiare, lavorare. Siccome teniamo ai figli, ci interessa l’avvenire.
Lo sguardo della Chiesa è segnato da questa stessa paternità: non si ferma al presente e ai suoi boati, ma indica un progetto, un da farsi, un futuro. (E forse non è un caso se un paese dove il 50% delle famiglie non ha figli appare così schiacciato sulle contingenze, banali o scandalose che siano; e così privo di slancio, così asfittico sui temi di scuola, educazione, demografia, occupazione giovanile. Che cosa importa il futuro, se non si hanno eredi?) Lo sguardo della Chiesa invece è segnato da questa paternità, da sempre incisa nel pensiero cristiano.
E’ lo sguardo di una continuità e di una speranza; di una radicale fiducia nella vita, di una tenace certezza di un destino che non è un caso cieco. In una società che sembra chiusa stancamente su lotte di potere, soldi, privilegi, vizi privati e scandali di cui non ci si riesce neanche più a stupire ma solo a sbadigliare, è, questo sguardo, un atteggiamento profondamente anticonformista.
I figli, l’educazione, la speranza: parole a bassa voce eppure così controcorrente, in questa Italia che tira avanti e sopravvive.

Da Avvenire di martedì 25 maggio 2010

LA CHIESA E L’ORIZZONTE DELLA SPERANZA
IMPEGNI AI QUALI NON SI PUÒ VENIR MENO
FRANCESCO D’AGOSTINO
Densa, come sempre, la prolusione del cardinale Angelo Bagnasco alla 61ª Assemblea Generale della Cei.
Le parole che egli ha pronunciato si muovo­no tutte nell’orizzonte della speranza: non la speran­za, a volte dolce, ma ingenua di chi cerca di rimuove­re le sofferenze del presente, augurando a sé e agli al­tri un generico futuro 'migliore', ma la speranza cri­stiana, di chi sa che sperare in modo autentico signi­fica mettere alla prova se stessi con un serio e fiducio­so operare nel mondo. Molteplici i temi trattati nella prolusione. A molti ap­parirà predominante, e non a torto, quello della pe­dofilia, affrontato dal cardinale in modo limpido ed e­splicito e soprattutto in stretta connessione con le in­dicazioni che provengono dagli insegnamenti e dalle indicazioni pastorali del Papa. Il tema è conturbante, ma la Chiesa non deve esitare ad affrontarlo; non è del mondo che il cristiano deve aver paura, ma del pec­cato e delle sue tragiche conseguenze, nella consape­volezza che la più autentica risposta che è possibile da­re al peccato, cioè la penitenza, appartiene anche es­sa all’ordine della grazia. Più che sulla pedofilia, sem­bra però opportuno soffermarsi oggi su altri due temi, non perché siano più rilevanti di questo, ma perché in essi, più ancora che in quello della pedofilia, siamo messi in grado di percepire la specificità dell’approc­cio ecclesiale a questioni che possiedono una rilevan­za non solo antropologica, ma più spiccatamente 'ci­vile'; questioni, cioè, per le quali alcuni potrebbero pensare che un intervento da parte della Chiesa deb­ba essere ritenuto inessenziale, se non addirittura su­perfluo. Non è così.
La prima questione è quella demografica. Il presiden­te della Cei non rinuncia ai toni che gli sono propri, ca­ratterizzati da una pacata fermezza. Ma non è possi­bile sottovalutare la forza di un’affermazione che egli fa, quella secondo la quale l’Italia sta andando «verso un lento suicidio demografico». All’affermazione se­guono le cifre che le danno sostanza: oltre il cinquan­ta per cento delle famiglie oggi è senza figli; tra quelle che ne hanno, la metà ha un figlio solo; solo il cinque per cento delle famiglie con prole ha tre o più figli. Il cardinale non usa molte parole per spiegare il signifi­cato antropologico di questi dati: se viene meno la co­scienza del valore che ha l’aver figli viene inevitabil­mente meno la percezione del valore della vita stessa. I figli, dice Bagnasco, sono «doni che moltiplicano il cre­dito verso la vita e il suo domani»; essi sono, in altre parole, il segno che la vita ha un senso e che ha un sen­so lottare per darle un senso. Il necessario e doveroso impegno dello Stato nel sostegno delle famiglie non va visto quindi solo in chiave economico-politica, ma in un orizzonte più ampiamente antropologico.
L’altra grande questione affrontata è quella dell’ormai prossimo anniversario dell’unità d’Italia: un tema sul quale, dice il presidente della Cei, è doveroso con­frontarsi «da persone adulte». Che l’ unità del Paese sia una conquista irrinunciabile è un dato acquisito, così come è da ritenere acquisito che l’unità non vada in­terpretata come il prevalere di un progetto su altri progetti, ma come il «coronamento di un processo», di un lungo processo nazionale, culturale, artistico, e so­prattutto religioso; un processo di cui i cattolici sono stati protagonisti, al punto da poterli qualificare – con un’ espressione a suo modo ardita – «tra i soci fonda­tori di questo Paese». Anche le questioni più laceran­ti che hanno tormentato tante coscienze nel corso del processo risorgimentale sono ormai ricomposte: l’e­splicita citazione dei nuovi accordi concordatari tra Stato e Chiesa del 1984 serve a sottolineare come, an­che in questo ambito, la «pacificazione» sia ormai com­pletamente raggiunta. Tutte queste osservazioni, av­verte però il cardinale, vanno intese non come rivolte verso il passato, ma come aperte al futuro, perché il no­stro «stare insieme» si radichi sempre di più nella vo­lontà di «volersi reciprocamente più bene». Questo è il grande insegnamento, nello stesso tempo 'politico' e 'meta-politico' che, tramite le parole di Bagnasco, la Chiesa rivolge a tutti i cittadini: il nostro vincolo nazionale non si fonda su meri interessi, o su accordi po­litico- procedurali, né meno che mai sulla condivisio­ne di sentimenti nazionalistici o narcisistici. Esso si fonda sulla consapevolezza che esiste un bene comu­ne di noi italiani, un bene che va costantemente pro­mosso attraverso riforme concrete e intelligenti. A que­sto impegno i cattolici non vogliono, né possono ve­nir meno.

Da Agorà supplemento di Avvenire di giovedì 27 maggio 2010
Scovare i semi di speranza negli «anni di piombo»: il ruolo della fede per il giornalista milanese assassinato 30 anni fa
Il cattolico Tobagi contro i «nonni» del ’68 DI GIUSEPPE BAIOCCHI
A trent’anni del suo assassinìo per mano dei A terroristi rossi, la figura di Walter Tobagi, cronista e storico e presidente del sindacato lombardo dei giornalisti, non è completamente impallidita dal trascorrere del tempo. Anche perché restano, e ancora ci parlano, le lucide analisi dei suoi libri, dei suoi saggi e dei suoi articoli. E, più si deposita la polvere delle polemiche politico­giudiziarie che hanno dolorosamente accompagnato nel corso dei decenni la vicenda del delitto, più emerge cristallina la dimensione religiosa di Tobagi, che ne costituiva la reale essenza e il solido fondamento sul quale naturaliter si sviluppò il suo impegno professionale e civile.
Eppure, in una produzione intellettuale straordinariamente intensa, Tobagi scrisse molto poco sul mondo cattolico e sulla Chiesa, allora inquieta e attraversata dai fermenti post­conciliari. Neppure nei suoi anni passati ad Avvenire, che ricordava come i più sereni e forse più fecondi: allora c’erano stati il matrimonio e la paternità, la laurea in storia con una tesi di mille pagine sui sindacati confederali degli anni ’45-’50 e il suo primo libro, uscito nel 1970.
Ovvero la Storia del Movimento Studentesco e dei marxisti­leninisti in Italia , dove, da «storico del presente» coglieva nei fatti la drammatica contraddizione del Sessantotto.
Quella cioè di abbandonare ben presto la prospettiva del futuro da costruire per rivolgersi, nel magma della sinistra politica e culturale, soltanto al passato. E di costituire così la tragica rivincita dei «nonni», rivoluzionari e massimalisti, contro i «padri», democratici e costituzionali, scivolando inesorabilmente verso la violenza, prima verbale, poi fisica e quindi armata. E in quel contesto la fede cristiana, così considerata estranea al discorso pubblico, appariva solo un vezzo per chi indagava culturalmente nella tragedia della sinistra: eppure per Tobagi la condizione di cattolico (non esibita ma neppure nascosta) era fondamentale per discernere comunque e valorizzare i «semi di speranza» in un clima sociale tanto doloroso e rassegnato.
D’altronde, da semplice fedele, non mancava di partecipare alla vita della sua parrocchia e insieme a coltivare la conoscenza della Scrittura, nell’ambito di quei cenacoli-pilota che porteranno poi ai diffusi gruppi d’ascolto della Parola di Dio. Ed è a questa che fa riferimento quando si interroga con pochi colleghi (a quel tempo erano 7 i credenti «dichiarati» tra i 300 giornalisti del Corriere) sul significato profondo del ritrovarsi ad essere un «cristiano che fa il giornalista» in quella temperie storica.
Era l’estate del ’79, Tobagi era già nel mirino dei terroristi, e pativa la campagna di denigrazione dopo la sua vittoria alle elezioni del sindacato lombardo. Eppure sentiva la necessità di riflettere sul Vangelo: dove Gesù non fa programmi, non lancia messaggi: a chi gli chiede, risponde soltanto: «Venite e vedete…». E andare e vedere, magari con l’occhio lungo e l’orecchio attento, commentava Walter col suo quieto sorriso, non è forse l’essenza del nostro mestiere? Non solo: proprio quelle cronache che sono attuali da duemila anni suggerivano un’altra divisa professionale. Gli apostoli non ci fanno umanamente una gran figura: non capiscono, si addormentano e scappano; e perfino Pietro, che pure era già il capo della Chiesa, non nasconde di aver rinnegato il maestro tre volte prima che il gallo cantasse. E allora la lezione che ne veniva era quella di non edulcorare, di non occultare, di non subordinare la narrazione ad occhiali o pregiudizi ideologici o interessati. Piuttosto, coltivando la dote dello «stupore», il metodo restava quello di «lasciarsi riempire» dalla realtà complessa che si veniva ad incontrare, dandole ordine, forma, gerarchia e significato. In modo da fornire per questa via al lettore e al cittadino il servizio democratico e a tutto campo dell’informazione, così che ciascuno potesse formarsi in libertà e completezza il proprio autonomo convincimento. E in questo percorso di rigore professionale, il giornalista andava tutelato nella sua autentica indipendenza. Di qui l’impegno innovativo nel sindacato, un impegno teso a contrastare il comodo conformismo e a diffondere segni di speranza in un cambiamento positivo, graduale e partecipato.
Era riformismo? Certamente sì, ma intessuto dalla responsabilità di lavorare ovunque per costruire (anche per i propri figli) una società meno lacerata dalla violenza e più aperta al futuro. E insieme alla speranza davvero cristiana c’era, pur nell’affanno di una vita così impegnata, un abbandonarsi fiducioso alla Provvidenza. Negli ultimi mesi, a chi lo accompagnava spesso a casa dal Corriere (come chi scrive) confessava, oltre alle umanissime paure, la percezione lucida dei rischi che correva, accanto alla consapevole certezza di non potersi e non volersi sottrarre. «Non mi perdoneranno – ripeteva – di aver rotto il conformismo e l’unanimismo. Sia nelle analisi sulla galassia terroristica, che cerco di capire e di penetrare invece di limitarmi come troppi a maledire e a esecrare; e sia nel sindacato, che ha anche bisogno di rotture democratiche per crescere e per svolgere davvero il suo ruolo civile. E io ho il torto di aver sollevato un velo e di trovare il libero consenso di molti colleghi… Ma non mi sento solo: mi sento comunque nelle mani di Dio…».

Da Avvenire di giovedì 27 maggio 2010
«Piccole pesti» a lezione di galateo
Bambini spontanei, creativi, capaci di esprimere se stessi, aiutati a crescere con affetto, stimolati e coccolati. Tanti sforzi pedagogici spesso non ottengono i risultati sperati generando, piuttosto, veri campioni di maleducazione che in nome della libertà creativa – guai a frustrarla – imperversano prepotenti e sguaiati a scuola e al supermercato, per la strada e al parco, in casa propria e altrui. Rimproverarli non si può perché ha un effetto deleterio sull’autostima (la loro) e sopportarli neppure perché ha un effetto devastante sul sistema nervoso (il tuo).
Confondere la spontaneità con la villania, l’esuberanza con la grossolanità, far passare per fantasioso quel che che è banalmente sgarbato è un’abitudine comune a molti genitori: i maleducati sono sempre i figli degli altri. È innegabile che volgarità e rozzezza siano dilaganti, che sopravanzino la cortesia e le buone maniere ormai passate di moda.
E non certo per colpa dei bambini senza educazione ma per merito esclusivo dei genitori, che quell’educazione non possono insegnarla perché non l’hanno imparata mai. Lo dimostra perfino – se non bastasse mezz’ora in un qualsiasi ipermercato – una sentenza recente della Corte di Cassazione: riprendere i figli a suon di parolacce è un atteggiamento generalmente ricorrente nei rapporti familiari, hanno sentenziato i giudici arrivando persino a stabilire che reagire alle intemperanze dei bambini a suon di ingiurie non sia un’abitudine passibile di severa punizione.
Educazione e buone maniere, poche regole che venivano impartire dai genitori attraverso l’esempio e la pratica quotidiana, sono sconosciute ai più, la lingua universale della gentilezza – arricchibile a dismisura con l’esercizio e la pratica – è da annoverare tra quelle in via di estinzione. Non dovrebbe stupire, quindi, che fiorisca una manualistica rivolta ai giovani genitori che spiega cos’è l’educazione e come la si insegna.
A partire dalle regole più banali, per esempio che si risponde ai saluti e che li si porge per primi quando si entra in una stanza dove ci sono già altre persone. Chi non lo sa?
«Ci sono genitori che hanno bisogno di questi libri – spiega Nessia Laniado, scrittrice ed esperta di terapia della famiglia, autrice di Bon ton per bambini (Red, pagine 93, euro 12.90), l’ultimo dei suoi libri dedicato all’educazione dei più piccoli – e in genere sono quelli che cercano il consenso dei propri figli, che vorrebbero essere loro amici piuttosto che loro educatori, che si cullano nell’errata convinzione che lasciare i bambini liberi di scegliere sia il modo giusto per crescerli autonomi e giudiziosi. Non è così».
Già il termine bon ton sembra appartenere a un’altra epoca: «Sì, se lo si intende come una questione di pura forma e non di sostanza. Va da sé che il galateo moderno – chiarisce Laniado – non può essere un noioso elenco di norme cervellotiche né un manuale di rituali oziosi o di frasi fatte. Piuttosto, serve un’etica del concreto, calata nelle manifestazioni quotidiane, nei piccoli gesti e nella sollecitudine, una via per affinare se stessi e avere un’autentica attenzione ai bisogni di chi ci circonda».
Non basta la cortesia, manifestazione esteriore che implica un certo formalismo e una buona dose di distacco; per stare al mondo – e trovarcisi a proprio agio – bisogna ricorrere alla gentilezza, un atteggiamento mentale: «Si tratta di instillare nel bambino alcuni principi basilari di comportamento come autentica espressione di attenzione nei confronti dell’altro. Imparerà così – spiega l’autrice – una lingua universale che gli permetterà di destreggiarsi in ogni situazione e renderà gli altri più disponibili nei suoi confronti».
Un’etica delle piccole cose, di gesti semplici ma significativi riflessa anche in altri due manuali sullo stesso tema – l’educazione – ma rivolti direttamente ai più piccoli: Giusi Quarenghi spiega ai diretti interessati come si diventa un «gentilbambino», una persona che non ha bisogno di farsi dire, ripetere, urlare un milione di no in Manuale di buone maniere per bambini e bambine (Rizzoli, euro 12.50). Interessante la parte dedicata agli esempi, spietata con gli adulti ma efficacissima: «Per diventare un gentilbambino si ha bisogno di esempi. Se un papà ha l’abitudine di insultare gli altri automobilisti quando è al volante – scrive l’autrice – è molto probabile che il suo bambino prenda l’abitudine di insultare gli altri bambini. Se una mamma è un’urlatrice, è facile che la sua bambina sia un’urlatrice».
E via così... In sintesi: i divieti devono essere coerenti, reciproci e rispettosi e – comunque – un buon esempio vale più di mille parole. Anche se qualche spiegazione ci vuole: perché bisogna cedere il posto in auto o sul metro a chi ha più bisogno di stare seduto? E come mai non si deve interrompere chi sta parlando? Davvero è necessario aprire la porta a chi non è in grado di farlo? A queste e a molte altre domande – trenta in totale – risponde Annie Grove con Leon e le buone maniere (Giralangolo, 11 euro), un libro destinato ai piccolissimi molto illustrato e con poche ma azzeccate parole che descrivono le buone maniere (e che potrebbero tornare utili ai genitori tempestati dai perché).

Da Avvenire di giovedì 27 maggio 2010

CIÒ CHE IL MONDO NON PUÒ DARCI NÉ TOGLIERCI
Il centuplo quaggiù già qui, già ora
GIACOMO SAMEK LODOVICI
A gli occhi di chi crede nel successo a ogni costo il cristiano è un represso, un frustrato, in definitiva un infelice, perché rinuncia alle migliori e più intense gratificazioni della vita, rinchiudendosi in una gabbia di divieti.
Può sembrare dunque una clamorosa falsità quanto ha detto il Papa al Regina Coeli di domenica scorsa: «Chi si affida a Gesù sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare, e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate». In effetti, Benedetto XVI ha insistito su questo tema molte volte e lo aveva rimarcato già nella messa di inizio del pontificato: «Non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo, e troverete la vera vita». Già allora il neo pontefice sottolineava la promessa evangelica, fatta a chi segue fedelmente Cristo, non solo di ricevere la vita eterna ma anche, «già ora, in questo tempo, cento volte tanto» (Mc 10, 30), pur insieme ad alcune sofferenze e nonostante, talvolta, le persecuzioni.
Che il cristiano possa sperimentare sentimenti di felicità, o comunque di contentezza durevole, «intender [fino in fondo] non lo può chi non lo prova», come direbbe Dante; ma possiamo, sebbene solo in parte, provare a motivarlo.
In realtà, molto dipende da come si vive il proprio esser cristiani. C’è un modo legalista e frustrante di vivere il cristianesimo, quello di chi trascorre le sue giornate temendo di trasgredire doveri e curando di osservare norme; e c’è quello liberante di chi osserva – come è giusto – le norme, ma non le considera il fine della sua vita, perché quest’ultimo è piuttosto l’esercizio dell’amore a Dio e al prossimo. Ora, se si agisce per amore, ogni cosa diventa più lieve e, talvolta, diventa persino causa di felicità: lavorare per mero senso del dovere o solo per guadagnarmi da vivere può essere estremamente pesante, mentre farlo per amore di mia moglie e dei miei figli, e per amore di Dio se coltivo una vita interiore, è estremamente diverso.
È questo il vero senso della sentenza, tanto spesso travisata, di S.Agostino: «Ama e fa’ ciò che vuoi». Infatti, se amo qualcuno, quando faccio/ometto qualcosa per lui, faccio/ometto quello che voglio, perché l’amore mi fa agire volentieri. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma basta notare che ci sono persone accasciate dal dolore provocato da alcune malattie, che, nondimeno, si sentono interiormente felici, o almeno contente, perché, per amore, in vista del bene di qualcuno offrono a Dio il loro dolore.
Certo, la vita cristiana comporta anche delle rinunce, ma per raggiungere beni più profondi e durevoli, comporta un certo qual «perdere se stessi», ma per ritrovarsi più pienamente, come ha detto il Papa: «Perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente». È l’espressione del paradosso dell’amore, il quale, proprio donando, arricchisce chi dona.
I beni a cui rinuncia il cristiano appagano nell’immediato, ma, a lungo andare e – va sottolineato – non da subito, soddisfano sempre meno e lasciano sempre più assetati, come bere acqua salata. Tanto è vero che, spesso, gli uomini finiscono per disdegnarli una volta che li hanno conseguiti e ne cercano altri, e poi altri ancora, procedendo così «di brama in brama», come diceva un filosofo non certo cattolico come Hobbes.
La relazione (beninteso se sostanziata di amore) con Dio, invece, non delude mai.

Da E’ Vita supplemento di Avvenire di giovedì 27 maggio 2010
Aborti oltre il termine: ci sono, ma chi li scova?
di Fabrizio Assandri
Certificati medici fasulli che retrodatavano il giorno del concepimento per giustificare falsi «aborti terapeutici» presso la struttura pubblica. 'Suggerimenti' alle pazienti per eludere i termini temporali stabiliti dalla legge 194, ma anche una paziente straniera costretta a firmare il consenso informato – nonostante non capisse l’italiano – e ad abortire contro la sua volontà. Sono le accuse di cui dovrà rispondere un ginecologo perugino insieme con la sua segretaria, un’ostetrica, un dipendente ospedaliero e un immigrato, al centro dell’inchiesta dei Nas denominata 'Erode' e della quale si è molto parlato in questi giorni. l’ultimo caso giunto alla ribalta delle cronache, ma non è certo il solo. Il più famoso resta quello di «Villa Gina» a Roma, dove Ilio e Marcello Spallone, condannati nel 2002 per omicidio volontario e violazione della legge 194 sopprimevano bimbi nati vivi dopo aborti provocati illegalmente fino all’ottavo mese.
Ermanno Rossi, ginecologo di Genova, morì suicida nel marzo del 2008 mentre era in corso un’inchiesta sul suo conto per aborti illegali oltre i limiti, che erano fatti apparire come spontanei.
Tre medici e un’infermiera, a Napoli, nel giugno 2008, sono stati fermati per aborti illegali: per le pazienti oltre i tre mesi di gravidanza organizzavano viaggi in Spagna e Olanda. La violazione delle norme sulla tempistica per l’aborto s’inserisce all’interno della zona grigia degli aborti clandestini, un fenomeno che si presume «largamente diffuso e praticato anche in strutture sanitarie private», come afferma la relazione 2010 del Ministero della giustizia sulla 194 inviata al Parlamento.
«Non abbiamo dati sulla distinzione tra aborto clandestino tout court e aborti praticati oltre il limite temporale di legge –fanno sapere fonti del Ministero – però ci appare scontato che in una situazione di illegalità i due fenomeni vadano sommandosi». partire da quando per la legge un aborto è illecito? «Dal momento in cui il feto ha la possibilità di sopravvivere a un parto prematuro, l’interruzione della gravidanza non può essere praticata – spiega Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica – salva la sola eccezione, molto rara, in cui risulti in pericolo la vita della donna: ma adottando, in tal caso, 'ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto', come prescrive la legge. La 194 parla di 'possibilità' e non di 'probabilità', per cui ha rilievo anche un livello minimo di tale possibilità».
La legge non pone dunque un limite temporale prestabilito, anche se alcuni ospedali si sono dati regolamenti interni.
Rispondendo a un’interpellanza relativa al caso del bambino sopravvissuto 24 ore a un aborto terapeutico alla 22esima settimana a Rossano Calabro, il sottosegretario Roccella aveva annunciato che il governo sta «valutando quale strumento utilizzare per vietare gli aborti oltre la 22esima settimana».
Secondo Eusebi, «fissare un’epoca precisa della gravidanza oltre la quale la possibilità di sopravvivenza si consideri sempre sussistente può costituire un passo in avanti, ma anche prima di una simile epoca che venisse formalizzata, l’aborto resterebbe pur sempre non praticabile ove le condizioni concrete del feto lasciassero comunque supporre il sussistere della possibilità di cui parla la legge. Si tenga conto, inoltre, del fatto che comunque, dopo il 90° giorno di gravidanza la non punibilità dell’aborto esige una 'rilevante' anomalia o malformazione, la quale provochi un 'grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna' in caso di prosecuzione della gravidanza: sarebbe dunque doveroso assicurare che il requisito della 'rilevanza' sia reale».

Da Giovani GMG speciale di Avvenire di martedì 25 maggio 2010

Cinque modi per dire «speranza»
Dalla partecipazione ai forum regionali a quello nazionale di aprile: così è nato il documento scritto dai giovani che parteciperanno alla Settimana sociale dei cattolici. Un contributo all’«Agenda» di speranza
DI DANIELA POZZOLI
Un gran numero di giovani si sono dati appuntamento nei mesi scorsi per di­scutere del loro futuro negli incontri or­ganizzati per regioni, poi confluiti nel Forum nazionale che si è tenuto in aprile a Roma. Da qui è nata la bozza di un documento che sta circolando nelle diocesi e che sarà portato al­la Settimana sociale dei cattolici italiani, in ca­lendario in ottobre a Reggio Calabria. Cin­que i punti nei quali è organizzato il testo, cin­que strade che la pastorale giovanile vuole e­splorare per contribuire a comporre un’«Agenda di speranza per il futuro del Pae­se », come recita il titolo della Settimana. Pri­ma di ogni azione, la persona va riportata al centro, come viene suggerito nell’introduzio­ne. Solo così «è possibile realizzare una ri­flessione e un dialogo che vada al di là della fede cristiana, aperto anche a chi non è cre­dente ».
1) Fraternità, incontro, relazione, unità, co­munione.
Una critica sociale viene subito espressa: «La società di oggi è segnata da un profondo in­dividualismo che spesso degenera in egoi­smo ». Dunque è necessario agire per la ri­composizione, a tutti i livelli, di questa «rete di relazioni... La comunità cristiana in questo senso deve fare molto. È necessario scegliere come priorità lo stare insieme, il pensare in­sieme, il lavorare insieme». Un modo di rela­zionarsi che può concorrere alla costruzione del bene comune.
2 ) L’onestà, la legalità, la trasparenza
È evidente – sottolineano i giovani del Forum nazionale – che la nostra società ha bisogno di riscoprire «un clima di legalità, di giustizia, di trasparenza». Attenzione però: «La giusti­zia va intesa anche come distribuzione delle risorse ed equità nei guadagni, capace di te­nere in considerazione prima di tutto chi è in difficoltà». A corollario si precisa che la lega­lità e la giustizia vanno vissute «fin dalle pic­cole cose di ogni giorno»: nella scuola, nel la­voro, nello sport e nel tempo libero. È qui che «vanno proposte e realizzate piccole scelte quotidiane di onestà».
3 ) La vita sociale e politica.
C’è bisogno che ogni cittadino si appassioni alla vita della città «in modo responsabile, competente e concreto». In questo senso «l’im­pegno politico è un servizio alla comunità», che va vissuto senza privilegi e con sobrietà. Il testo sottolinea la necessità di promuovere a tutti i livelli «la formazione socio-politica». Con una raccomandazione: «Le varie realtà ec­clesiali sono invitate a non chiudersi» e a «da­re vita a percorsi e scuole di formazione». I gio­vani passano dunque all’azione: «Oltre alla partecipazione concreta alla vita sociale e po­litica » chiedono di potersi confrontare con «chi ha responsabilità socio-politiche» e di so­stenere «i media cattolici affinché diffondano le buone prassi che generano speranza».
4) L’educazione.
Il cambiamento e il rinnovamento della so­cietà necessitano di un processo di educazio­ne integrale della persona. «Nella condivisio­ne della responsabilità educativa, la comu­nità cristiana, guidata dai Vescovi – si legge an­cora nel documento –, deve sostenere con­cretamente quanti sono più direttamente coinvolti nel servizio educativo», con un ruo­lo di primo piano assegnato ai valori della gratuità e del dono. Il denaro non è la garan­zia per il buon funzionamento di una comu­nità, «lo è invece l’amore». Va riconosciuto in­fine «l’inestimabile valore della dignità della persona e della vita», mentre «la famiglia de­ve essere sostenuta e aiutata».
5) Il lavoro.
Il documento si apre alla speranza: «Il mon­do degli adulti deve continuare a offrire la propria esperienza affiancando e sostenendo la crescita professionale dei giovani». La ri­cetta suggerit a per creare lavoro è semplice, ma non per questo è facile da realizzare: «Rom­pere il corporativismo», chiedono i giovani al mondo degli adulti, e garantire nuova vita al­la «mobilità sociale intergenerazionale».

Da Avvenire di martedì 25 maggio 2010
INTERCETTAZIONI: COMUNICATO DELLA FNSI, CON POSTILLA DEL DIRETTORE
No alla logica del bavaglio Ma sì a una vera responsabilità
Del Direttore di Avvenire Marco Tarquinio
I direttori e le redazioni dei giornali italiani, con la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, denunciano il pericolo del disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche per la libera e completa informazione.
Questo disegno di legge penalizza e vanifica il diritto di cronaca, impedendo a giornali e notiziari (new media compresi) di dare notizie delle inchieste giudiziarie – comprese quelle che riguardano la grande criminalità – fino all’udienza preliminare, cioè per un periodo che in Italia va dai 3 ai 6 anni e, per alcuni casi, fino a 10. Le norme proposte violano il diritto fondamentale dei cittadini a conoscere e sapere, cioè ad essere informati.
È un diritto vitale irrinunciabile, da cui dipende il corretto funzionamento del circuito democratico e a cui corrisponde – molto semplicemente – il dovere dei giornali di informare.
La disciplina all’esame del Senato vulnera i principi fondamentali in base ai quali la libertà di informazione è garantita e la giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giornalisti esercitano una funzione, un dovere non comprimibile da atti di censura. A questo dovere non verremo meno, indipendentemente da multe, arresti e sanzioni. Ma intanto fermiamo questa legge, perché la democrazia e l’informazione in Italia non tollerano alcun bavaglio.
Non mi sento di sottoscrivere in tutto e per tutto il testo sopra riportato. Da direttore di Avvenire, fatico a riconoscermi in esso soprattutto per un motivo: nella riunione convocata dalla Fnsi ci sono stati anche accenti riflessivi e saggiamente autocritici da parte di vari autorevoli colleghi, ma di questi nel comunicato finale non v’è la minima traccia. Peccato. Credo che noi giornalisti non dovremmo perdere occasioni al cospetto dell’opinione pubblica per affermare il nostro lavoro più come servizio che come potere, più come responsabilità liberamente assunta e liberamente attuata che come libertà tout court.
Non voglio essere equivocato e perciò ribadisco anche qui, chiaro e tondo, che neanche a chi fa Avvenire piace l’idea di un possibile lungo 'silenziatore' mediatico alle inchieste su malavita, malafinanza e malapolitica: sarebbe pericoloso tentare di imporre un simile 'tappo' e, alla fine, in un grande Paese democratico come il nostro, sarebbe anche tormentosamente inutile. So però – lo dico da cittadino prima che da giornalista – che lo statu quo è ingiusto e insopportabile. Ci sono un bene da tutelare e un bene da recuperare. Va preservata l’efficacia dell’azione della magistratura, che non può e non deve ritrovarsi con armi spuntate nel suo impegno contro ogni forma di criminalità. E va ripristinato l’ossequio assoluto al principio di presunzione d’innocenza e, dunque, il rispetto delle persone coinvolte in inchieste anche scottanti che non possono e non devono più essere oggetto di incivili e inappellabili processi mediatici spesso segnati, grazie alla divulgazione di conversazioni telefoniche intercettate, da devastanti incursioni nella loro sfera privata. Anche questo dobbiamo sentire come dovere.

sabato 22 maggio 2010

PORTA PAROLA 22 maggio 2010


Da PiùVoce.net di giovedì 20 maggio 2010
Cosa insegna il drammatico sacrificio di questi nostri italiani per bene
MORIRE A KABUL
MORIRE A BANGKOK
di Domenico Delle Foglie
Morire a Kabul. Morire a Bangkok. Tre italiani per bene, giovani come può essere giovane chi insegue un sogno e un valore per i quali spendere la vita, hanno lasciato la loro di vita in un Paese lontano. Dinanzi a questi italiani per bene, due militari e un fotoreporter andati a guadagnarsi il pane in un Paese lontano, abbiamo il dovere di misurare le parole e di lasciare spazio alle ragioni del cuore. Saper dire anche un semplice grazie è sufficiente per non lasciare sole le famiglie in un momento così drammatico, ma anche per testimoniare una gratitudine verso chi riscatta tante nostre pigrizie e vuoti di coraggio.
Dinanzi a un Paese impaurito da una crisi finanziaria che potrebbe riportarci indietro di trent’anni, la morte di questi tre uomini ci riporta all’essenziale. Qualcuno ci ha donato la democrazia, il benessere, la libertà. Che qualcuno di noi, per noi e nel nostro nome, aiuti Paesi lontani a conquistare la democrazia e la libertà, presupposti necessari del benessere, ci deve rendere tutti più coraggiosi. Scacciare le paure, lo ripetiamo, necessita la scelta del bene così come oggi si presenta dinanzi a noi. Cioè nel nostro tempo difficile, in un mondo globalizzato che pretende la condivisione dei diritti e dei doveri al di là di ogni divisione di razza, nazione, religione.
A nome di tutti noi il grazie infinito a Massimiliano Ramadù, Luigi Pascazio e Fabio Polenghi.
E a quanti in queste ore soffrono, la certezza che non dimenticheremo questi bravi italiani.

Da Avvenire di sabato 22 maggio 2010
L’OGM «CREATO» DA VENTER
HANNO FATTO UN ABILE «PUZZLE» E LO CHIAMANO NUOVA VITA
ASSUNTINA MORRESI
Non è una sfida a Dio l’ultimo risultato ot­tenuto da Craig Venter e dalla sua équi­pe, ma una sofisticata operazione tecnologi­ca, un 'copia, incolla e metti la firma': non è una creazione dal nulla, piuttosto sono state sapientemente assemblate sequenze di Dna già esistenti in natura, e riprodotte in labo­ratorio, insieme a qualche sequenza dise­gnata per 'marcare' il genoma ottenuto e di­stinguerlo dall’originale naturale, una specie di 'firma' degli scienziati inserita nel Dna stesso. Il Dna così prodotto in laboratorio è stato poi sostituito a quello di una cellula na­turale, che è stata in grado di replicarsi gra­zie al nuovo patrimonio genetico, cioè se­guendo gli 'ordini' del Dna sintetico.
Per produrre il genoma in laboratorio non sono stati utilizzati nuovi aminoacidi. I 'mat­toni' con cui è stato costruito questo Dna sono quelli di sempre, e quindi parlare di «crea­zione di una nuova vita artificiale» è quanto meno ambiguo, visto che il cromosoma è co­piato da quello naturale, e che anche la cel­lula che ha ospitato il Dna è naturale. D’altra parte ogni organismo geneticamente modi­ficato può essere considerato una «nuova vi­ta artificiale» che si affaccia sul pianeta, con un patrimonio genetico diverso da quelli già esistenti.
In altre parole, i ricercatori del gruppo di Ven­ter hanno composto con grande abilità un e­norme puzzle, utilizzando i pezzi già messi a disposizione dalla natura, per realizzare un disegno pressoché i­dentico a quello già tracciato naturalmen­te. Non sappiamo an­cora a quali risultati porterà la nuova pro­cedura tecnica messa a punto: la produzio­ne di biocarburanti piuttosto che impor­tanti applicazioni bio­mediche. Lo vedremo nel tempo. Per ora, i problemi che pone so­no analoghi a quelli di ogni ogm: la valutazione dell’eventuale im­patto con l’ambiente naturale, le possibili ri­percussioni sulla regolamentazione dei bre­vetti e sul mercato biotecnologico.
Nell’articolo scientifico pubblicato è eviden­te la profonda capacità manipolatoria rag­giunta dagli scienziati, che li fa parlare addirittura di 'design' di cromosomi sintetici, e che indica la necessità di una vigilanza mol­to attenta per il futuro. La stessa richiesta del capo della Casa Bianca Barack Obama alla Commissione bioetica presidenziale di ap­profondire le questioni sollevate dall’esperi­mento è un segnale in tal senso. Ma ad in­quietare per ora non è tanto l’esperimento in sé, quanto i toni con cui se ne parla.
È ben noto che Craig Venter è innanzitutto un bravissimo imprenditore di se stesso: sono già stati annunciati per i prossimi giorni do­cumentari in anteprima mondiale su questo studio, a dimostrazione dell’accuratissima preparazione mediatica del lancio della no­tizia, organizzata su scala planetaria. Una sa­piente e spregiudicata strategia di marketing industriale per un mercato enorme come quello che gira intorno alle biotecnologie, nel quale troppo spesso ad annunci trionfali non seguono i risultati promessi.
Fa riflettere, poi, l’enfasi con cui la notizia è rimbalzata sulle prime pagine di tutti i gior­nali, con evocazioni di immagini bibliche, tipo «assaggiare il frutto dell’albero della vita», o «l’uomo ha creato la vita», o con afferma­zioni come «progettare una biologia che fac­cia quel che vogliamo noi», e potremmo con­tinuare con le citazioni. Che la sfida della conoscenza debba sempre essere presentata come mettersi in arrogan­te gara con Dio, non rende ragione alla scien­za stessa. Il mestiere dello scienziato è quel­lo di cercare di comprendere sempre più a fondo la struttura intima della materia e del­la vita, ed è frutto di intelligenza – quella stes­sa che ieri il cardinal Bagnasco ci ha ricorda­to essere «dono di Dio» – , curiosità e, so­prattutto, di umiltà. Significa essere consa­pevoli di stare di fronte ad un mistero che mentre si fa esplorare ci suggerisce nuove do­mande, altre questioni da affrontare e cono­scenze da mettere a fuoco. Un mistero che svelandosi si mostra infinito.

Il libro da leggere (secondo PortaParola Ravenna)
Come la fede mi ha ridato il sorriso
UN VOLO DI FARFALLA
Vi possiamo assicurare, senza alcuna ipocrisia o esagerazione, che raramente si ha la possibilità di leggere convinzioni così edificanti sul senso che la sofferenza ha per un cristiano e sul suo valore salvifico.
Dal racconto della Sua vita – dall’allontanamento da Dio in seguito al fallimento dell’operazione che Le avrebbe dato la possibilità di camminare normalmente fino al ritorno alla fede durante un pellegrinaggio a Lourdes – emerge una coraggiosa, serena e fiduciosa accettazione della volontà di Dio da cui consegue la donazione della propria sofferenza e disabilità per la conversione dei peccatori.
Nell’eroica testimonianza di fede che Rita sta dando a tutti coloro che la incontrano e che leggono il suo libro prendono mirabile forma le parole che Benedetto XVI ha rivolto ai malati nella Piccola Casa della Divina Provvidenza lo scorso 2 maggio in occasione del Viaggio Apostolico a Torino: «Cari malati, voi svolgete un’opera importante: vivendo le vostre sofferenze in unione con Cristo crocifisso e risorto, partecipate al mistero della sua sofferenza per la salvezza del mondo. Offrendo il nostro dolore a Dio per mezzo di Cristo, noi possiamo collaborare alla vittoria del bene sul male, perché Dio rende feconda la nostra offerta, il nostro atto di amore. Cari fratelli e sorelle, tutti voi che siete qui, ciascuno per la propria parte: non sentitevi estranei al destino del mondo, ma sentitevi tessere preziose di un bellissimo mosaico che Dio, come grande artista, va formando giorno per giorno anche attraverso il vostro contributo. Cristo, che è morto sulla Croce per salvarci, si è lasciato inchiodare perché da quel legno, da quel segno di morte, potesse fiorire la vita in tutto il suo splendore. Questa Casa è uno dei frutti maturi nati dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo, e manifesta che la sofferenza, il male, la morte non hanno l’ultima parola, perché dalla morte e dalla sofferenza la vita può risorgere. […]
[…] se la passione dell’uomo è stata assunta da Cristo nella sua Passione, nulla andrà perduto. Il messaggio di questa solenne Ostensione della Sindone: “Passio Christi – Passio hominis”, qui si comprende in modo particolare. Preghiamo il Signore crocifisso e risorto perché illumini il nostro pellegrinaggio quotidiano con la luce del suo Volto; illumini la nostra vita, il presente e il futuro, il dolore e la gioia, le fatiche e le speranze dell’umanità intera».
Rita ha accettato di abbracciare la propria Croce, di seguire e servire Gesù ogni giorno, «costi quel che costi» (Benedetto XVI, 18 agosto 2005): chiediamo alla Vergine Maria, che in questi giorni di Novena invochiamo con il titolo di Madonna Ausiliatrice, che doni anche a noi il coraggio e la forza di accettare le fatiche e le sofferenze – che a ben guardare sono, spesso, ben poca cosa – che giorno per giorno siamo chiamati ad affrontare; affinché possano servire alla nostra salute spirituale e per la conversione di coloro che non credono in Dio.
Segnaliamo anche che sul sito www.bol.it il libro è in offerta 3x2: per ogni 3 libri acquistati uno è in regalo!

Da Bologna 7 supplemento di Avvenire di Domenica 16 maggio 2010
Mass media: nuova pastorale nel «cortile dei gentili»
Di Marco BARONCINI
I mass e new media hanno bisogno della Chiesa, come la Chiesa «ha bisogno» di loro. La necessità dei media deriva dal fatto che, del decantato «connecting people », ci è rimasto solo un profondo senso di solitudine, soli in mezzo a tanti. Le nuove «medicine digitali», aumentano il dilagante solipsismo interiore, innescando il bulimico perverso meccanismo di abbondanti connessioni, spesso senza trasmissioni di alcun che. Del resto la tecnologia può insegnarci a usare proficuamente uno strumento ma non come umanizzarsi con essi. La «necessità» della Chiesa, invece, deriva da un aspetto di responsabilità e di opportunità: l’impellente e prioritario compito di annunciare. Il Santo Padre, ripetutamente ci ricorda, ed il nostro Cardinale Arcivescovo proprio giovedì scorso per la Madonna di San Luca, che c’è uno spazio fondamentale che attende con impazienza il nostro annuncio, il cosiddetto «cortile dei gentili». Soprattutto qui, oggi, la Chiesa è chiamata a svolgere il suo «munus propheticum». Vi sono vari cortili dei gentili, il proprio ambiente di lavoro ad esempio. Il Santo Padre, però, ne ricorda uno in particolare: «La rete potrà così diventare una sorta di "portico dei gentili",
dove "fare spazio anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto". In questo senso si ha bisogno di questi mezzi, perché ambiente (mediatico), cortile in cui esercitare la propria missione. La cosa più interessante, poi, è che le persone stesse hanno già trasformato questi mezzi in ambiente e quindi in un cortile di gentili, dove spesso porre domande sostanziali; gli argomenti religiosi sono i più ricercati. I nuovi gentili, pur vivendo la religione ormai come cosa estranea, non vogliono rimanere semplicemente senza Dio, stufi degli dei che la irreligiosità ha loro (im)posto. Le chiese si saranno un po’ svuotate - dipende -, ma le persone non sono certamente scomparse. Sono lì. Allora prendiamo il largo - da testimoni e non solo da tecnici – per tornare a pescare, tenendo viva «la questione su Dio come questione essenziale per l’esistenza» dell’uomo. Con questi mezzi, messi «al servizio della Parola" sarà un po’ più facile raggiungere i confini della terra. Pertanto, senza limitarci a mettere in evidenza solo i rischi che questi nuovi strumenti possono produrre, come ambiente pervasivo, pensando così di essere già intervenuti, rimbocchiamoci le maniche e, con chiara identità di Chiesa, diamoci da fare. Noi custodiamo ciò che il popolo cibernetico cerca ma non trova ancora. Chissà, dal cortile dei gentili -magari- a qualcuno verrà voglia di tornare nel tempio, passando dal Dio sconosciuto a quello conosciuto. Il Santo Padre, durante l’udienza dello scorso 24 aprile 2010, di fronte a 8000 comunicatori di tutta Italia, concludeva: «Il mondo della comunicazione sociale entri a pieno titolo nella programmazione pastorale». La nostra Diocesi ha tutti i requisiti per raccogliere questo invito, forte del lungo lavoro sviluppato sapientemente, in questi anni, dai nostri Vescovi. Ci aspettiamo, una più profonda consapevolezza pastorale, da parte di tutti, per vivere da protagonisti i nuovi e i collaudati progetti diocesani, senza subirli con uno sguardo di indifferenza. Stiamo parlando di un ambiente/cortile affollato di gente, con statistiche di fruizione alle stelle. Se questo ambiente non verrà abitato da noi, i loro abitanti saranno riconsegnati ai miti e agli idoli della irreligiosità, da coloro che hanno colto, anche se per fini sbagliati, le potenzialità del "nuovo mondo".

Da Avvenire di sabato 22 maggio 2010
I VALORI CHE CONTANO
Difesa della vita Regioni in campo
Governatori d’accordo con la proposta di Casini (Mpv) Pier Luigi Fornari
Una rete di confronto legislativo e di governo sulle politiche regionali in difesa dei nascituri, delle madri e delle famiglie ha preso il via ieri nell’incontro promosso dal Movimento per la Vita (MpV), dal Forum delle famiglie e da Scienza&Vita. Erano presenti più di 30 amministratori in rappresentanza di dodici regioni (ancora di più con i messaggi di adesione).
L’evento che significativamente si è tenuto nella sede della regione Lazio, alla presenza del governatore Renata Polverini e del suo omologo lombardo Roberto Formigoni (Roberto Cota del Piemonte e Gian Mario Spacca delle Marche hanno inviato rappresentanti), costituisce la migliore partenza di una tre giorni "di non rassegnazione" nell’anniversario dell’approvazione della legge 194 per l’aborto (22 maggio 1978).
«Crisi economica, disoccupazione, immigrazione e anche le sfide di politica internazionale – ha esordito il presidente del MpV Carlo Casini –, possono essere fronteggiate con successo guardandole con gli occhi dei bambini, questo significa riconoscere la loro dignità umana fin dal concepimento anche a livello di legislazione regionale». Ricordando il triste bilancio di 5 milioni di aborti dall’approvazione della 194, l’europarlamentare ha definito «una questione strategica» l’attivazione di una rete tra gli amministratori regionali in difesa della vita.
La Polverini ha assicurato da subito la sua «attiva e convinta» adesione all’iniziativa di «straordinaria forza» promossa da Casini a sostegno della vita e della famiglia, con misure come il bonus bebè, i mutui agevolati per le giovani coppie, l’aumento degli asili nido (uno sarà creato nella sede regionale). «I consultori non sono ancora attivati come dovrebbero per cercare di indirizzare la donna verso scelte diverse dall’aborto», ha aggiunto il governatore del Lazio. Citando anche l’esperienza della campagna elettorale, ha garantito l’apertura al volontariato.
Olimpia Tarzia, di cui Casini ha ricordato l’impegno nella prima battaglia del MpV contro l’approvazione della 194, ha annunciato che ricercherà consensi anche al di là della maggioranza per la sua proposta di riforma dei consultori nel Lazio già presenta allo scadere della legislatura 2000-2005. In rappresentanza del governatore leghista Cota, Marco Penna ha sollecitato un riesame parlamentare della 194 per dare maggior valore alla prevenzione dell’aborto. «Oggi ci sono i numeri per modificare la legge», ha registrato il consigliere della Toscana Marco Carraresi. Il siciliano Salvino Caputo ha prospettato la creazione di una banca dati a servizio della rete pro vita degli amministratori regionali.
Luca Marconi, assessore alla famiglia delle Marche, ha richiamato l’attenzione sul problema della tutela della vita nella fase terminale di fronte al rischio di spinte in senso contrario con il crescere della spesa sanitaria. «L’adozione della Ru486 può fortemente ostacolare la dissuasione dell’aborto», ha avvertito Lodovica Carli del Forum delle famiglie, proponendo quindi linee guida regionali che verifichino l’efficacia dei colloqui previsti, la collaborazione con il volontariato e la fissazione «del limite delle 22 settimane, epoca a partire dalla quale c’è possibilità di sopravvivenza del feto, per l’esecuzione di aborti dopo i primi novanta giorni di gravidanza». Lucio Romano, copresidente di Scienza&Vita, ha messo in guardia contro la nuova offensiva abortista della pillola EllaOne.
Politiche per la conciliazione lavoro-famiglia sono state sollecitate da Mariella Zezza assessore competente del Lazio. Il vicepresidente del Mpv Roberto Bennati ha sollecitato la erogazione di risorse da parte delle regioni ai comuni per il sostegno delle madri in difficoltà e per le case di accoglienza che le ospitino.
«C’è punto su cui non ci sono divergenze: la 194 è stata male applicata, principalmente perché non è riconosciuta la identità umana del concepito», ha detto in conclusione l’altro vicepresidente Pino Morandini, chiedendo perciò la riforma del primo articolo della legge e del Codice civile, la valorizzazione del volontariato, percorsi preferenziali di assistenza per le madri in difficoltà. Oggi sarà presentato un rapporto sui Centri di aiuto alla vita: dalla approvazione della legge 120mila bambini sono stati salvati dall’aborto.

Una strategia unitaria della rete degli amministratori regionali a difesa della vita.
Consultori aperti al volontariato in vista della solidarietà per le maternità difficili, efficaci interventi di rimozione delle cause dell’aborto anche nei riguardi di quello farmacologico (Ru486), protezione dell’obiezione di coscienza, iniziative culturali ed educative per il riconoscimento del diritto alla vita fin dal concepimento.
Sono alcuni degli obiettivi di «una strategia unitaria» della «rete degli amministratori regionali» che ha preso il via ieri nell’incontro promosso dal Movimento per la vita, dal Forum delle famiglie e da Scienza&Vita. I politici locali presenti hanno auspicato l’inizio a livello regionale di una sensibilità nuova a difesa del nascituro e conseguentemente «una interpretazione ed attuazione della legge 194 attribuendo significato normativo decisivo all’articolo 1 laddove si proclama che la Repubblica tutela la vita umana fin dal suo inizio».
A tale scopo si ritiene opportuno che l’inizio della vita umana sia reso esplicito con l’indicazione «fin dal concepimento» e si auspica che «tale precisazione trovi il consenso delle giunte e dei consigli regionali fino ad approdare agli Statuti». Si chiede anche che i colloqui previsti dall’articolo 5 della 194 siano orientati «in modo da determinare una responsabilizzazione verificabile degli operatori sanitari e delle donne in difficoltà». Per quanto riguarda l’aborto chimico si è evidenziato che «ostacola fortemente» l’applicazione della legge perché i tempi a disposizione per la prevenzione sono esigui.

Da Avvenire di sabato 22 maggio 2010
La regione Lombardia stanzia fondi per aiutare le donne
Contro l’aborto un fondo illimitato
«Nessuna donna in Lombardia dovrà più abortire per difficoltà economiche», lo ha affermato il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, a proposito del «fondo illimitato» istituito nelle sua regione che darà un aiuto a tutte le madri che potrebbero arrivare all’aborto per mancanza di risorse. Le iniziative messe in campo dalla sua amministrazione seguono due direttrici: sostegno alla famiglia e alla genitorialità e valorizzazione dei consultori familiari. La Lombardia ha stanziato per l’anno in corso 27 milioni di euro di cui 17 per il buono famiglia per i nuclei disagiati, 7 per il sostegno alle responsabilità familiari e il contrasto al disagio giovanile e 3 per progetti di aiuto alla vita a sostegno delle mamme incinte e con bambini fino a un anno. I consultori accreditati (284, di cui 59 privati) assistono 566 mila persone l’anno.

Famiglia, il network di Parma
Appello bipartisan dei Comuni: subito politiche su misura per chi ha figli
PARMA. È nato ieri a Parma il 'Network italiano di città per la famiglia' che unisce una cinquantina di Comuni tra cui Parma, Roma, Bari e Varese. Una iniziativa di cui il Forum delle associazioni familiari è stato fin dall’inizio ispiratore e stimolo. «Il Forum ha tra i suoi obiettivi specifici quello di interagire con gli enti locali, perché siamo certi che la qualità di vita delle famiglie si sviluppa e progredisce dentro un territorio, dentro le piazze che calpestiamo, dentro le strade in cui mandiamo in giro i nostri figli», ha spiegato il presidente del Forum, Francesco Belletti.
A sottoscrivere l’appello che i sindaci hanno lanciato al governo e alle istituzioni nazionali, tra gli altri, c’erano anche Pietro Vignali, sindaco di Parma, e il primo cittadino di Roma Gianni Alemanno.
Per il primo, si tratta di «un esempio bipartisan di federalismo e di sussidiarietà». Parma è stata la prima città in Italia ad avere introdotto, a livello comunale, il quoziente familiare per rimodulare l’indicatore di reddito Isee in modo che all’aumentare del carico familiare (numero di figli, ma anche anziani a carico o affidi) decrescano tasse e tariffe comunali. Per Alemanno, «l’introduzione del quoziente familiare non è un’utopia e si può realizzare anche nei momenti di crisi». Perchè sbaglia chi dice che «la crisi fa rinviare le riforme. Le crisi devono trovare risposta nelle riforme».

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sabato 15 maggio 2010

44ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

“Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola” è il tema scelto dal Santo Padre Benedetto XVI per la 44ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che si celebra il 16 maggio 2010.
“Il tema della prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali – “Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola” -, si inserisce felicemente nel cammino dell’Anno sacerdotale, e pone in primo piano la riflessione su un ambito pastorale vasto e delicato come quello della comunicazione e del mondo digitale, nel quale vengono offerte al Sacerdote nuove possibilità di esercitare il proprio servizio alla Parola e della Parola – scrive Benedetto XVI -. I moderni mezzi di comunicazione sono entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari, attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio ed instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio, ma la loro recente e pervasiva diffusione e il loro notevole influsso ne rendono sempre più importante ed utile l’uso nel ministero sacerdotale.
Guarda i video su Youtube:

Da Avvenire di venerdì 14 maggio 2010
DA BENEDETTO LEZIONE DI FEDE E DI UMANITÀ
IL VERO SEGRETO È LA CERTEZZA DI ESSERE SALVATI
LUIGI GENINAZZI
L’Altare del mondo, come è stato definito più volte il san­tuario di Fatima, torna ad essere la Cattedra del mon­do. E’ qui che la visita pastorale del Papa in Portogallo ha a­vuto il suo culmine ieri, con l’affollatissima celebrazione li­turgica nell’anniversario della prima apparizione della Ma­donna ai tre «pastorinhos». Benedetto XVI è venuto nella «ca­sa che Maria ha scelto per parlare a noi nei tempi moderni», ha detto nell’omelia. C’era grande attesa per le parole che il Papa teologo avrebbe pronunciato nel luogo simbolo della de­vozione popolare alla Vergine. Il Messaggio di Fatima, con le sue profezie, è più che mai al centro di un dibattito che vede schierati su sponde estreme «fatimisti» e agnostici, o in un cer­to senso, apocalittici ed integrati. Ed ovviamente hanno pro­vato a tirarci dentro anche Papa Ratzinger. Ma lui è venuto con un solo scopo: «gioire della presenza di Maria e della sua materna protezione... nel desiderio di trasmettere quella spe­ranza grande che arde nel mio cuore e che qui, a Fatima, si fa trovare in maniera più palpabile».
Sì, possiamo dire che Benedetto XVI è salito in cattedra per ripeterci quella grande lezione di fede che, quasi cent’anni fa, ha avuto inizio in una landa desolata dell’Estremadura chiamata «Cova da Iria» ed oggi scuote ancora la Chiesa e il mondo. «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profe­tica di Fatima sia conclusa», ha ammonito il Papa. Ma que­sto non significa che ci siano «altri» e «nascosti» segreti di Fa­tima dopo che nel 2000 fu svelata la visione contenuta nel Ter­zo Segreto (il vescovo vestito di bianco che cade come mor­to mentre avanza verso la Croce tra i cadaveri di tanti marti­ri) e fu spiegata come «l’interminabile Via Crucis del XX se­colo », culminata nell’attentato a papa Wojtyla il 13 maggio del 1981. In ginocchio davanti alla statua della Vergine, Bene­detto XVI appena giunto a Fatima ha ricordato le tre visite compiute dal suo predecessore ed il gesto con cui volle of­frire al santuario il proiettile che l’aveva ferito gravemente e che poi è stato incastonato nella corona della Madonna del Rosario. Ed ha aggiunto che è motivo di consolazione il fat­to che in quella corona «non vi siano soltanto l’oro e l’argento delle nostre gioie e speranze ma anche il proiettile delle no­stre preoccupazioni e sofferenze».
Per Benedetto XVI la profezia è una scuola di lettura del mon­do alla luce della fede. In questo senso il Messaggio di Fati­ma viene approfondito nel corso della storia, che oggi vede la Chiesa soffrire soprattutto per il male che viene dal suo in­terno. Ma «capire i segni dei tempi vuol dire comprendere l’ur­genza della penitenza e della conversione. Questa è la paro­la chiave di Fatima, il triplice grido: Penitenza, Penitenza, Pe­nitenza! ». Lo diceva l’allora cardinale Ratzinger nel suo com­mento al Terzo Segreto. Ed oggi Benedetto XVI ci richiama quel messaggio impegnativo e al tempo stesso consolante. E’ il Messaggio di Fatima che guarda oltre le minacce, i perico­li e gli orrori della storia per trasmettere «un’esperienza di grazia, quella che ci fa diventare innamorati di Dio», ha det­to ieri, davanti a mezzo milione di fedeli. È questo, ci sentia­mo di chiosare, il vero «segreto» di Fatima: non la previsione di sciagure apocalittiche ma la certezza di essere salvati da un Altro. Come diceva lo scrittore francese Paul Claudel «Fa­tima rappresenta l’irruzione scandalosa del soprannatura­le ». Che, sappiamo bene, c’entra con «una Signora più lumi­nosa del sole» e non con oscure dietrologie.

Dirette televisive e via WEB
Domenica in piazza con il Papa. Preghiera e solidarietà
Il sito informatico della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali
www.cnal.it trasmetterà in diretta audio-video il momento di preghiera e di incontro con il Papa Benedetto a partire dalle 10,55 di domenica fino alle 12,20.
L’incontro sarà seguito in diretta da Tv2000 a partire dalle 10,55 e da «A Sua immagine» (Raiuno) dalle 10,30.
Il blog
www.asuaimmagine.blog.rai.it, che ha lanciato l’iniziativa «Il tuo sms al Papa», è stato raggiunto da 15mila contatti al numero 335.1863091.

Da Avvenire di giovedì 13 maggio 2010
IL PAPA IN PORTOGALLO
Una marea umana a Fatima attorno a Benedetto XVI
"La folla di circa 500 mila fedeli che hanno partecipato questa mattina alla messa celebrata dal Papa sulla spianata del Santuario di Fatima non è una sorpresa: per il popolo cristiano i viaggi del Papa sono sempre l'occasione per una grande mobilitazione". Lo afferma il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, leggendo il significato di una folla così numerosa, ben oltre quella che aveva accolto a suo tempo Giovanni Paolo II. Per Lombardi "quanto accaduto negli ultimi mesi, con i problemi dello scandalo degli abusi, poteva far pensare che si oscurasse la vitalità, l'attenzione nei confronti del Papa. Ma questo non è avvenuto, questa vitalità non è in crisi per le discussioni dei mesi passati, e il fatto che si manifesti in modo così evidente la forza della fede è molto incoraggiante".
Per Lombardi, inoltre, il fatto che Benedetto XVI "attualizzi" il contenuto della profezia di Fatima, anche oltre gli eventi tragici del ventesimo secolo, significa che per lui "la profezia è una scuola di lettura del mondo e degli avvenimenti che sono davanti a noi alla luce della fede". Se qualcuno - osserva il gesuita - ha letto nella visione di Fatima le realtà del secolo ventesimo ha fatto benissimo, perchè quella era l'epoca in cui parlavano i veggenti, ma questo non vuol dire che si chiude la scuola della lettura degli avvenimenti in una prospettiva di fede".
LA GIORNATA DEL PAPA
«Anch’io sono venuto come pellegrino a Fatima, a questa «casa» che Maria ha scelto per parlare a noi nei tempi moderni». Così Benedetto XVI, nell’omelia della Messa sulla spianata del santuario di Fatima, che questa mattina ha aperto la terza e penultima giornata della sua visita in Portogallo.
«Sono venuto a Fatima – ha spiegato il Papa - per gioire della presenza di Maria e della sua materna protezione», perché «verso questo luogo converge oggi la Chiesa pellegrinante»; per pregare «per la nostra umanità afflitta da miserie e sofferenze».
Infine, «sono venuto a Fatima, con gli stessi sentimenti dei Beati Francesco e Giacinta e della Serva di Dio Lucia, per affidare alla Madonna l’intima confessione che «amo», che la Chiesa, che i sacerdoti «amano» Gesù e desiderano tenere fissi gli occhi in Lui, mentre si conclude quest’Anno Sacerdotale, e per affidare alla materna protezione di Maria i sacerdoti, i consacrati e le consacrate, i missionari e tutti gli operatori di bene”. Affidando idealmente “al cielo i popoli e le nazioni della terra» e in particolare quanti «vivono nella tribolazione o abbandonati», Benedetto XVI ha espresso il desiderio di «trasmettere loro quella speranza grande» che «qui, a Fatima, si fa trovare in maniera più palpabile».
«Tra sette anni – ha osservato il Papa - ritornerete qui per celebrare il centenario della prima visita fatta dalla Signora «venuta dal Cielo», come Maestra che introduce i piccoli veggenti nell’intima conoscenza dell’Amore trinitario e li porta ad assaporare Dio stesso come la cosa più bella dell’esistenza umana». Dio, ha proseguito il Pontefice, «ha il potere di arrivare fino a noi, in particolare mediante i sensi interiori, così che l’anima riceve il tocco soave di una realtà che si trova oltre il sensibile e che la rende capace di raggiungere il non sensibile, il non visibile ai sensi».
A tale scopo, ha tuttavia ammonito, «si richiede una vigilanza interiore del cuore che, per la maggior parte del tempo, non abbiamo a causa della forte pressione delle realtà esterne e delle immagini e preoccupazioni che riempiono l’anima».
Secondo il Papa «la fede in Dio apre all’uomo l’orizzonte di una speranza certa che non delude; indica un solido fondamento sul quale poggiare, senza paura, la propria vita; richiede l’abbandono, pieno di fiducia, nelle mani dell’Amore che sostiene il mondo». Di questa «speranza incrollabile e che fruttifica in un amore che si sacrifica per gli altri ma non sacrifica gli altri» sono «esempio e stimolo i Pastorelli, che hanno fatto della loro vita un’offerta a Dio e una condivisione con gli altri per amore di Dio».
«Si illuderebbe – ha poi avvertito il Papa - chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa. Qui rivive quel disegno di Dio che interpella l’umanità sin dai suoi primordi». «L’uomo – ha osservato - ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce ad interromperlo… Nella Sacra Scrittura appare frequentemente che Dio sia alla ricerca di giusti per salvare la città degli uomini e lo stesso fa qui, in Fatima, quando la Madonna domanda: "Volete offrirvi a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Egli vorrà mandarvi, in atto di riparazione per i peccati con cui Egli è offeso, e d supplica per la conversione dei peccatori?"». «Con la famiglia umana pronta a sacrificare i suoi legami più santi sull’altare di gretti egoismi di nazione, razza, ideologia, gruppo, individuo – ancora parole del Pontefice -, è venuta dal Cielo la nostra Madre benedetta offrendosi per trapiantare nel cuore di quanti le si affidano l’Amore di Dio che arde nel suo. In quel tempo erano soltanto tre, il cui esempio di vita si è diffuso e moltiplicato in gruppi innumerevoli per l’intera superficie della terra”, i quali «si sono dedicati alla causa della solidarietà fraterna». «Possano questi sette anni che ci separano dal centenario delle Apparizioni – è l’auspicio conclusivo di Benedetto XVI - affrettare il preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità».
Nel pomeriggio il Pontefice avrà il terzo dei tre incontri che caratterizzano questo suo viaggio in Portogallo, oltre a quelli già avvenuti con il mondo della cultura e con il clero: nella moderna chiesa della Santissima Trinità, Ratzinger vedrà le organizzazioni della pastorale sociale della Chiesa, un'occasione per affrontare i problemi sociali che affliggono la nazione lusitana. Questa terza e penultima giornata del viaggio papale si chiuderà poi nel tardo pomeriggio con un incontro con i vescovi del Portogallo.

Da Avvenire di giovedì 13 maggio 2010
Notizie dall’estero? Quasi assenti nei titoli dei tg
Nelle edizioni di prima serata, solo il 6% parla di guerre o Terzo mondo E se Haiti non fa più notizia, ampio spazio viene dedicato al gossip o agli eventi di intrattenimento
LUCA LIVERANI
Nei telegiornali italiani il mon­do è il grande assente. In due mesi i tigì, su circa 1.600 titoli, ne hanno riservati poco più di 300 alle notizie dall’estero. Ma di questi, i due terzi sono dedicati ai paesi occidenta­li, un’altra fetta consistente al gossip, ai vip e agli attori. Quello che resta a guer­re, focolai di crisi, sfide globali, am­biente: 87 servizi, più o meno il 6% del totale. Non esce affatto bene l’infor­mazione televisiva sul mondo dall’a­nalisi curata da 'Dentro le notizie', l’Os­servatorio sui tg quotidiani promosso dall’associazione 'Articolo 21. Liberi di'. A promuovere la ricerca, primo frut­to del lavoro volontario di un gruppo di giornalisti, è la Tavola della Pace e gli al­tri organizzatori della Perugia-Assisi, che l’hanno resa nota alla presentazio­ne della Marcia della pace di domeni­ca prossima 16 maggio. L’Osservatorio ha analizzato i titoli dei sette tigì di prima serata – Rai, Mediaset e La7 – dal 15 marzo al 7 maggio, dal lu­nedì al venerdì. Dei 1.587 titoli censiti, sono 314 quelli che riguardano temi in­ternazionali e non italiani, circa il 20%. Le notizie di esteri sono divisibili in tre sotto-insiemi: la fetta più grossa, 235 ti­toli, è quella dei servizi che comunque riguardano avvenimenti trattati nell’ot­tica del coinvolgimento diretto o indi­retto di interessi del Nord del mondo: nel periodo preso in esame, per esem­pio, non si parla mai di Haiti; la giorna­ta mondiale dell’acqua trova solo due titoli; solo otto sono riservati all’ultima crisi a Gaza e quasi tutti in relazione a incontri diplomatici Usa-Israele.
Poi c’è il «capitolo gossip », ovvero 71 «no­tizie/ non notizie che hanno a che fare più con l’intrattenimento» che con l’informazione. Le notizie sulle aree di crisi, le tematiche globali, le guerre, le catastrofi ambientali alla fine sono 87.
«Il mondo che i tigì presentano è al 75% totalmente autoreferenziale – si legge nella ricerca – e si presenta come una sorta di comunità nazionale allargata ad aree, temi e paesi tra loro sostanzial­mente omogenei». Un’area «che riguar­da i pochi, i ricchi - malgrado le tempe­ste finanziarie e le crisi - e comunque non più del 15% della popolazione mondiale». Ampio spazio invece, come detto, a un mondo «frivolo, pruriginoso, annoiato e senza valori: le tematiche a sfondo sessuale cui i tg danno spazio hanno tra le prime vittime la donna e la vita reale dei cittadini, entrambe tradi­te da una comunicazione che riprende e amplifica un vuoto pneumatico di i­dee ». Qualche esempio? Nove titoli sul­la coppia Sarkò-Bruni, sei sulle protesi mammarie, quattro sui problemi di cop­pia dell’attrice Sandra Bullock, tre su Clooney-Canalis, due sull’outing del cantante Riky Martin. Poca, pochissima attenzione ai problemi veri del mondo, denuncia la Tavola della pace. Che pro­prio in questi giorni ha animato la cam­pagna 'T’illumino di +', per sensibiliz­zare a «un’informazione di pace, per da­re voce agli invisibili, contro la censura, per la libertà e il diritto all’informazio­ne ». Da giugno l’Osservatorio di Artico­lo 21 concluderà la fase sperimentale e diventerà un’associazione aperta a sin­goli, associazioni e sindacato. Si avvarrà della collaborazione di Mario Morcelli­ni. L’analisi verrà allargata anche ai tigì serali di RaiNews24 e SkyTg24. E quoti­dianamente il report del giorno sarà co­municato alle agenzie, in contempo­raena con i dati Auditel.

Da Il Timone di giovedì 13 maggio 2010
Dopo Reggio Emilia anche a Sassuolo s’inaugura una cappella di preghiera permanente
SECONDO CASO IN EUROPA DI ADORAZIONE EUCARISTICA PERPETUA IN UN OSPEDALE
Si è inaugurato ufficialmente sabato 10 aprile con la celebrazione della Santa Messa presso il piazzale dell’ospedale civile di Sassuolo, l’apertura dell’AEP (Adorazione Eucaristica Perpetua).
L’AEP è l’esposizione del Santissimo Sacramento 365 giorni l’anno, giorno e notte ininterrottamente.
Seguendo l'esempio dell'iniziativa di Reggio Emilia, l'Associazione Regina della pace ha proposto alla Direzione dell'Ospedale, che ha accolto volentieri, di trasferire l'esperienza di Padre Justo Antonio Lo Feudo per consentire l'adorazione perpetua del Signore 24h/24h tutto l’anno.
Il 10 aprile p.v. alle h 16.00 all'interno di una tensostruttura situata all'esterno dell'Ospedale, si inaugurerà la seconda Cappella italiana di adorazione perpetua all'interno di un Ospedale.
L'iniziativa si inserisce in una catena di adorazione che comprende già diverse chiese italiane e nel mondo. La Direzione dell'Ospedale di Sassuolo ha creduto da subito a questa iniziativa volta a dare la possibilità a chiunque lo voglia, in qualsiasi ora del giorno, di potersi raccogliere in un momento di preghiera.
Secondo le parole di Padre Justo "in tempi in cui le nostre chiese rimangono spesso chiuse, una cappella sempre aperta, per chiunque voglia avvicinarsi a qualsiasi ora del giorno e della notte, è come le braccia aperte di Gesù pronte ad accogliere ogni uomo". Hanno aderito a questa iniziativa volontari di diverse parrocchie del territorio che, a turno, saranno sempre presenti all'interno della cappella. L'iniziativa ha avuto il pieno consenso della Curia Vescovile presente il giorno dell'inaugurazione.
Nel mondo esistono 2.500 cappelline di adorazione perpetua di cui 1.000 solo negli USA delle quali 100 nella solo Sant’Antonio (Texas). Il caso di Sassuolo aperta in un ospedale è il secondo in tutta Europa e il primo, pensate è nell’Arcispedale di Reggio Emilia. Due casi nella stessa diocesi, visto che Sassuolo pur essendo sotto la provincia di Modena, è incorporato nella Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla.
Hanno risposto a questa chiamata del Signore più di 400 persone di tutte le parrocchie di Sassuolo e dintorni.


Da Avvenire di venerdì 14 maggio 2010
IL RADUNO DI DOMENICA IN PIAZZA SAN PIETRO
L’affetto di noi preti più forte degli scandali MAURIZIO PATRICIELLO
Ci saranno anche i giovani delle nostre parrocchie domenica in piazza San Pietro. Vanno dal Papa per un bisogno del cuore. In questi mesi lo scandalo di alcuni fratelli sacerdoti affetti dalla patologia della pedofilia, ha portato la Chiesa sulle prime pagine dei giornali. Alcuni nemici della Chiesa – pur non essendo nemica di nessuno, essa ne annovera diversi –, hanno infangato quanto più potevano preti e vescovi, cercando di coinvolgere anche il Papa. Abbiamo sofferto. A Malta il Santo Padre si è commosso davanti ad alcune vittime di abusi sessuali dei preti.
Con lui ha pianto la Chiesa tutta. Come Gesù davanti alla tomba dell’amico Lazzaro. Come Gesù nella notte senza luci e senza amici che precedette il giorno terribile della morte. Pianse Gesù, non poteva non piangere il suo Vicario in terra ascoltando le tristissime storie raccontate da chi conobbe il sapore amaro del tradimento. Dolce e delicato sempre, Benedetto XVI, come Gesù, è stato irremovibile e severissimo con chi scandalizza gli innocenti.
Penso che il Papa sappia bene, mentre tanti sembrano dimenticarlo, che di questo morbo la scienza conosce tanto poco e ancor meno ne sanno i comuni mortali; che queste persone di certo non guariscono tenendole qualche anno rinchiuse in carcere.
Occorre investire senza badare a spese per capire cosa scatti nelle loro menti insane allorché un infante ne sconvolge la libidine.Certa stampa non è stata imparziale e ha voluto pescare nel torbido. A volte – diciamolo – è stata proprio ingiusta nei confronti di migliaia di innocenti sacerdoti sparsi per il mondo a seminare il bene. Abbiamo sofferto e pregato. Abbiamo portato la croce. Con il Papa e con la Chiesa. Ma non vogliamo chiudere gli occhi. Il problema esiste e occorre prenderne atto. Tanti pedofili, a nostra insaputa, sono in mezzo a noi e torneranno a colpire ancora. Alcuni, anzi, non hanno mai smesso di colpire. Portano dentro un disordine, un dramma che essi stessi non riescono a capire, ma hanno il terrore di chiedere aiuto. Sono carnefici, è vero.
Insidiosi e incomprensibili, ma fanno anche tanta pena, perché vittime di un morbo resistente a ogni cura. Il clima di caccia alle streghe li isola ancora di più dalla società, lasciandoli prigionieri dei loro incubi. Che ne vogliamo fare? Come aiutarli seriamente? Dove curarli? La Chiesa si fa carico dei suoi figli che hanno commesso questi obbrobri. Le vittime dei preti trovano una qualche forma di giustizia – piccola, niente e nessuno potrà mai risarcire adeguatamente il danno ricevuto –, ma chi ebbe la sciagura di cadere nelle grinfie di un pedofilo laico – intellettuale o analfabeta, parente o sconosciuto, poco importa – da chi mai potrà ricevere le scuse?
I preti domenica a Roma non saranno molti, perché nelle parrocchie loro affidate stanno celebrando e confessando; confortando e consigliando. Ma pur se assenti, essi vogliono far giungere al Papa la loro voce e il loro affetto. «Padre Santo, vogliamo chiedere perdono a tutti per i nostri confratelli che non seppero custodire l’immenso dono ricevuto. Ma chiediamo perdono anche a te, Santità.
Ogniqualvolta facciamo di testa nostra convinti di essere più incisivi.
Quando per i mille impegni dimentichiamo che nostro primo compito è ringiovanire ogni giorno l’amicizia e l’intimità con Gesù.Quando il Vangelo non troneggia sulla pila di libri pronta per esser letta. Quando la Parola che annunciamo non ci brucia le labbra e non ci tormenta il cuore. Quando dimentichiamo di essere solamente inutili servi. Padre Santo noi ti amiamo.
Confermaci nella fede, o dolce nostro Cristo in terra».

Da piùvoce.net di giovedì 13 maggio
Tre buone ragioni per essere domenica alla preghiera con il Papa e Bagnasco
COME POPOLO E FAMIGLIA TUTTI IN PIAZZA SAN PIETRO
di Franco Miano
In occasione del concerto offerto per il quinto anniversario del pontificato di Benedetto XVI, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rivolgendosi al Santo Padre, ha affermato: “Sono certo che nella discrezione e nel rispetto con cui seguiamo il quotidiano svolgersi della sua alta missione, Ella possa ben cogliere la intensa, affettuosa vicinanza nostra e del popolo italiano”, sottolineando inoltre come tale vicinanza e considerazione si estenda anche ai tanti sacerdoti che operano “per il perseguimento del bene e della concordia”.
In questa cornice di affetto e di solidarietà mi sembra particolarmente importante, per almeno tre ragioni, essere in Piazza San Pietro il 16 maggio accogliendo l’invito della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali (Cnal) a pregare con il Papa.
Primo: la priorità della preghiera. Ci rechiamo in piazza San Pietro a pregare con il Santo Padre. Ci ritroviamo così ad esprimere nella fede, nella sobrietà della preghiera del Regina coeli (che unisce ogni domenica piazza San Pietro con tutte le case del mondo), nella sottolineatura della centralità della Parola (attraverso la Liturgia della Parola presieduta dal cardinale Bagnasco prima della preghiera con il Papa), il senso vivo e profondo della vicinanza e dell’affetto del laicato cattolico, del popolo cristiano verso il Santo Padre e verso i sacerdoti tutti.
Secondo: il valore della comunione. Ci rechiamo in piazza San Pietro insieme. Insieme nella semplicità di un incontro di famiglia, di un incontro domenicale in un luogo particolarmente caro e rappresentativo di tutte le chiese e di tutte le piazze della cristianità e del mondo intero. Insieme come gruppi, associazioni, movimenti; insieme come popolo. Si tratta di un segno di comunione con il Papa, capace di esprimere nello stesso tempo l’ansia di comunione che abita la vita di ogni credente autenticamente impegnato nella Chiesa, l’esperienza di ogni realtà autenticamente ecclesiale.
Terzo: il significato di una responsabilità. Ci rechiamo in piazza San Pietro per sottolineare l’adesione al Magistero di Benedetto XVI che spinge sempre più tutti i credenti verso una fedeltà incondizionata al Vangelo, che metta in grado di riconoscere, condannare e isolare il male presente anche nella vita della chiesa e di impegnarsi a vincere il male facendo sempre prevalere il bene. In ogni circostanza, anche in quelle più difficili e problematiche, i credenti sono invitati alla conversione sorretti dalla speranza che nel Signore risorto si è fatta certezza, dall’amore del Signore della vita che chiede ad ogni credente di amare la vita e di saperla degnamente e responsabilmente far crescere.
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