sabato 26 giugno 2010

PORTA PAROLA 26 GIUGNO 2010




da Avvenire di domenica 20 giugno 2010
IL BOOM DEGLI ORATORI ESTIVI
L’ABBRACCIO CHE ALLARGA IL CUORE
UMBERTO FOLENA
Se mezzo milione di ragazzi si mettesse pa­cificamente in marcia da Bergamo a Mila­no, farebbe fermare l’Italia, si parlerebbe di fe­nomeno sociale e perfino la politica sarebbe costretta a porsi qualche domanda. Niente di tutto questo accade né accadrà. Ma il mezzo milione esiste, e soltanto tra Milano e Bergamo. In tutta Italia sono un milione e mezzo, e stia­mo escludendo i loro circa 100 mila animato­ri, in grandissima parte adolescenti.
Sono il popolo degli oratori estivi, che non si fer­mano mai ed anzi accelerano quando gli altri rallentano. Nel momento in cui la «Chiesa dei vertici» raccontata da certi giornali sembra un imputato che vede continuamente erosa la sua base popolare, la Chiesa vera – fatta di vescovi e popolo, di preti e di laici – accoglie e testi­monia, raccogliendo fi­ducia e consenso.
Mai, probabilmente, la par­tecipazione agli oratori estivi ha toccato le cifre di quest’anno: soltanto a Milano, circa 400mila ragazzi con 40mila animatori. A Bergamo gli iscritti sono 90mila, a Brescia 70mila.
In tota­le, gli oratori mobilitati sono seimila, la metà dei quali in Lombardia e Triveneto. È l’estate al­ternativa di ragazzi e giovani normali di cui non si dice nulla perché non si sa che cosa dire.
Un discorso vecchio, inutile ripeterlo. La sor­presa con il timer a ogni Giornata mondiale della gioventù; le solite copertine dei rotocal­chi e la solita trash-tv che tende a spacciare (let­teralmente: vendere agli inserzionisti) i giova­ni come tutti borderline, impasticcati, inebe­titi e bamboccioni... Un discorso vecchio, sba­gliato e inutile. Che non prevede questa Chie­sa che vive tra la gente e tra la gente tiene ben salde le radici, che non ammette l’esistenza del popolo degli oratori estivi, dei loro animatori, dei giovani preti che li seguono per vocazione e passione. Un discorso miope che ignora l’e­sistenza di una comunità ecclesiale dalle radi­ci profonde tra la gente; una comunità di cui la gente si fida perché la conosce e la sperimen­ta di persona, perché vede con i propri occhi che cosa fa e ascolta con le proprie orecchie che cosa dice. Una comunità a cui nessuno sciagurato scandalo potrà togliere credibilità; la costringerà a sostare e a riflettere, a molti­plicare cautele ed attenzioni; a pregare; ma non la fermerà né le toglierà energie.
Ma quegli adolescenti, perché frequentano l’o­ratorio? Il segreto è semplice e lo rivela don Marco Mori, presidente del Forum degli oratori italiani: «L’insegnamento più importante che i ragazzi portano a casa da questa esperienza è la fiducia che ripone in loro il mondo degli a­dulti ». Non è molto diverso dal segreto condi­viso di Giovanni Paolo II, dall’insegnamento incessante di Benedetto XVI. Abituati a troppi adulti acidi e invidiosi, preoccupati di far cala­re sul capo dei giovani giudizi senza appello e atti di sfiducia da lasciare annichiliti; con l’au­tostima troppo spesso sotto i tacchi; i ragazzi sentono allargarsi il cuore non appena incon­trano adulti che innanzitutto spalancano le braccia e li accolgono, senza giudizi né pre­giudizi; e li invitano a dare tutto quello che pos­sono dare; e dimostrano loro che possono da­re tanto, tantissimo, molto più di quanto nes­suno abbia mai fatto immaginar loro. E se sba­gliano, e se cadono, anziché sottolineare la lo­ro incapacità e lasciarli per terra, gli danno u­na mano per rimettersi in piedi e ripartire, sor­ridendo. Un oratorio così un ragazzo lo frequenta ecco­me. Inverno ed estate.

Da Tempi.it di venerdì 25 giugno 2010
IO MUSULMANA SVELO L'INGANNO DELLA PILLOLA
Tre bambini, un marito disoccupato e le pressioni da parte dei datori di lavoro. Quando Séder si fa convincere a prendere la Ru486 non sa che sarà un calvario. Da cui uscirà solo grazie a uno “strano” perdono di Benedetta Frigerio
Lugo di Romagna. Séder è una ventiseienne marocchina, la sua storia e il silenzio che le fa da cornice sono gli stessi delle donne che passano da quasi tutti i consultori e ospedali italiani. La curiosità in più, quella che sulla stampa locale ne ha fatto un piccolo (e subito archiviato) “caso” giornalistico, è che Séder è stata tra le prime donne in Italia ad abortire con la Ru486, la pillola dell’IVG fatta in (quasi) perfetta solitudine. Tre anni fa Séder rimase incinta del terzo figlio. Allora aveva appena trovato un posto fisso da badante. «La mia anziana signora e datrice di lavoro mi pregò di non abbandonarla. E suo figlio, dopo che io avevo tentato di spiegare a entrambi che sarei riuscita a portare a termine anche quella gravidanza senza venire meno al mio impegno professionale, non volle sentire ragioni: “O abortisci – mi disse – o ne prendo un’altra”. Andai dal medico di base.
Niente da fare. Ero già oltre il tempo prescritto dalla legge. La risposta del figlio della signora che accudivo è stata una serie indirizzi di siti internet che spiegano come procurarsi l’aborto in casa. Cose terribili. Avrei dovuto infilare gomme nell’utero, schiacciare la pancia e prendere strani intrugli. Mi sono licenziata». Per fortuna. «Perché questa è Nâjiyahl – dice guardando con i suoi occhi neri e lucidi la bambina che le sta accanto – la mia terzogenita».
Il viso di Séd er è perfettamente incorniciato in un velo rosa, che copre la sua bellezza «perché la bellezza non va consumata, ma preservata per Dio e per il proprio uomo». Presto si capisce perché tanta dolcezza sia rotta da singulti e sguardi pieni di angoscia. «Subito dopo la nascita di Nâjiyahl, mio marito ha perso il lavoro ed è andato in cassa integrazione. Avevo partorito da quattro mesi. Mi sono subito messa a cercare qualcosa perché eravamo senza soldi. Il giorno in cui ho trovato un posto come lavapiatti ho saputo di essere di nuovo incinta. E di nuovo i miei datori di lavoro non volevano neanche sentir parlare di gravidanza. Così ho detto alla mia dottoressa che questa volta dovevo assolutamente abortire. Lei mi ha dato il certificato.
Sapevo di andare contro il volere di Allah, ma ero disperata e sono andata all’ospedale di Lugo. Lì mi hanno dato una pillola che, dicevano, mi avrebbe fatto abortire senza accorgermi di nulla».
crampi e la solitudine
Séder prende la prima pillola (Ru486) e va al lavoro. «Mi girava la testa, stavo male e dovevo nasconderlo perché sapevo che mi avrebbero licenziata. Allora sono tornata in ospedale per prendere la seconda (Cytotec). Lì mi hanno detto che avrei avuto un flusso mestruale solo un po’ più abbondante del solito. Non mi hanno detto di tornare nemmeno per un controllo». Quello stesso giorno Séder si accascia e sviene davanti alla cassiera di un supermercato. «Avevo freddo, sudavo e il cuore mi batteva forte. Mi sono svegliata in una stanza con quelli del 118 che mi dicevano di andare in ospedale. Ma io non ci potevo andare perché dovevo lavorare. Ho firmato per tornare a casa.
In macchina ho rischiato un incidente». La sera Séder è al suo posto di lavoro. Lava i piatti fingendo di avere dolori mestruali. «In bagno, dopo contrazioni e dolori lancinanti, mio figlio mi è caduto fra le mani». Adesso Séder passa certe sere in lacrime. Fa fatica ad addormentarsi, crede di vedere il volto di quel suo bambino (anzi è certa che fosse «una bimba»), si fa dilaniare dai sensi di colpa e giura che non si perdonerà mai né lo rifarà mai più. «Piuttosto me ne starò con dieci figli sulla strada». Séder crede che finirà all’inferno per quello che ha fatto. O meglio, così credeva fino a due settimane fa. Perché, spiega, «Marta dice che Allah non è come io penso che sia». Marta è una mamma come tante altre che Séder ha incontrato all’asilo e con cui una mattina si è confidata. Marta le ha detto che pensare alla dannazione dopo tanta sofferenza e dolore «è affermare un assurdo, come se il tuo male fosse più forte della sua misericordia, come se Dio fosse andato in croce inutilmente senza riuscire a salvarci». Le ha detto proprio così, «in croce». Evidentemente non stavano parlando dello stesso Dio. O forse sì, ma Séder non ci ha badato tanto. «Si vedeva in faccia la sua fede». Così, adesso, Séder passa certe sere in lacrime e a cercare la sua amica Marta.

da Avvenire di mercoledì 23 giugno 2010
ROMA, CULLE TERMICHE NELLE FARMACIE COMUNALI
Iniziativa della Farmacap in collaborazione con il Comune per accogliere i bambini abbandonati e aiutare le neomamme in difficoltà

ROMA. Culle termiche per accogliere i bambini abbandonati e aiutare le neomamme che desiderano mantenere l’anonimato. È l’iniziativa lanciata ieri da Farmacap (Azienda speciale farmasociosanitaria capitolina) in collaborazione con l’assessorato comunale alle Politiche sociali di Roma. Il progetto, che partirà inizialmente presso una farmacia a Colle Prenestino e sarà operativo dal mese di ottobre, nasce dalla volontà di aiutare quelle donne che non vedono altra possibilità, dopo aver portato a termine la gravidanza, di celare la propria identità nell’anonimato assicurando al tempo stesso un futuro al proprio figlio.
«L’iniziativa - ha spiegato Marco Penna, vicepresidente della Farmacap - rientra in una serie di attività a sostegno della genitorialità e a tutela della vita nascente. Accanto a questo le farmacie comunali offriranno alle future mamme informazioni e indicazioni sull’importanza dell’allattamento garantendo inoltre, telefonicamente, l’opportunità di consultare gli psicologi dell’azienda che sapranno consigliare le donne in gravidanza alle prese con problematiche sociali e psicologiche». «La vita - commenta l’assessore comunale, Sveva Belviso - è un dono che va tutelato e valorizzato e il Comune di Roma, attraverso questa iniziativa vuole offrire un futuro migliore a quei bambini che non possono essere allevati e cresciuti dalle proprie madri».
Soddisfatto dell’iniziativa il presidente della Farmacap, Franco Condò: «Con questo progetto le nostre 42 farmacie si confermano un punto di riferimento socio-sanitario di grande importanza, soprattutto nelle aree marginali della Capitale. Un ruolo la cui bontà è stata confermata dall’indagine sulla qualità della vita e dei servizi pubblici locali di Roma che ha posto la Farmacap tra le realtà più apprezzate dai nostri concittadini».
«Nonostante i problemi del settore farmaceutico e la crisi economica che investe tutti i settori socio economici del territorio, la Farmacap - conclude Condò - è riuscita a migliorare i propri servizi. Nei prossimi due anni apriremo altre cinque farmacie in periferia». E dalla prossima settimana l’Azienda farmasociosanitaria avvierà il servizio notturno nelle farmacie di Forte Tiburtino e di Via Gasperina per garantire il servizio a chi rimarrà a Roma nel periodo estivo.

da Avvenire di mercoledì 23 giugno 2010
COSÌ SGUARDOCATTOLICO.IT METTE IN VETRINA LE IDEE
Lo strumento legge ogni ora i siti che gli sono stati indicati e ne estrae i contenuti per l’ulteriore condivisione
DI PAOLO BENVENUTI
Nell’era del Web 2.0 la parola d’ordine è condividere: mettere a disposizione degli altri. Internet diventa veicolo di idee, agorà di approfondimenti. La Chiesa italiana vive una presenza significativa sulla Rete. Ogni giorno vengono pubblicate molte parole, e molte di esse capaci di farci maturare: come far diventare tutto questo facile da reperire? Come si può fare in modo che l’utente della Rete trovi questo materiale, senza cercare sito per sito? Per questo è nato sguardocattolico.it nel cantiere dell’Associazione Qumran. Il primo interlocutore è stato don Giovanni Benvenuto, inventore di pretionline.it e di qumran2.net. Il secondo, don Paolo Padrini, creatore dell’iBreviary e di pope2you.net. Dallo scambio di idee è emersa la fattibilità del progetto: avere un sito che rimbalza tutta una serie di siti, rivestendoli di una grafica comune e accattivante. È così nato www.sguardocattolico.it.Come funziona? Il sito legge ogni ora i siti che gli sono stati indicati, ne estrae i contenuti, e li ripresenta, organizzati e indicando la fonte, permettendone l’ulteriore condivisione in Rete (facebook, twitter, ecc.), e offrendo anche la possibilità di andare alla fonte.SguardoCattolico legge e ripresenta anzitutto gli editoriali di Avvenire e dell’Osservatore Romano , nonché il blog del Progetto culturale. A livello di siti personali, SguardoCattolico presenta le riflessioni di padre Piero Gheddo, i blog di vari vaticanisti, il sito di don Paolo Padrini e quello di don Alberto Carrara. Il lettore è invitato a segnalare altri siti che offrano materiale serio. In una società che ha bisogno di un supplemento d’anima, SguardoCattolico si propone come strumento per aiutare la maturazione dei credenti e degli uomini di buona volontà.

www.sguardocattolico.it
Sguardo Cattolico vuole far conoscere e leggere quei siti cattolici che aiutano credenti e non credenti a comprendere la realtà di oggi alla luce del Vangelo.

da Avvenire di martedì 22 giugno 2010
LIVORNO, I GIOVEDÌ? NEL GIARDINO DEL VESCOVO
La scommessa di Ac è far discutere i ragazzi sui temi legati a fede e vita
Giacomo Gambassi
A Livorno i giovedì di luglio faranno tappa nel palazzo vescovile. È la scommessa che lancia l’Azione cattolica diocesana con l’iniziativa «Giovani nel chiostro», un viaggio intorno agli interrogativi dei ragazzi di oggi che sarà ospitato proprio nel 'giardino' del vescovo Simone Giusti. Il primo appuntamento è per il 1° luglio quando alle 21.15 arriverà nella città toscana l’assistente nazionale della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), don Armando Matteo, per un dialogo sul rapporto fra giovani e fede che avrà per titolo quello del suo ultimo libro «La prima generazione incredula». L’8 luglio uno scambio fra le generazioni con l’incontro sul tema «La meglio gioventù» che ruoterà attorno a una carrellata di testimonianze di ieri e oggi.
La settimana successiva si guarderà al domani dei ragazzi in tempo segnato dalla flessibilità. A fare da spunto la domanda «Cosa vuoi fare da grande?» per parlare del futuro sospeso tra incertezze e speranze. Infine il 22 luglio una serata­provocazione che farà incontrare che sant’Agostino e Vasco Rossi che, con un suo brano, indicherà la rotta: «Voglio trovare un senso a questa vita».

da Avvenire di domenica 20 giugno 2010
LA GIORNATA MONDIALE
L’ITALIA CAMBI MARCIA A FAVORE DEI RIFUGIATI
GIANCARLO PEREGO *
La Giornata mondiale del rifugiato 2010, che si celebra oggi, riporta all’attenzione dell’opinione pubblica, ma anche delle nostre comunità cristiane, il tema dei richiedenti asilo, dei rifugiati e delle altre categorie beneficiarie della protezione internazionale. Sono più di 15 milioni i rifugiati e decine di milioni gli sfollati interni nel mondo. È un popolo che ogni anno cresce, in un contesto internazionale in cui guerre, contrapposizioni politiche, religiose, etniche, di genere, come anche disgrazie ambientali, costringono un numero sempre maggiore di persone, famiglie, spesso appartenenti a minoranze, a spostarsi dalla propria terra. Dopo un lungo e tragico vagare, pochi rientreranno alle loro case, nel loro Paese: lo scorso anno solo 250.000. Dal 2008, anno in cui è entrata in vigore la normativa europea in materia di protezione internazionale, agli status principali di richiedente asilo, di rifugiato, di protezione sussidiaria si sono aggiunte anche le forme di protezione temporanea e protezione umanitaria.
In Italia, la protezione umanitaria non è equiparata a un diritto soggettivo, ma si tratta di una semplice autorizzazione al soggiorno per motivi di carattere umanitario. Manca una normativa nazionale specifica che tuteli i diritti che ne conseguono. Per quanto riguarda la figura della protezione temporanea, essa può essere attribuita solo a seguito di un provvedimento legislativo specifico e dinanzi a un flusso massiccio di profughi. Questo intervento è pensato, quindi, nell’ottica di impedire il blocco del sistema di asilo dinanzi a un arrivo considerevole di richiedenti provenienti da Paesi dove sono sorti conflitti armati o si sono registrate situazioni che hanno determinato la fuga in massa di molti civili, come è avvenuto per i profughi della guerra in Vietnam e Cambogia alla fine degli anni 70 o recentemente per i profughi della Bosnia e del Kosovo.
L’Italia, che all’articolo 10 della Costituzione ha preso l’impegno di difendere e tutelare i richiedenti asilo, può svolgere un compito importante nel contesto europeo – come già per la protezione delle vittime della tratta – aumentando l’attenzione e la disponibilità verso ogni forma di protezione internazionale, specialmente nei confronti dei richiedenti asilo. Purtroppo, invece, nel nostro Paese sono presenti poco più di 50.000 rifugiati e le domande di asilo sono passate dalle 30.000 del 2008 alle 17.000 del 2009, con un calo del 42%, il più alto in tutta Europa. Quali le cause di questa diminuzione? Secondo l’Acnur, l’agenzia Onu, sono stati i respingimenti a indebolire il diritto di protezione. «Tale pratica – si legge nel Rapporto – va a minare la fruibilità del diritto di asilo in Italia come si evince dal drastico calo delle domande d’asilo pervenute nel 2009». L’Acnur sottolinea, tra l’altro, che nell’Unione europea altri Paesi ospitano molti più rifugiati di noi, come Germania (600mila) e Regno Unito (300mila).
Diventa importante per l’Italia, centro del Mediterraneo, allargare ogni forma di protezione umanitaria che possa affrontare il dramma di milioni di persone e famiglie in movimento, perché costretti da situazioni drammatiche, evitando di affrontare queste situazioni o rifiutando l’incontro, respingendo le persone; o abbandonandole in situazioni di impossibilità di tutela della stessa vita oltre che dei diritti fondamentali (il caso dei rimpatri in Libia). Anche la Giornata mondiale del rifugiato ci ricorda che ogni forma di abbandono, di respingimento e di rifiuto non può che essere contestata culturalmente e politicamente. Bisogna, invece, alimentare l’idea di un’Europa sociale che allarghi le forme di protezione e accompagnamento, mettendo – come ha ricordato Benedetto XVI nel suo recente viaggio a Malta – la dignità della persona al centro nella costruzione del futuro.

da Avvenire di sabato 19 giugno 2010
LO SCANDALO DELLA PENA DI MORTE: DUE NUOVI CASI
MA È IL «NON UCCIDERE» CHE FONDA SOCIETÀ E LEGGI
GIUSEPPE ANZANI
Dicono gli storici che a inventare la ghigliottina fu un medico, e che lo fece per motivi umanitari.
La tecnologia progredita ha allestito la camera a gas e la sedia elettrica, niente sangue e testa nel cesto, si asfissia e si brucia. E per ultimo l’iniezione letale, vagamente immaginata come morte fuor di coscienza e fuor di dolore; e dunque più composta e discreta, si pensa, dello scalciare dell’impiccato appeso alla forca, o della scelta un po’ epica e rumorosa della fucilazione.
Ipocriti. Le graduatorie dello strazio fisico neppure convincono più, dopo le osservazioni e le rivelazioni sui percorsi delle varie agonie. Ipocriti, lo strazio psichico accomuna nella crudeltà le varianti patibolari. La crudeltà della pena di morte sta nella condanna d’un vivo a morire. È la capitale violenza dell’espulsione, dell’esclusione, del rinnegamento umano.
Preparato e consumato.
Ieri in una prigione dello Utah, un condannato è stato ucciso con quattro proiettili da caccia sparati al cuore. Non è il momento della vampata e dello scoppio del cuore che mi resta in mente, è il momento che lo precede, il tempo che ruota le sue lancette verso il gorgo che si avvicina. Mi viene in mente Dostoevskij, il pensiero torturante di un condannato in una fucilazione simulata («la repulsione di ciò che stava per giungere era tremenda, ma niente era più penoso dell’incessante pensiero: 'Poter non morire!'»). Mi viene in mente Camus, e lo straniero che attende e quasi spera attorno al suo patibolo le «grida di odio».
Avevamo così tanto confidato nella moratoria universale della pena di morte. I proclami e i propositi non sono serviti. Non hanno impedito neppure le vicende più assurde, come quella di David Powell, condannato a morte nel Texas con sentenza due volte annullata e due volte rifatta, e recluso nel braccio della morte per 32 anni, durante i quali è divenuto un detenuto modello, «un pilastro morale per gli altri detenuti in attesa della morte»; una vita ora uccisa, dopo l’ultimo pollice verso. Non dite 'giustiziato', non è giustizia questa, è tortura e follia.
Peggior sconforto ci prende leggendo che un sondaggio Gallup dello scorso anno dice che la maggioranza degli americani è ancora favorevole alla pena di morte. Non basta più dunque la riprovazione per questi casi scandalosi e indegni, occorre ora tenere accesa una riflessione più profonda e orientata, sull’uomo, sulla vita e sulla morte. Sulle ragioni ultime che connotano di ingiustizia la pena di morte.
La vita dell’uomo si svolge naturalmente nella dimensione del tempo, e va incontro inevitabilmente all’appuntamento con la morte; ma in ogni tempo e luogo della storia, per l’uomo la vita ha sempre segnato e segna un mistero, un contatto con l’oltre e col sacro, da cui la vita proviene e a cui la vita ritorna.
Per questo il comando 'non uccidere' è il fondamento della società umana e delle sue leggi; e il peccato di Caino insanguina non sola la terra, ma lacera il cielo. Ma ancora per questo la vendetta su Caino non appartiene alla terra, né il sangue si lava col sangue, o la morte con la morte, senza di nuovo violare i territori del sacro.

da Avvenire di domenica 20 giugno 2010
Il tema al centro della Settimana estiva della Cei
IL DIFFICILE “LAVORO” DI EDUCARE I FIGLI di Luciano Moia
La psicologa Paola Bassani: «Oggi, la relazione di coppia è senz’altro il luogo privilegiato di educazione all’amore». Ma servono genitori credibili

«Senza la famiglia fondata sul matrimonio la società non potrà avere futuro. Non solo la trasmissione della vita e l’educazione dei figli, ma anche l’assistenza agli anziani e ai disabili sarebbero impossibili senza l’apporto della famiglia. Ecco perché sostenere il futuro della famiglia vuol dire sostenere la sussistenza stessa della società». Così don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia ha concluso nei giorni scorsi la “Settimana estiva” organizzata in collaborazione con l’Ufficio per la problemi sociali e del lavoro e con il Forum delle associazioni familiari. In questa prospettiva occorre che ogni famiglia divenga più consapevole del suo essere soggetto sociale. Cioè, come ha spiegato monsignor Angelo Casile, direttore dell’Ufficio per problemi sociali e lavoro, sviluppi un’attenzione partecipe «alle diverse esigenze del bene comune: l’impegno per la pace, la custodia del creato, la cura verso le persone, la cooperazione internazionale, il bene dell’intera umanità, anche per le generazioni future.
Tali esigenze - ha aggiunto - ci spingono a un impegno quotidiano che, in senso evangelico, è «perderci» a favore dell’altro invece di sfruttarlo, è «servirlo» invece di «opprimerlo per il proprio tornaconto».
Voler bene. Volersi bene. Un miste­ro d’amore che si schiude agli oc­chi di ogni bambino nel primo ab­braccio della mamma, nello sguar­do che lo accoglie e lo riconosce “fi­glio”, una base sicura che poi cre­sce, si dilata, si arricchisce nelle “braccia” del padre protese al cielo. Il pianeta dell’a­more, l’educazione all’affettività, il lento percorso per passare dall’emotività del cuo­re all’equilibrio degli affetti sono stati al centro del primo laboratorio alla “Setti­mana estiva” Cei di Senigallia. Primo in ordine cronologico e per numero di par­tecipanti, ma anche per l’urgenza che oggi assume la questione affettività: un’urgenza che non si vuole trasformare in emergenza, ma in oc­casione di riflessione e crescita. Parlare di emergenza educativa vuol dire innanzi tutto fare chia­rezza in quell’arcipelago intricato delle relazioni interpersonali al­l’interno della famiglia. Nella con­sapevolezza che solo un nucleo familiare in cui le dinamiche al­l’interno della coppia e tra geni­tori e figli - al di là dei limiti ine­vitabili e delle difficoltà ordinarie - riescono a scorrere ed evolvere con un mi­nimo di fluidità, diventa davvero risorsa per il bene comune.
Per parlare di educazione all’affettività oc­corre partire dalla coppia, anzi dalla rela­zione. «Perché solo questa relazione, inte­sa come maschio-femmina, uomo-donna, marito-moglie, padre-madre – spiega la psi­cologa Paola Bassani, che ha guidato il laboratorio nel corso della “Settimana Cei” – è per me oggi luogo privilegiato di edu­cazione all’amore».
Quanto peso hanno le relazioni familia­ri nell’educazione all’amore?
Un peso fondamentale. Sino a qualche de­cennio fa infatti, le nuove generazioni co­struivano la loro esperienza affettiva in molteplici luoghi esperienziali di cui si con­dividevano i valori di fondo e un comune linguaggio simbolico, oggi la molteplicità esperienziale, valoriale e culturale, rischia di rendere la costruzione dell’identità fra­gile e precaria.
Oggi però anche i genitori mostrano tal­volta una sorta di analfabetismo emoti­vo­-relazionale di ritorno...
Infatti. Perché i figli desiderino e accettino di essere accompagnati, gli educatori, pa­dre e madre, devono essere innanzitutto credibili: i figli dovrebbero poter guarda­re alla coppia genitoriale con fiducia, co­me modello a cui tendere. Ma anche con rispetto, cioè a giusta distanza, come luo­go altro da loro.
Insomma una coppia autentica, non so­lo che si sforzi di essere tale...
Soprattutto non un “museo delle cere”, luogo del sorriso artificiale, di uno stare insieme forzato e mortifero, della menzo­gna relazionale, dell’anestesia emotiva a cui molte coppie si adattano nel nome di presunte esigenze educative, ma una rela­zione capace di integrare anche distanze e differenze - femminile e maschile - di at­traversare le fasi di crisi e di conflitto e quel­le di armonia, gioco, intesa, a prescindere dai figli.
Quanto è importante che i genitori sia­no disponibili ad accompagnare insie­me i figli?
È bene prestare particolare attenzione a questo aspetto, perché a volte si pensa sia “spontaneo”, implicito che i coniugi la pensino allo stesso modo: dedicare uno spazio al confronto su cosa significa per l’u­no e per l’altro, “accompagnare” i figli, nel rispetto dei diversi linguaggi maschile e femminile, può aprire a condivisioni inat­tese e non sempre di facile “gestione”, ma è fondamentale poter concordare almeno una linea comune.
In quali equivoci si può cadere?
Immersi, spesso inconsapevolmente, nel­la cultura narcisistica moderna, i genitori faticano più che mai a distinguere i propri bisogni e desideri da quelli del figlio, la­sciando spesso la dimensione edu­cativa in balia di voglie, mode o mo­delli dati per scontato, come se il “farsi compagno” significasse di­menticare la propria “adultità”.
C’è un rischio confusione insom­ma?
Sì, soprattutto per quanto riguarda l’educazione all’affettività e all’a­more. Nella convinzione che la so­cietà moderna, con i suoi mezzi cul­turali e tecnologici, abbia contribui­to a sdoganare tabù e ignoranze, che la “libertà” di cui i figli godono li ab­bia in qualche modo preparati all’affetti­vità, al mondo dell’amore automatica­mente, rischiano di trascurarne la centra­lità per il loro sviluppo equilibrato.
Perché tutti questi inciampi quando si parla di affettività?
A volte diventare genitori induce a di­menticare di essere ancora in evoluzione, in cambiamento, come se non si potesse o dovesse più crescere e cambiare, altre vol­te ci si adegua a seconda del momento. O­gni genitore profondamente interessato ad accompagnare i figli dovrebbe innanzitut­to essere consapevole del proprio mondo affettivo. Che vuol dire anche integrare la dimensione etico-valoriale e quella emo­tiva in modo sufficientemente equilibrato.
Partire dai propri valori di riferimento non potrebbe essere un buon criterio?
Sicurezze, valori e principi sono certamente indispensabili, possono però trasformarsi in leggi mortificanti se irrigidite in modelli educativi predefiniti e creare distanze cul­turali che impediscono e bloccano ogni possibile percorso insieme. Non sempre l’educatore è in grado di cogliere la profon­da distanza che attraversa oggi le genera­zioni, rimanendo ancorato alla propria esperienza personale.
Insomma, gesti e relazioni di verità, più che “belle parole”?
Sì, perché il legame, qualunque legame, appaia ai giovani più desiderabile di un i­dilliaco spazio per la conquista della pro­pria soddisfazione o di una inevitabile pri­gione, dobbiamo impegnarci a trasforma­re innanzitutto noi stessi e uscire dalla lo­gica che vede spesso chi educa cadere nel­la trappola di insegnare l’amore, senza es­sere capaci di “parlare l’amore”, di costruire cioè autentiche relazioni significative.


Cooperativa Sociale La Pieve di Ravenna
La Cooperativa sociale La Pieve attraverso attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate e servizi per persone disabili vuole rispondere a bisogni di inclusione sociale e al miglioramento della qualità della vita personale, sociale, professionale ed economica.


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PUNTI VENDITA AL PUBBLICO A RAVENNA

Sant’Antonio via Tomba 2x telefono 0544-453313
S.Michele via Faentina 263 telefono 0544-500689

La Cooperativa Sociale La Pieve è stata fondata nel 1984 ad Argenta (FE) grazie al sostegno del Parroco del luogo, con il nome di Cooperativa Solidarietà per assistenza agli anziani. Nel 1988, la Cooperativa cambia lo scopo sociale per dare una risposta al problema dell'occupazione lavorativa di persone disabili o in difficoltà.
La denominazione "La Pieve", viene dalla chiesetta di epoca romanica la Pieve di San Giorgio, situata tra le suggestive Valli di Campotto e di Vallesanta (Fe).
Nel 1989 il parroco di Argenta viene nominato direttore dell'Opera di S. Teresa del Bambino Gesù di Ravenna, Istituto che accoglie persone disabili e anziani. Questo ha permesso nel 1990, alla Cooperativa La Pieve di estendere il proprio servizio anche a Ravenna e di lavorare in stretta collaborazione con l'Opera di S. Teresa del Bambino Gesù che ha costruito su propri terreni i Centri residenziali, socio riabilitativi e occupazionali.
Nel 1991 nasce il primo Centro diurno a S. Antonio, per attività socio occupazionali in florovivaismo: seguono a breve S.Michele, l'Airone e il laboratorio di Legatoria artigianale. Attualmente i centri diurni sono 10. Nel 1993 nasce il primo Centro residenziale S. Michele al quale faranno seguito S. Emilia, S. Marco e nel 2002 S.Giuseppe.

venerdì 25 giugno 2010

IL VANGELO DI DOMENICA 27 GIUGNO 2010

Amare Gesù in nuda povertà
XIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C
Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l'ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?».
Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada».
E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi».
E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre».
Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va' e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Tre brevi dialoghi su come seguire Gesù. Il primo personaggio che entra in scena è un generoso e dice: Ti seguirò, dovunque tu vada! Gesù deve avere gioito per lo slancio, deve aver apprezzato l'entusiasmo giovane di quest'uomo. Eppure risponde: Pensaci. Neanche un nido, neanche una tana, solo strada, ancora strada. Non un posto dove posare il capo, se non in Dio, quotidianamente dipendente dal cielo. Così è Gesù: nudo amore che deve essere amato in nuda povertà. Eppure seguirlo è scoprire una ricchezza che mai avrei immaginato; è diventare ricchi, non di cose, di luoghi o nidi, ma di incontri, di opportunità, di luce. Gesù non ha una casa, ma ne trova cento sul suo cammino, colme di volti amici. Le parole di Gesù sono sempre, anche quelle dure, una risposta al nostro bisogno di felicità. Il secondo riceve un invito diretto: Seguimi! E questi risponde: sì. Solo permettimi di andare prima a seppellire mio padre. La richiesta più legittima che si possa pensare, dovere di figlio, compito di umanità. Gesù replica con parole tra le più dure del vangelo: Lascia che i morti seppelliscano i morti! Parole che dicono: è possibile essere dei morti dentro, vivere una vita spenta, una religiosità oscura, tenebrosa, intrisa di paure. Parole dure che sottintendono però: segui me, io ti darò il segreto della vita autentica! Il Vangelo è sempre un inno alla vita, scoperta di bellezza, incremento di umanità. Infine il terzo dialogo: Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che mi congedi da quelli di casa. Una richiesta delicata e naturale. È così duro il cammino senza amici e senza affetti! Tutto si gioca attorno a una parola-simbolo: «prima». La cosa da fare prima, indica la priorità del cuore, quello che sta in cima ai tuoi pensieri, il tuo Dio o il tuo idolo. La risposta di Gesù: Non voltarti indietro, non guardare a ciò che ti mancherà, ma a ciò che ti viene donato. Non guardare alle difficoltà, ma all'orizzonte che si apre. Non alla nostalgia, ma alla strada e ai grandi campi del mondo. La fede spalanca orizzonti più grandi. Chi si volta indietro non è adatto al Regno. Ma allora chi è adatto? Chi non si è mai voltato indietro? Non Pietro, non Giacomo e gli altri. Non ce l'hanno fatta i Dodici, come posso pensare di farcela io? Ma Gesù non cerca eroi incrollabili per il suo regno, ma uomini e donne autentici che sappiano sceglierlo ogni giorno di nuovo, che sappiano rispondere «sì», ogni volta, come Pietro, all'unica domanda: mi vuoi bene?
(1 Re 19,16.19-21; Salmo 15; Gàlati 5,1.13-18; Luca 9,51-62)

sabato 19 giugno 2010

PORTAPAROLA 19 GIUGNO 2010







da Avvenire di martedì 15 giugno 2010
Angelus di Benedetto XVI domenica 13 giugno 2010
«I PRETI, OPERAI DELLA CIVILTÀ DELL’AMORE»
Cari fratelli e sorelle!
Si è con­cluso nei giorni scorsi l’Anno Sacerdotale.
Qui a Roma ab­biamo vissuto giornate indimenti­cabili, con la pre­senza di oltre quindicimila sa­cerdoti di ogni parte del mondo. Perciò, oggi desidero rendere gra­zie a Dio per tut­ti i benefici che da questo Anno sono venuti alla Chiesa universale.
Nessuno potrà mai misurarli, ma certamente se ne vedono e ancor più se ne vedranno i frutti.
L’Anno Sacerdotale si è concluso nel­la solennità del Sacro Cuore di Ge­sù, che tradizionalmente è la «Gior­nata di santificazione sacerdotale»; questa volta lo è stata in modo del tutto speciale.
In effetti, cari amici, il sacerdote è un dono del Cuore di Cri­sto: un dono per la Chiesa e per il mondo. Dal Cuore del Figlio di Dio, traboccante di carità, scaturiscono tutti i beni della Chiesa, e in modo particolare trae origine la vocazione di quegli uomini che, conquistati dal Signore Gesù, lasciano tutto per de­dicarsi interamente al servizio del popolo cristiano, sull’esempio del Buon Pastore. Il sacerdote è pla­smato dalla stessa carità di Cristo, quell’amore che spinse lui a dare la vita per i suoi amici e anche a per­donare i suoi nemici.
Per questo i sa­cerdoti sono i primi operai della ci­viltà dell’amore. E qui penso a tante figure di preti, noti e meno noti, al­cuni elevati all’onore degli altari, al­tri il cui ricordo rimane indelebile nei fedeli, magari in una piccola co­munità parrocchiale. Come è acca­duto ad Ars, il villaggio della Francia dove svolse il suo ministero san Gio­vanni Maria Vianney. Non c’è bisogno di aggiungere parole a quanto è stato detto su di lui nei mesi scorsi. Ma la sua intercessione ci deve accom­pagnare ancora di più da ora in a­vanti. La sua pre­ghiera, il suo «Atto di amore» che tan­te volte abbiamo recitato durante l’Anno Sacerdotale, continui ad ali­mentare il nostro colloquio con Dio.
Un’altra figura vorrei ricordare: don Jerzy Popieluszko, sacerdote e mar­tire, che è stato proclamato beato proprio domenica scorsa, a Varsa­via. Ha esercitato il suo generoso e coraggioso ministero accanto a quanti si impegnavano per la libertà, per la difesa della vita e la sua dignità. Tale sua opera al servizio del bene e della verità era un segno di contrad­dizione per il regime che governava allora in Polonia. L’amore del Cuore di Cristo lo ha portato a dare la vita, e la sua testimonianza è stata seme di una nuova primavera nella Chie­sa e nella società. Se guardiamo alla storia, possiamo osservare quante pagine di autentico rinnovamento spirituale e sociale sono state scrit­te con l’apporto decisivo di sacerdoti cattolici, animati soltanto dalla pas­sione per il Vangelo e per l’uomo, per la sua vera libertà, religiosa e civile. Quante iniziative di promozione u­mana integrale sono partite dall’in­tuizione di un cuore sacerdotale!
Cari fratelli e sorelle, affidiamo al Cuore Immacolato di Maria, di cui ieri abbiamo celebrato la memoria li­turgica, tutti i sacerdoti del mondo, perché, con la forza del Vangelo, con­tinuino a costruire in ogni luogo la ci­viltà dell’amore.


da Avvenire di martedì 15 giugno 2010
ABBIAMO MAI PROVATO A «DISTURBARE» IL SIGNORE?
La testimonianza di un prete presente in Piazza san Pietro durante la Veglia con il Santo Padre giovedì 10 giugno
don Nicolò Anselmi don.nico@liebro.it
Ho avuto il dono di poter partecipare alle giornate conclusive dell’Anno Sa­cerdotale indetto in occasione del 150° anniversario della morte del santo Curato d’Ars; la veglia di pre­ghiera di giovedì sera e la Conce­lebrazione eucaristica di venerdì 11 sono stati due momenti indimen­ticabili. Durante la veglia ho sen­tito in modo quasi palpabile la pre­senza di Dio. Il Papa si è rivolto alle migliaia di sacerdoti presenti con una grande carica di affetto e di paternità; mi sono sentito consolato e amato; molti preti erano giovani. Il Santo Padre ha parlato con il cuore; in mano teneva un plico di fogli scrit­ti ma non li ha mai consultati. Pen­so che ogni prete presente abbia ri­cevuto, dalle parole del Papa, una piccola luce sul proprio ministero; per quanto mi riguarda so, dalla mia esperienza e dall’esperienza di tanti confratelli, che la pastorale giovanile richiede tempo; spesso i preti giovani hanno molti incari­chi, sono stanchi e stressati. Il Pa­pa ha ricordato che ai preti non è chiesto di fare tutto, è chiesto di seguire il Signore, di vivere con fe­de, colmi di gioia, di essere capaci di parlare di Gesù e con Gesù.
Il Santo Padre ci ha detto che per conoscere Gesù è necessario pre­gare, dedicare tempo ed energia al­lo «stare con il Signore», ad ascol­tare la sua voce e a «disturbarlo» con le nostre preghiere. Benedetto XVI è stato straordinariamente profondo e semplice. Ha parlato di comunità cristiane, di parroc­chie come di veri luoghi di fede, dove si respira il Vangelo e l’amo­re, dove i giovani possono cresce­re, ascoltare la voce di Gesù e sco­prire la vocazione. A un certo punto il Papa, rivol­gendosi ai 15.000 preti e citando san Carlo Borromeo, ha parlato della necessità di riposare, di pren­dersi cura della propria anima; a queste parole è esploso un ap­plauso. In piazza San Pietro, gio­vedì sera si respirava l’amore di Dio; a un certo punto l’amore si è reso presente perché abbiamo vis­suto un momento di Adorazione eucaristica. Ho sfruttato l’occasio­ne per pregare per don Mimmo, il sacerdote con cui collaboro, che e­ra in Terra Santa con un gruppo di giovani, per i miei compagni di se­minario, la mia famiglia, le perso­ne a me care, per il mondo.
I canti e le preghiere hanno fatto da cornice ad un silenzio profon­do. Gli occhi e il cuore delle 20.000 persone presenti sembravano es­sere rivolti completamente verso Gesù; dal cielo blu si udiva solo il gracchiare di un gabbiano che vol­teggiava, portato dal vento: mi è sembrata per un attimo la colom­ba dello Spirito Santo che com­piaciuto guardava dall’alto la sua Chiesa:preti, vescovi, laici, uomi­ni e donne, bambini, ragazzi, gio­vani e adulti, suore e consacrati; u­na famiglia la cui vita è attraversa­ta da gioie e da sofferenze ma che è sempre bella, adorante e stretta intorno al suo Signore. I due in­contri con il Papa e i confratelli mi hanno rigenerato.

da Avvenire di martedì 15 giugno 2010
LE ESEQUIE DI MONSIGNOR PADOVESE
IL CHICCO DI GRANO E LE PIETRE DEL VANGELO
FRANCESCO OGNIBENE
Nella nitidezza tagliente del Vangelo, è una condizione assoluta di efficacia: se il chicco di grano non muore» «rimane solo», il frutto lo dà «se invece muore». È così in natura, l’evidenza nota a tutti che occorre un sacrificio perché ci sia pane.Un linguaggio aspro, a sentirlo echeggiare com’è accaduto ieri ieri sotto le volte del Duomo di Milano davanti al feretro di monsignor Luigi Padovese, il vescovo dell’Anatolia brutalmente ucciso in circostanze non ancora chiarite.
Al cardinale Tettamanzi, amico di Padovese e pastore della Chiesa ambrosiana di cui il vescovo cappuccino era figlio, l’immagine evangelica è sembrata la misura esatta di una morte tragica e impensabile, destinata – nelle parole della sua bella omelia – a dare speranza e non a negarla.
È la logica del chicco di grano, paradossale ma necessaria, a documentare che occorre spingere lo sguardo oltre il dolore per un sacrificio che appare insensato, fine a se stesso. Come si possa entrare in questo orizzonte interamente cristiano l’hanno afferrato le migliaia di milanesi che ieri hanno stipato la cattedrale – un lunedì mattina, nella metropoli febbrile –, insieme a decine di loro parroci, come spinti dall’intuizione che in quel rito non solo avrebbero reso omaggio a un pastore pronto a dare la vita per il suo popolo ma gli sarebbe divenuto evidente un segreto della loro stessa fede. Una meditazione sulla chiamata cristiana e le sue esigenze, racchiusa nel seme che dà vita ad altri semplicemente perché è pronto a lasciare sé stesso nella terra e generare così una realtà tutta nuova.
La dedizione al Vangelo – quella del missionario come del cristiano qualsiasi – è tutta segnata dalla prontezza a farsi chicco pieno di vita, minuscolo ma decisivo: nessun’ansia di crociata (com’è pure capitato di leggere nei giorni scorsi), niente caricature remissive di una fede invece sempre e ovunque esigente, a Milano e in Turchia. La serietà della vocazione cristiana sta tutta nelle parole che Tettamanzi a un certo punto ha scandito, a pochi metri dalle spoglie di un vescovo ucciso per motivi oscuri: «Vogliamo accogliere e affrontare – ha detto, facendosi carico delle lacrime e degli impegni di tutti – la sfida di essere sempre più coscienti della nostra identità cristiana e di saper offrire, senza alcuna paura, sempre e dappertutto, la testimonianza di una vita autenticamente evangelica: amando Cristo e ogni uomo 'sino alla fine'».
Finché ci saranno in giro per le nostre città e per il mondo cristiani capaci di questa mite fermezza, di questa fibra umile e tenace, la speranza può ancora essere l’esito inaudito persino di un sacrificio efferato, che non domanda vendetta, o rivincita, ma verità e coerenza. Da Iskenderun – a due passi da Tarso – è risuonata sotto le volte del duomo milanese la voce di una chiamata che riguarda tutti, resa una volta ancora credibile e vera dal sangue, com’è sempre stato nel diario di famiglia della Chiesa.
Ecco perché – sono ancora parole del cardinale Tettamanzi – occorre sentirsi legati alla Chiesa di Turchia e di tutto il Medio Oriente, la Chiesa delle origini e delle radici, oggi «in modo ancora più profondo e particolare». La testimonianza coraggiosa e lieta di un drappello di cristiani che dall’Anatolia a Gerusalemme presidia le pietre della memoria cristiana, e che sembra doverci ricordare quei Dodici della prima ora, parla in realtà a ciascuno di noi, cristiani cresciuti sulle loro spalle, pronti a lesinare su quasi ogni capitolo della fede sino a inciampare su un chicco di grano che, morendo, proprio non ci dà tregua.
Monsignor Padovese aveva messo in conto di poter essere chiamato a dare la vita: ma non è forse vero che questo vale per ogni battezzato, nei modi in cui oggi il relativismo ci tende i suoi suadenti tranelli? Il frutto verrà, questo è certo: ma solo se quel seme, preparato per schiudersi, troverà terreno fertile nel nostro vivere.

da Avvenire di venerdì 18 giugno 2010
IL CRISTIANESIMO E LA «TRIBOLAZIONE NEL MONDO» CONTRO LA TENTAZIONE DI CEDERE AL PESSIMISMO
CARLO CARDIA
A volte, nei momenti difficili della storia del cristianesimo c’è la tentazione di cedere al pessimismo. Di recente la tentazione si è avvertita più forte in interventi che sottolineano il rischio di un declino del cristianesimo, con argomenti un po’ confusi e affastellati. Secondo una certa lettura, la secolarizzazione1 falcidia il cattolicesimo occidentale, e il cristianesimo rischia di scomparire nel Medio Oriente per la morsa del fondamentalismo islamico, che anche in Africa sta contendendo ai cristiani ogni possibile spazio. Le Chiese hanno poi le loro colpe, i protestanti degli Stati Uniti sono spesso ripiegati in una visione negativa e a-storica della realtà, la Chiesa cattolica ha constatato l’infedeltà di alcuni suoi membri; ancora, il cristianesimo è sulla difensiva in Oriente per l’ostilità di estremisti indù, per l’aggressività di settori islamici e perduranti avversioni ideologiche.
Infine, secondo una riflessione condotta sul filo del paradosso da Ida Magli nei giorni scorsi, i cristiani non rendono testimonianza a Gesù, quasi lo dimenticano, riducono la fede al compimento di opere buone ma prive dell’afflato spirituale che è l’essenza del cristianesimo.
In questo modo pezzi di verità si alternano a singolari silenzi, le glorie dei cristiani come il martirio e le persecuzioni sono considerate passività, e filtra quasi un rimpianto per quella Chiesa trionfante (Ecclesia triumphans ) che ci è stata consegnata dall’iconografia del passato. Si perde di vista, però, la novità epocale in cui siamo immersi, per la quale la storia umana è divenuta planetaria e universale, e il cristianesimo ne patisce i limiti e le sofferenze ma ne vive anche le gioie e i traguardi.
Occorre vedere le cose un po’ da lontano per una giusta prospettiva di valutazione.
Da poco tempo è scomparso il comunismo 'realizzato' che ha dominato per decenni parti importanti d’Occidente, e le Chiese cristiane (cattolica, ortodossa, protestanti) sono rifiorite nel cuore di popolazioni quasi cancellate dalla mappa delle religioni.
Cattolici e ortodossi hanno fatto grandi passi in avanti per superare una storia secolare di divisioni e di conflitti, e rinsaldare un legame forte che dia speranza ai cristiani di tutto il mondo.
In Africa la religione cristiana, pur con diverse denominazioni, si è diffusa come mai era accaduto, e vive la concorrenza con l’islam, in alcuni casi drammatica, in altri con forme accettabili di convivenza. Il martirio e le persecuzioni rattristano e spingono ad agire perché non si ripetano, ma sono anche il segno più grande di un cristianesimo vivo, forte e radicato nella fede, come tante volte in passato. Anche la secolarizzazione europea e un certo pessimismo del protestantesimo americano sono il frutto di situazioni storiche nuove, che non sono chiuse e cristallizzate nel tempo. Insomma, al quadro tutto opaco cui si tende a indulgere può sostituirsi un caleidoscopio più complesso, per certi aspetti ricco di speranze.
Dove, invece, non si può cedere al pessimismo è quando si parla del declino della figura, e della parola di Gesù. Se così fosse, per chi crede veramente, secondo il monito di Paolo, tutto sarebbe già perso. Ma non è così, né agli occhi della ragione né a quelli della fede. I cristiani possono sbagliare, le Chiese hanno commesso errori nella storia, e la storia stessa condiziona le Chiese. Ma senza la presenza di Gesù di Nazaret, e la fede totale in lui di milioni e miliardi di uomini nel corso dei tempi, il mondo come è oggi non esisterebbe, non avremmo avuto quel cammino tumultuoso e splendido che l’umanità ha fatto in duemila anni, che sono come «un soffio agli occhi di Dio» e di fronte alla storia. Alcune visioni apocalittiche dei primi tempi del cristianesimo hanno preannunciato i guasti che si determinano quando ci si allontana dalla parola di Dio, e gli uomini spesso li verificano direttamente. Però, secondo la sua parola, Gesù sarà con noi sino alla fine dei secoli; egli ha parlato delle «tribolazione nel mondo» ma ha chiesto fede perché «io ho vinto il mondo» (Gv, 16, 33) e perché io sarò «con voi tutti i giorni», fino alla fine dei secoli ( Mt, 28, 20).
Forse il più grave peso che oggi portano i fedeli in Gesù Cristo è la loro divisione e una rinnovata unità cambierebbe ancora la storia dell’umanità. Le difficoltà del tempo presente, però, non devono attenuare la fiducia, in certa misura devono accrescerla perché Gesù non è venuto per conservare l’esistente, ma aiutare l’uomo a crescere in fede e conoscenza e fare dell’umanità una famiglia unita nel rispetto della legge di Dio, nell’amore per il prossimo e la vita in ogni sua manifestazione. Il traguardo è lungi dall’essere raggiunto, ma il cristiano deve respingere il pessimismo, convinto che non trionferà il male.

1 Definizione di secolarizzazione
Con “secolarizzazione” si intende un processo che ha caratterizzato soprattutto i paesi occidentali in età contemporanea e ha portato al progressivo abbandono degli schemi religiosi e di un comportamento di tipo sacrale. Secondo le teorie della secolarizzazione, la modernità si accompagnerebbe inseorabilmente al declino del sacro, il quale sarebbe inversamente proporzionale all’aumento del progresso, alla diffusione dell’istruzione, ai processi di urbanizzazione e industrializzazione.
Tratta da: Jurgen Habermas - Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), Ragione e fede in dialogo, a cura di G. Bosetti, Marsilio, 2005

da Avvenire di venerdì 18 giugno 2010
BADANTI, SERBATOIO DI LAVORO NERO
È un lavoro a tutti gli effetti ma, troppo spesso, non è considerato tale. E a farne le spese sono immigrate con stipendi bassissimi

DA ROMA LUCA LIVERANI
Attenzione: il settore dell’as­sistenza domestica rischia di essere «il ventre molle dell’immigrazione». Se non viene regolamentato, avverte il sociologo Maurizio Ambrosini, resta un ser­batoio di irregolarità. Perché con­viene - almeno all’inizio - alle lavo­ratrici che col salario spesso otten­gono anche un alloggio ed evitano controlli. E ai datori di lavoro che ri­sparmiano.
Il professor Ambrosini segnala la falla nel sistema al semi­nario Acli sul progetto del Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati: per gli italiani una campagna per ricordare che è un lavoro vero che merita considerazione ed esige di­ritti, per le immigrate percorso di formazione a Udine, Roma e Napo­li con corsi di italiano, informatica, parainfermieristica, autoimprenditorialità.Per il sociologo dunque «è un mer­cato del lavoro ampiamente irrego­lare, sia contrattualmente che per gli ingressi, visto che pochi assu­mono un lavoratore all’estero sen­za conoscerlo», come vorrebbe la legge. «Entrano regolarmente con un permesso turistico temporaneo e trovano un impiego che garantisce spesso anche l’alloggio», al riparo «dai controlli delle autorità».
Vantaggi che li spingono ad accettare stipendi bassissimi e in nero. «Se non cambia il sistema – dice il so­ciologo – la sacca dell’irregolarità continuerà a riprodursi e le sanato­rie, magari travestite da flussi, si ri­peteranno ». Loro, colf e assistenti, riescono a mandare a casa «tra il 50 e il 90% del­la paga», dice Cristina Mazzacurati, ricercatrice all’Orientale di Napoli.
«E il pil della Moldavia – rivela – per il 97% è costituito dalle rimesse de­gli immigrati». Il rapporto con la fa­miglia spesso è ambiguo: «Accolta spesso come un membro, ma non di rado sfruttata, l’assistente si li­cenzia perché trova di meglio, s’è regolarizzata, o ricongiunta con la sua vera famiglia.
E viene considerata una traditrice. Più che la fine di un rapporto di lavoro, è vissuta come un divorzio». Quello delle assisten­ti, dice il presidente delle Acli An­drea Olivero, «è un vero lavoro, svol­to da donne che hanno lasciato la fa­miglia per assisterne un’altra, spes­so non riconosciuto come tale».

da Avvenire di venerdì 18 giugno 2010
Il cardinale vicario Vallini al Convegno diocesano: segnali di divaricazione tra fede dichiarata e vissuta
SALVARE LA DOMENICA «GIORNO DELLA FAMIGLIA»
«È necessaria un’inversione di tendenza, che incoraggi stili di vita alternativi, educando a una maggior sobrietà nei consumi»
DA ROMA ANGELO ZEMA
«La pratica dell’aborto, gli abusi sessuali e le violenze morali, l’uso e lo spaccio delle droghe, i fallimenti matrimoniali, il tasso di litigiosità e di intolleranza, invidie e gelosie, il disimpegno nei doveri, l’idolatria del denaro e del potere, lo sfruttamento dei prestatori d’opera, il disinteresse verso poveri, immigrati, anziani, la speculazione negli affitti, l’evasione fiscale»: un triste elenco di «evidenti e gravi controtestimonianze» nella capitale.
Le definisce così il cardinale Agostino Vallini, vicario di Roma, nella relazione al Convegno diocesano che ha seguito l’intervento del Papa (pubblicato ieri integralmente da Avvenire) e prepara il terreno alle assemblee parrocchiali, tappa conclusiva della tre giorni. Gli oltre duemila presenti nella Basilica di San Giovanni in Laterano, mercoledì sera, lo applaudono.
Concordi nell’analisi del «contesto culturale divenuto non solo largamente indifferente ma nel quale cresce un atteggiamento e forse uno spirito di distanza, di allontanamento, che talvolta diventa sprezzante, quando non apertamente ostile alla Chiesa».
E consapevoli che, di fronte ai «segnali forti di marcata divaricazione tra la fede dichiarata, anche da parte di chi partecipa all’Eucaristia domenicale, e la vita concreta», la «vera forza è quella della testimonianza».
Con un’attenzione, un’accoglienza dell’altro che partano dal culmine della vita cristiana, una Eucaristia vissuta.
E proprio su questo rapporto tra l’Eucaristia, specialmente quella domenicale, e la testimonianza della carità si è articolata la riflessione di oltre 300 parrocchie romane in quest’anno pastorale, analizzata poi nella relazione del cardinale vicario Vallini con alcune proposte concrete da discutere nelle assemblee. Al centro, il rilancio della formazione, una «sfida da affrontare» per una catechesi eucaristica sistematica e per un’adeguata animazione della carità.
Raccogliendo le indicazioni fornite da Benedetto XVI, Vallini sottolinea che «la questione pastorale di fondo resta l’incontro con Cristo e dunque la riscoperta della fede».
Ed esorta a «salvare» la domenica come «il giorno della famiglia» in cui «curare le relazioni interpersonali», di fronte alle difficoltà provocate da «stili di vita indotti soprattutto dal consumismo» e da un sentire collettivo per cui «la domenica è percepita da molti come l’ultimo giorno del week-end e per altri, al contrario, è un giorno soggetto alla dura servitù del lavoro».
Come salvarla?
Con un’«inversione di tendenza» che incoraggi «stili di vita alternativi, educando ad una maggiore sobrietà nei consumi» e promuovendo «giornate comunitarie».
Per una formazione alla testimonianza della carità, afferma Vallini, «la prima azione pedagogica è la celebrazione eucaristica».
Da curare con attenzione in tutti i suoi aspetti, per esempio attraverso un gruppo liturgico. Dando vita ad una «catechesi programmata e ben preparata» che offra le verità essenziali del mistero eucaristico, sia attraverso gli itinerari di formazione ordinari sia con altri momenti (esercizi spirituali, adorazione eucaristica, settimane eucaristiche).
A questo impegno va affiancata la cura per lo «sviluppo umano e spirituale dei cristiani» verso uno stile di vita improntato alla «ospitalità del cuore». Così da far crescere il tanto bene già presente. Infatti, conclude Vallini, «non mancano cristiani il cui vissuto nascosto irradia vera carità nei rapporti personali, nelle famiglie, nei luoghi di dolore, negli ambienti educativi, di formazione culturale e di lavoro e in mille altre situazioni di vita».

da Avvenire di giovedì 17 giugno 2010
IL GRANDE NULLA IN QUEL RONZIO CONFORMISTA
Macché «vuvuzelas» Ridateci la tromba del Filadelfia
UMBERTO FOLENA
Ronzano. Come uno sciame di vespe in perenne eccitazione sopra una torta di mirtilli.
Ricordano gli angosciosi muggiti delle macchine distruttrici degli invasori marziani della 'Guerra dei mondi'. Un cupo suono insistente, pieno, pienissimo, assordante; eppure vuoto.
Le vuvuzelas non sono semplici trombette con le quali alcune migliaia di sciagurati pensano di allietare le partite del Mondiale sudafricano. Sono la colonna sonora della consumerist society, la società di consumatori dove tutti dobbiamo essere diversi, in competizione, ma tutti finiamo per diventare uguali, irregimentati.
Narrano le antiche cronache pedatorie che al Filadelfia il Toro corricchiava, annoiato, quasi scherzando con i malcapitati avversari. Ad un certo punto un mitico trombettiere intonava una carica che tra gli spalti doveva spiccare formidabile e tremenda, come una sorta di sentenza. E lo era. A quel punto Valentino Mazzola si rimboccava ­letteralmente - le maniche della casacca granata, cambiava ritmo, chiamava i compagni alla pugna e i palloni grandinavano in area.
Realtà o leggenda, le vuvuzelas sono l’esatto contrario. Stanno alla tromba del Filadelfia come uno scipito junk-food sta alle prelibatezze dello chef.
Intanto è un suono indifferente. C’è sempre. Che la partita entusiasmi o languisca, che provochi emozioni o sbadigli, le vuvuzelas procedono come zombi senz’anima né spirito critico con il loro ronzio ossessivo. Le vuvuzelas sono indifferenti alla partita, che è come se non ci fosse.
Sono un rumore di fondo, analogo al tumb-tumb da discoteca fracassona. Sono un inno al conformismo più bieco. Infine, peggio ancora, emettono una nota sola, sempre la stessa, ossessiva: sono la rappresentazione sonora del pensiero unico, o meglio del pensiero piatto, o se preferite del non­pensiero, ossia dell’esatto contrario del pensiero: dell’azione pura e semplice priva di scopo. Perché suono? Che domanda, suono perché suono.
Le vuvuzelas segnano la grande contraddizione della consumerist society. Gli spettatori - li vediamo bene - fanno di tutto per distinguersi: si pitturano il viso, indossano casacche personalizzate, s’infilano parrucche improbabili. A ben vedere sono davvero tutti gli uni diversi dagli altri.
Ma immersi nella brodaglia ronzante delle vuvuzelas, scompaiono, sommersi dal Grande Nulla del ronzio.
Le vuvuzelas sono un blob sonoro che tutto ingurgita.
A questo punto vien da domandarsi: ma allora perché la gente ci soffia dentro fino allo sfinimento? Semplice: per esserci.
L’importante è non è suonare qualcosa, ma far rumore tutti insieme, partecipare al rito collettivo ed 'esserci'. E poter dire un giorno: io c’ero, dentro quel ronzio c’ero anch’io, esattamente come c’ero dentro tutti gli sciami della consumerist society: la coda in autostrada per le vacanze, la folla all’ipermercato il giorno delle offerte, eccetera.
La vuvuzela - chiedendo scusa al maestro Claude Lévy-Strauss - è un oggetto totemico che segna indelebilmente i Mondiali in quanto sudafricani.
Il resto è dettaglio. Le vuvuzelas rompono le scatole? Non ne possiamo più?
Provocano emicranie e irritazione?
Dettagli. E pensieri pericolosi di chi non apprezza la grande marmellata della consumerist society. Se non ti vuvuzelli rimani libero, ma passi anche per un pericoloso anticonformista di cui diffidare. E chi ti credi di essere, per pretendere di pensare e parlare in un mondo di uomini-trombetta?

da E’ Vita supplemento di Avvenire di giovedì 17 giugno 2010
TEENAGER & SESSO SICURO, FISSAZIONE ANCHE IN VACANZA
A volte ritornano.
Puntuale come la fine delle scuole e la pagella, ecco la nuova campagna per il sesso sicuro in vacanza firmata della Sigo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia.
Lanciata con le fanfare ieri in una libreria romana, con tanto di patrocinio del Dipartimento della Gioventù, la nuova campagna, che ha l’obiettivo dichiarato di ridurre i picchi estivi di gravidanze indesiderate tra i giovanissimi, è un sapiente mix di lusinghe (test e giochi interattivi sul Web), volantinaggio (distribuzione di depliant in dieci città per un’intera settimana, a cavallo di Ferragosto), prodotti editoriali (l’edizione 2010 di «Travelsex», la guida al sesso sicuro edita da Giunti) e di demagogia spicciola.
Un esempio per tutti si ricava leggendo lo scoppiettante comunicato diffuso alla stampa: «I ragazzi potranno giocare e conquistarsi il Passaporto dell’amore sicuro, uno strumento che certifica le loro competenze sulla sessualità». Un altro esempio: nel sito si può effettuare un test, la cui quarta domanda è all’incirca: «Stai preparando lo zainetto per le vacanze: porta con te quattro di questi otto oggetti», tra i quali spiccano i preservativi. Se per caso chi risponde 'dimentica' l’oggetto in questione, apriti cielo: «Attenzione – avvisa il sito –. Hai scordato qualcosa che potrebbe costare molto caro. Provvedi subiti e ricordati di usarlo sempre».
Insomma, a parte ogni altra considerazione, la campagna per il sesso sicuro si trasforma in un gigantesco spot a condom e pillole, che di certo non spiacerà alle industrie produttrici...
«La mia valutazione? Negativa», esclama Michele Barbato, fondatore a Milano del Camen (Centro (A.Ma) ambrosiano per i metodi naturali) e presidente dell’Istituto europeo di educazione familiare, un network di 40 associazioni dal Portogallo alla Russia. «Di fatto è una campagna che si ammanta di scientificità ma che sostanzialmente è marketing farmaceutico». Piuttosto pesante, come valutazione. «Be’, mi piacerebbe sapere chi finanzia tutto questo, non vorrei scoprire che dietro ci sono case farmaceutiche», continua sospettoso Barbato.
Ma perché i dubbi sulla scientificità della campagna? «Perché ormai è provato che laddove si fa solo informazione al sesso sicuro senza educazione alla sessualità, si ottiene esattamente il risultato opposto a quello desiderato.
È stato dimostrato che nelle scuole americane in cui si svolgevano programmi di sola informazione, a contenuto tecnico, le gravidanze tra le ragazze erano più alte rispetto alle scuole in cui i corsi non si erano tenuti». Non solo: secondo Barbato, è come se la Sigo volesse sostituirsi ad altre agenzie educative, come la scuola e le famiglie. «Ma una società scientifica che si voglia porre come soggetto educante dovrebbe riflettere sul fatto che i ragazzi hanno bisogno sì di informazione, ma soprattutto di educazione».
Quando Barbato e gli altri operatori del Camen vanno nelle scuole di Milano e provincia a parlare con gli studenti («istituti pubblici», specifica) intercettano il loro «bisogno enorme di capire ciò che la natura suscita dentro di loro».
E la supposta ignoranza dei ragazzi, punto forte su cui fanno leva le campagne della Sigo? «È vero che hanno le idee confuse – conferma Barbato –. Alle medie capisco che le domande dei ragazzi sono dettate da letture pornografiche e film per adulti. Alle superiori ci sono già le esperienze. Ma i ragazzi hanno bisogno sì di chiarezza, ma insieme di essere aiutati a vivere in serenità la sessualità dentro un progetto educativo. Se i genitori non collaborano a questo progetto, ci deve essere la scuola, gli insegnanti. L’educazione alla sessualità deve essere trasversale, coinvolgere tutte le discipline. Quando parlo di educazione, intendo il riconoscere all’altro un valore invalicabile.
Ecco, se gli adulti parlano ai giovani solo di preservativi e pillole, mi chiedo, dov’è l’altra persona?». Già, dov’è?

da Avvenire di mercoledì 16 giugno 2010
PARROCCHIA, «CASA COMUNE» DI CHI VA A CATECHISMO
La pedagogista Moscato: diamo ai bambini comunità concrete di riferimento alternative alla realtà virtuale da BOLOGNA Stefano Andrini
«Ogni bambino che accede al catechismo in parrocchia dovrebbe percepire di avere incontrato lì una nuova 'casa comune', una comunità concreta di appartenenza possibile, di adulti e di giovani e di adole­scenti. Oggi a una parrocchia urbana può essere chiesta di fatto la stessa vocazione missionaria di uno sperduto avamposto nel deserto. E paradossalmente l’educazione diventa il primo oggetto di missione». Lo ha affermato Maria Teresa Moscato, do­cente di pedagogia all’Università di Bolo­gna, nella sua relazione al convegno na­zionale degli uffici catechistici diocesani.
Nel suo intervento la Moscato ha tratteg­giato gli elementi dell’emergenza educati­va. Tra questi la diffusione delle realtà vir­tuali. «Oggi può accadere che sia l’orizzon­te mediatico a conferire significato alle re­lazioni familiari: anche la scuola quindi e gli ambiti ecclesiali, vengono ridefiniti da fiction accattivanti, in cui preti, suore, o professoresse di italiano, operano soprat­tutto da investigatori – e con incredibile successo». Secondo la docente la crescen­te tendenza a instaurare relazioni via in­ternet, in chat in cui è possibile nasconde­re la propria reale identità fa pensare ad u­na sorta di mutazione antropologica. «La virtualità spalanca mondi lontani e scaval­ca, almeno apparentemente, ogni difficoltà d’ordine materiale che si dovrebbe affron­tare nel quotidiano.
Questi elementi ci pon­gono di fronte a generazioni infantili che hanno stili cognitivi e dinamismi emozio­nali apparentemente diversi da quelli del­le generazioni precedenti». Ma soprattut­to sembrano mancare (o tardare a svilup­parsi) alcune strutture dell’apparato del­­l’Io, essenziali per la socialità matura, ma costitutive anche della religiosità.
In questo quadro, che cosa può significare il rinnovamento dell’iniziazione cristiana? «Insisto – ha concluso la pedagogista – sul­la forza educativa del testimone adulto: è sempre un 'volto umano' che media il Vol­to divino nella sua persona, ed è anche il suggeritore, l’orientatore della 'direzione dello sguardo'.
Nella nota figura dantesca del sorriso di Beatrice e dell’ascesa di Dan­te al Paradiso, guardando negli occhi di lei quel sole verso cui egli non può rivolgere di­rettamente lo sguardo – metafora teologi­ca e pedagogica – si evidenzia come il pro­blema non sia che cosa dice l’adulto, ma piuttosto, e soprattutto, dove guarda».

sabato 12 giugno 2010

PORTA PAROLA 12 giugno 2010




Da Avvenire di venerdì 11 giugno 2010
IL PALLONE, UN PAESE, IL CONTINENTE NERO
QUESTO MONDIALE DA GUARDARE UN MONDO DA CAPIRE
ALBERTO CAPROTTI
Un Mondiale di calcio. In Africa. Il circo dello sport­business più ricco del mondo paracadutato in una delle terre più derelitte del pianeta. Sembrava follia, ora è realtà. Quando oggi pomeriggio a Johan­nesburg verrà fischiato il calcio d’avvio di Sudafrica-Messico, un Paese e un continente intero si rende­ranno conto che non sono chiamati a vincere una Coppa che sanno benissimo di non poter vincere, ma di giocare per un trofeo più importante. Quello del­l’orgoglio, della credibilità di fronte al mondo, e del­la speranza. Termini che questa volta almeno, con­tengono più senso che retorica.
Dopo il primo presidente americano, ecco anche il primo mondiale “nero”: e la portata storica non è troppo distante. Inutile però scomodare concetti troppo lontani per essere veri: una pallone non sconfigge il razzismo, l’Aids, la miseria e la delin­quenza. Non lo ha mai fatto, né si illude di poterlo fare. Ma spesso porta messaggi positivi, belle sto­rie, umanità diversa. Per tutto il resto il pallone dei grandi dovrà solo im­parare. Specie nella terra di un uomo che, comunque vada a finire in campo, del Mondiale è il protagoni­sta assoluto. Nelson Mandela lo ha già vinto senza giocarlo: non serviranno nemmeno quei pochi mi­nuti di presenza fisica promessi oggi in tribuna per decretare che il gol più grande è il suo.
L’eterno “Madiba”, che ha anche trascorsi calcistici come dirigente di una squadra nella colonia penale di Robben Island, dove ha trascorso 27 stagioni del­la propria vita combattendo il pressing sporco del­l’apartheid, a 92 anni vede coronarsi un altro sogno.
In quel carcere, lui e i suoi seguaci usarono il pallo­ne come strumento di resistenza passiva: il calcio di­venne l’emblema della passione dei neri da con­trapporre al più nobile rugby, appannaggio e diver­timento solo dei bianchi. Per questo non è esagera­to dire che il Sudafrica com’è oggi non esisterebbe senza il calcio. E ora il Mondiale sulla terra sudafri­cana, ricca e stracciata, sanguinante e profonda, di­venta l’ideale, incredibile proseguimento di quelle partite polverose nell’ora d’aria.
Qualsiasi chiave di lettura di Sudafrica 2010 che pre­scinda dal significato dirompente di una Coppa che sbarca in Africa con il suo corredo di speranze, sto­rie, personaggi e colori, corre il rischio di risultare fal­sata. Il calcio resta un enorme collettore di valori, e soprattutto è un vero linguaggio universale: da oggi per un mese intero si guarderà al Continente Nero, e non per carestie o guerre, che pure non evaporano, ma per vedere che può esistere altro, anche in situa­zioni improbabili e violente. In questi casi si dice che il grande evento migliora la qualità della vita di tutto un popolo. Perché porta ric­chezza, infrastrutture, investimenti. A conti fatti spes­so il bilancio finale non è così idilliaco. Ma se a un suc­cesso organizzativo del Sudafrica, francamente dif­ficile da ottenere, si aggiungesse quello tecnico, il messaggio sarebbe perfetto e compiuto: la prima vol­ta dell’Africa in tutti i sensi. Sono sei le squadre pre­senti (Sudafrica, Ghana, Costa D’Avorio, Algeria, Ca­merun e Nigeria) tra le 32 finaliste, un record. Asso­lutamente improbabile che ce la facciano i “Bafana Bafana” di casa. Contro l’Italia campione del mondo che prova senza apparenti grandi possibilità a difen­dere il titolo, le favorite oltre al solito Brasile sono Ar­gentina, Inghilterra e Spagna. Il vecchio mondo del pallone, insomma. Ma è un dato di fatto che nella storia del calcio finora solo il Brasile abbia vinto un Mondiale in un continente diverso dal proprio.
Via allora: grandi stadi, gol, sfide. E un popolo sullo sfondo che vuole vivere e farsi ammi­rare dal mondo. Senza illusioni, sia chiaro. Perché il Sudafrica, dove un terzo della popolazione vive senza energia elettrica, il Mondiale non lo vedrà nemmeno in televisione. Lo annuserà per strada, a piedi scalzi. Suonando trombe fastidiose, sven­tolando bandiere che magari nemmeno sa a chi appartengono. Sarà un popolo in festa, ma spettatore a casa propria. E questo, tra tifo e eufo­ria, occorrerà non dimenticarlo.

Da Avvenire di martedì 8 giugno 2010
CORAGGIO E PAZIENZA: L’INSEGNAMENTO DEL PAPA NEI GIORNI DELLA VISITA A CIPRO
LA TELA DA RITESSERE di MIMMO MUOLO
I viaggi di Benedetto XVI, al di là del loro grande valore pastorale, si stanno rivelando un utile strumento per approfondire la conoscenza del pensiero e della personalità del Pontefice. È accaduto anche nella tre-giorni di Cipro, una visita che aveva all’inizio diversi fuochi d’interesse (pace in Medio Oriente e presenza dei cristiani, rapporto con gli ortodossi, dialogo con i musulmani i tre sicuramente preminenti), e che proprio nei giorni della vigilia si era colorata di tinte inopinatamente fosche a causa dell’attacco israeliano alle navi degli attivisti filo-palestinesi e dell’omicidio di monsignor Luigi Padovese.
Invece, una volta di più, Papa Ratzinger ha dimostrato di avere, di fronte alle acque agitate della cronaca, la fermezza propria di chi è stato chiamato a governare con saggezza la barca di Pietro. Non solo ha raccomandato di seguire la rotta della pace, della riconciliazione e del dialogo in tutti gli incontri della fitta agenda del viaggio. Ma ha anche fornito la bussola sicura per far sì che da quella rotta non ci si allontani anche quando il barometro dei rapporti tra i popoli e le religioni – e, purtroppo, continua ad accadere – si mette a tempesta. «Bisogna avere il coraggio e la pazienza di ricominciare sempre di nuovo», ha detto ai giornalisti nella consueta conferenza stampa tenuta sull’aereo durante il volo di andata. Più che una semplice esortazione, una regola d’oro che offre la cifra interpretativa non solo del viaggio, ma anche di tutte le bufere che questo pontificato ha attraversato in poco più di cinque anni. In sostanza, quasi capovolgendo la famosa immagine della tela di Penelope, Benedetto XVI invita a ritessere alla luce della retta ragione quello che altri distruggono e disfano nelle ombre di inumane passioni. Lo dice naturalmente in primis ai cristiani, ma con loro anche a tutti gli uomini di buona volontà, a partire da quelli che operano negli organismi politici nazionali e internazionali. Mai pensare che di fronte alla violenza, anche la più ingiusta ed efferata, nulla ci sia da fare. Al contrario, le vie della pace, proprio come quelle di Dio, sono infinite. Un messaggio, questo, che da Cipro risuona innanzitutto sulle vicine sponde del Medio Oriente martoriato. Ma che si può applicare anche ai rapporti cattolico­ortodossi, alla ricerca della difficile soluzione della questione cipriota, al dialogo non sempre agevole con l’islam.
Pazienza e coraggio, dunque, per ricominciare a trattare, per fermare il bagno di sangue, per promuovere la pacifica convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani. Pazienza e coraggio per non arrendersi di fronte alle «gelate» (che pure ci sono state e non molto tempo orsono) del cosiddetto «inverno ecumenico».
Pazienza e coraggio, infine, per ricordare a tutti (musulmani compresi) che i diritti umani hanno valore universale. E che, tra di essi, la libertà di religione e di coscienza non sono certamente degli optional.
Per Benedetto XVI queste non sono solo parole. Egli per primo ha mostrato di crederci a tal punto da applicarle anche quando per fraintendimenti causati in gran parte dai media (discorso di Regensburg e conseguente crisi con gli islamici, remissione della scomunica ai lefebvriani e problemi con gli ebrei) o per colpe altrui (questione dei preti pedofili) ha dovuto ritessere da capo rapporti e ricentrare attenzioni. Le stesse parole pronunciate sull’omicidio di monsignor Padovese si iscrivono in questo contesto.
Cioè nella profonda convinzione di un uomo del Vangelo che ha in Cristo la vera pace e non si stanca di annunciarla al mondo, vivendola ogni giorno. Anche quando le vicende della vita costringono a ricominciare da capo. Con coraggio e pazienza.

Da Avvenire di domenica 6 giugno 2010
IL «SEGNO» CRISTIANO
PER NON PERDERSI NEI MEANDRI DI UNA STORIA SPEZZATA
LUIGI GENINAZZI
L’affermazione suona quasi pro­vocatoria, ma è lo stile a cui ci ha abituato il Papa-teologo. «Il mondo ha bisogno della cro­ce », ha detto ieri sera Benedetto X­VI, nell’unica ome­lia finora tenuta nel corso della visita a Cipro.
E forse val la pena partire da qui, da queste parole pronunciate significa­tivamente nella chiesa di Santa Croce, circondata dal filo spinato lungo la li­nea di demarcazione che divide in due il Paese, per capire il senso profondo di un viaggio difficile in una terra la­cerata.
A Cipro, crocevia politico e religioso di identità e conflitti, c’è il rischio di per­dersi nei meandri di una storia che ha spezzato la geografia con la violenza di una guerra civile le cui ferite, dopo trentasei anni, non si sono ancora ri­marginate. Ma solo la croce, dice il Pa­pa, può porre fine all’odio e a soffe­renze come quelle che sono state ri­cordate più volte in questi giorni dal­le autorità cipriote. Di fronte ai discorsi roboanti del capo della Chiesa orto­dossa che ha voluto far sentire il suo grido di dolore a tutto il mondo, de­nunciando l’occupazione turca e la profanazione continua degli edifici re­ligiosi, qualcuno forse si sarà meravi­gliato del tono apparentemente re­missivo tenuto dal Pontefice. Ma sa­rebbe sbagliato considerarlo sempli­cemente frutto di una prudenza di­plomatica. Al contrario è l’esito di quella «pazienza del bene», come ha detto Benedetto XVI con un’espres­sione inedita e suggestiva, che do­vrebbe essere l’atteggiamento di colo­ro che credono nella realtà misteriosa ed efficace della croce.
È questo il messaggio fondamentale che il Papa sta delineando durante quest’intensa visita pastorale. La pace ha bisogno dei cristiani che hanno «un ruolo insostituibile per la riconcilia­zione tra i popoli», una riflessione che non a caso si sviluppa in questo lem­bo di Terra Santa, nell’isola che vide il primo viaggio missionario di San Pao­lo ed oggi intende essere ponte tra cat­tolicesimo e mondo ortodosso, tra Eu­ropa e Medio Oriente. È un messaggio rivolto prima di tutto all’interno della Chiesa, ai cattolici che devono essere promotori di «una maggiore unità nel­la carità con gli altri cristiani ma anche del dialogo interreligioso», ha ricordato il pastore della Chiesa universale al piccolo gregge che spesso si è sentito abbandonato e dimenticato.
La visita di Benedetto XVI, la prima di un Papa a Cipro in duemila anni di sto­ria, ha rappresentato un evento colmo di gioia e consolazione per la mino­ranza cattolica dell’isola. Ma il Ponte­fice è andato oltre e l’ha invitata a tra­sformare il peso storico delle soffe­renze in opportunità di dialogo con i musulmani. Una sfida coraggiosa se si pensa che è stata lanciata a chi dovet­te subire l’islamizzazione forzata nel nord dell’isola. Parole molto impe­gnative che hanno avuto un riscontro concreto nell’abbraccio caloroso tra il Papa ed uno sceicco musulmano del­la comunità turco-cipriota, un gesto carico di simbolismo avvenuto lungo la 'linea verde' che taglia in due l’ul­timo Paese diviso d’Europa dopo la ca­duta del Muro di Berlino. «I musulma­ni sono nostri fratelli», ha detto Bene­detto XVI sull’aereo che lo portava a Cipro, un’espressione che finora era stata usata solo da Giovanni Paolo II. Una fratellanza non facile in Terra San­ta dove si fa sentire il peso quotidiano delle sofferenze e i cristiani sono ten­tati d’andarsene. Ma chi rimane di­venta «un segno straordinario di spe­ranza per tutti quanti vivono nella re­gione ».
Ecco perché il mondo ha biso­gno della croce.

Da Avvenire di martedì 8 giugno 2010
IL PAPA ALL’ANGELUS
Il zelante servizio e il martirio di padre Jerzy sono particolare segno della vittoria del bene sul male. Il suo esempio e la sua intercessione accrescano lo zelo dei sacerdoti e infiammino d’amore i fedeli laici
POPIELUSZKO, LA VITTORIA DEL BENE DA ROMA GIANNI CARDINALE
« I regimi passano come temporali d’estate lasciando solo macerie, ma la Chiesa e i suoi figli restano per beneficare l’umanità con il dono della carità senza limiti». È stato questo uno dei passaggi forti dell’omelia dell’arcivescovo Angelo Amato nella Messa di domenica a Varsavia per la beatificazione di padre Jerzy Popieluszko, il cappellano di Solidarnosc uc­ciso in odio alla fede dalla polizia comuni­sta 26 anni fa. Un evento che - come ha rac­contato la Radio Vaticana - nella piazza Pil­sudski ha raccolto 150 mila fedeli e che ha visto la concelebrazione di oltre cento ve­scovi e duemila sacerdoti. Alla cerimonia c’era anche la madre novantenne di padre Popieluszko, Marianna.
Dando inizio alla cerimonia l’arcivescovo di Varsavia, Kazimierz Nycz, ha definito l’e­vento «un grande giorno per la Chiesa di Polonia e la patria».
Nell’omelia, il prefetto della Congregazione delle cause dei santi, l’arcivescovo salesiano Amato, ha ripercor­so la vita dell’eroico sacerdote assassinato a 37 anni. Padre Jerzy, ha ricordato l’arcive­scovo, non era un omicida, un terrorista, ma solo un «leale sacerdote cattolico», fi­glio di quella Polonia sottoposta al regime comunista dove «religione, Vangelo, dignità delle persona umana, libertà, non erano concetti in sintonia con l’ideologia marxi­sta ». Cosicché contro quel giovane prete si scatenò «la furia omicida del grande men­­titore, nemico di Dio e oppressore dell’u­manità, di colui che odia la verità e diffon­de la menzogna». Quella ideologia però «non sopportava lo splendore della verità e giustizia» e «per questo l’inerme» Popielu­szko «fu spiato, perseguitato, catturato, tor­turato » e infine ucciso. Ma, ha spiegato Amato, «il sacrificio» di quel giovane prete «non fu una sconfitta», per­ché «i suoi carnefici non potevano uccidere la Verità». «La tragica morte del nostro mar­tire infatti – ha aggiunto – fu l’inizio di una generale riconversione dei cuori al Vangelo. La morte dei martiri è il seme dei cristiani». Ed è proprio per questo che, ha evidenziato Amato, la beatificazione dell’eroico prete po­lacco «costituisce una memorabile giorna­ta di esultanza per la nazione».
Dopo aver sottolineato come il nuovo bea­to traeva la forza della sua testimonianza dall’Eucaristia che la celebrazione della messa fu il suo ultimo gesto da vivo il 19 marzo 1984, il prefetto della Congregazione delle cause dei santi ha ribadito come il martire fosse «consapevole che il male della dittatura traeva le sue origini da Satana» e «per que­sto esortava a vincere il male con il bene e con la grazia del Signore».
Durante il viaggio a Cipro anche Benedetto XVI ha rivolto un personale pensiero al nuo­vo beato. Introducendo la preghiera del­l’Angelus con i fedeli convenuti nel Palazzo dello Sport Eleftheria a Nicosia, ha detto: «Rivolgo un cordiale saluto alla Chiesa in Po­lonia, che oggi gioisce dell’elevazione agli altari del padre Jerzy Popieluszko». «Il suo zelante servizio e il martirio – ha subito ag­giunto – sono particolare segno della vitto­ria del bene sul male. Il suo esempio e la sua intercessione accrescano lo zelo dei sacer­doti e infiammino d’amore i fedeli laici».

Da Avvenire di martedì 8 giugno 2010
Pronta una serie di misure per calibrare le tariffe di alcuni servizi comunali sulle esigenze delle famiglie con figli o che tengono in casa un anziano
PARMA FA SCUOLA. ECCO IL QUOZIENTE ROMA
DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
Dopo Parma, anche Roma diventa sem­pre più a misura di fa­miglia. Due realtà demograficamente (ed economica­mente) diverse, ma acco­munate dalla volontà di aiu­tare le famiglie. Ieri l’Udc ha illustrato la sua proposta del Quoziente Roma per andare incontro alle coppie sulle ta­riffe di alcuni servizi che hanno in casa figli o anziani (o che sono composte da questi ultimi). E ha regi­strato la consonanza del sindaco Gianni Alemanno - che nel capoluogo emiliano a fine maggio si è im­pegnato nel network dei Comuni pro quoziente - a lavorare insieme per condurre in porto, pur tra le dif­ficoltà del bilancio in via di definizione, misure a fa­vore del nucleo fondamentale della società. La pro­posta ha il suo apprezzamento, «ora si tratta di ve­dere quali siano gli strumenti tecnici per attuarla al meglio». In vista di una riforma urgente che, però è necessario «sia presa all’unanimità».
Non si tratta di «fare una gara a chi è arrivato prima, ma di passare all’attuazione concreta, al di là delle bandiere», ha premesso il capogruppo centrista al Campidoglio Alessandro Onorato, promotore di u­na delibera che ha già ottenuto il parere favorevole di alcuni dipartimenti. Ma che ancora deve arriva­re all’aula consiliare (dove già è passata una delibe­ra quadro della maggioranza).
In sostanza si tratta di una riparametrazione delle tariffe di alcuni servizi - asili nido, refezione e tra­sporti scolastici, residenze sanitarie assistite, in pro­spettiva anche l’addizionale Irpef - applicando dei coefficienti di riduzione all’indicatore Isee (Indica­tore della situazione economica equivalente) cre­scenti in base al numero dei figli, all’età (fino a 24 anni, in modo da incentivare modelli virtuosi negli studi e non trasformarsi in assistenzialismo), alla presenza di anziani over 65 o di disabili. «L’indica­tore Isee, che è del 1998, non tiene il passo con la si­tuazione attuale e non può essere modificato, per­ché si tratta di un decreto governativo», spiega O­norato. Ma corretto sì. Ed è una misura urgente. A Roma, infatti, ci sono circa 1 milione e 300mila famiglie (con sempre meno prole). Ma soprattutto ben 445mila hanno al loro interno almeno un an­ziano (tra le quali 102mila sono famiglie con figli che ne hanno uno a carico).
È evidente il ruolo di ammortizzatore sociale che esse svolgono. Lo ha evidenziato il segretario del­l’Udc Lorenzo Cesa, che ha sottolineato anche co­me non a caso la crisi ha colpito meno l’ltalia «gra­zie al risparmio delle famiglie». E ha dato la dispo­nibilità a un intesa in Campidoglio sul tema, oltre a promettere un sostegno alle esigenze dell’Urbe nel­la discussione parlamentare sulla manovra.Insomma, sulla Capitale rimbalza l’effetto Polveri­ni. E, in attesa dell’ingresso in giunta dell’Udc (al­leata in Regione, ma all’opposizione al Comune) A­lemanno ribadisce che occorre «una percezione tra­sversale, un cambiamento che serve a rafforzare il ruolo della famiglia, una sfida politica, dalla quale è necessario partire per essere di esempio a livello nazionale».
Perché «la vera riforma fiscale è il quo­ziente familiare». Non a caso anche dalla Pisana hanno spinto per l’introduzione del quoziente nel Lazio anche i due assessori 'in pectore' Aldo Forte e Luciano Ciocchetti. E in stile bipartisan il vicepre­sidente del Consiglio regionale Bruno Astorre (Pd). Anche l’associazionismo familiare era presente con il presidente del Forum del Lazio (48 associazioni, in rappresentanza di circa 150 mila famiglie e 400 mila persone) Gianluigi de Palo, all’incontro di illu­strazione delle misure. «Che vanno bene. Ma che devono essere realizzate sempre più con il coinvol­gimento del Paese reale. Cioè delle famiglie, alle qua­li va riconosciuto anche un protagonismo sociale e culturale».

Da Avvenire di domenica 6 giugno 2010
In Friuli Venezia Giulia un «assegno di natalità», in Sardegna un piano per chi ha 4 figli, la «Prima dote» in Puglia, ai nuclei calabresi solo i tagli della politica
REGIONI & MATERNITÀ PERCORSO A OSTACOLI
Contributi alle mamme, fondi per le famiglie indigenti. Ma in gran parte del Paese non ci sono iniziative mirate
DI DANIELA POZZOLI
Ci sono Regioni italiane che spendono parec­chio per sostenere le donne che abortirebbe­ro se non avessero un aiuto economico du­rante la gravidanza; ci sono Regioni che hanno in­tenzione di 'imitare' chi è più avanti, ma che non hanno ancora messo mano al portafoglio. Chi ha Fon­di dedicati al sostegno delle famiglie, chi proprio non ha tra le priorità questo tipo di aiuto, anche solo per mancanza di copertura finanziaria. Dopo l’iniziativa della Lombardia (il «Nasko» appena varato, vedi box a destra) facciamo il punto.
Mamme e nuovi nati
Il Friuli Venezia Giulia stanzia 5 milioni di euro l’an­no per l’«assegno di natalità», suddivisi tra primo nato, figli successivi e gemelli. L’assegno esiste dal 1993, ma ha avuto una battuta d’arresto nel 2006 per poi essere ripristinato nel 2007 con effetto retroattivo. Requisito: risiedere da 5 anni in regione.
In fase di studio l’assegnazione di un budget per le gestanti in difficoltà. Si chiama invece assegno «Pri­ma dote» e ammontava a 500 euro la misura assun­ta in Puglia tra il 2008 e il 2009. Il 3 maggio 2010 è scaduto il nuovo bando per il contributo «Prima dote» ai bambini tra 0 e 36 mesi; prevede un contri­buto mensile per un anno: 200 euro fino a 4.000 di reddito; 150 euro tra i 4.000 e i 5.000; 200 euro se si ha un figlio e un disabile. Lo stanziamento com­plessivo è di 5 milioni.
In Piemonte le politiche di tutela della maternità rientrano sotto la voce «Percorso nascita», un am­pio programma coordinato tra Regione, Asl e Co­muni. Tutte le donne incinte ricevono le impegna­tive mutualistiche esenti da ticket, gratis il corso pre-parto. Per le donne gravide con difficoltà eco­nomiche ci sono aiuti nell’assegnazione di alloggi in edilizia convenzionata, inserimento in case-fa­miglia e visite domiciliari.
Un contributo diretto viene assegnato nella Provincia autonoma di Bol­zano alle strutture per mamme in difficoltà gestite dal Movimento per la vita o dalla Provincia (la Casa della madre), tramite finanziamenti previsti dalla legge 13 del ’91.
Nella Provincia autonoma di Tren­to vengono sostenuti i centri di accoglienza per madri in diffi­coltà (per lo più Cav) tramite un contributo alle spese gestionali.
La Valle d’Aosta, in sostegno alla maternità, nel 2007 ha approvato un assegno post-natale per i bimbi nati dopo il 1° luglio 2007 o che compiano il primo o il se­condo anno a partire da quella data: per il 1° figlio 575 euro l’an­no; per il 2° figlio 856 euro; per il 3° figlio 1.154. Dal 3° in poi l’au­mento è di 286 euro l’anno.
In Molise le «Disposi­zioni a tutela della maternità delle donne non oc­cupate » risalgono al 12 gennaio 2000 e sono ancora in vigore: veniva allora istituito un Fondo che copri­va i due mesi precedenti il parto e i tre successivi. Si parlava di 500mila lire mensili, con adeguamento I­stat (e oggi con i fondi in euro). Il «bonus» saliva a un milione di lire per ogni altro figlio a carico.
Contributi alle famiglie
La Liguria eroga 2 milioni di eu­ro per i consultori sia privati che pubblici e per i centri anti-vio­lenza. Il «Progetto famiglia» aiuta nuclei con 4 o più figli. È del 16 febbraio 2010 la legge regionale dell’Umbria che all’articolo 17 assicura la copertura finanziaria (3 milioni) in favore delle fami­glie più esposte al disagio e alla povertà. La giunta regionale ha appena messo a disposizione un ulteriore milione di euro «per af­frontare il tema delle famiglie vulnerabili in questo momento straordinario». Le Marche, data la caren­za di fondi, difficilmente introdurranno un bonus come quello della Lombardia, ma la legge regionale 30 del 1998 (un milione e 100mila euro di stanzia­menti) prevede, tra le altre cose, il sostegno alla na­talità, all’adozione e al finanziamento di progetti di solidarietà per le donne in difficoltà, non sposate, gravide e per ragazze-madri.
La giunta regionale della Sardegna punta sul «capi­tale sociale bebè» e ha approvato proprio questa settimana il «bonus famiglia»: aiuti per i 3mila nu­clei, residenti in Sardegna al 30 aprile 2010, con 4 o più figli. Il contributo è di 1.000 euro per ciascuna famiglia.
Lunedì scorso il Consiglio regionale della Calabria ha invece dato l’ok a un progetto di legge che pre­vede la riduzione del costo della politica di 1,3 mi­lioni di euro. I risparmi finanzieranno la legge re­gionale sulla famiglia del 2004, che era rimasta in un cassetto.
La Regione Emilia-Romagna assegna prestiti sull’onore a famiglie in difficoltà con figli minorenni, a tasso zero e con un piano di restitu­zione concordato. Il prestito riguarda persone, sin­gole o in coppia, che abbiano o stiano per avere fi­gli.
La Regione Veneto punta al sostegno concreto alla natalità mediante misure a favore delle famiglie con tre figli quali interventi sulle tariffe di elettri­cità, gas, rifiuti, trasporto pubblico.
Progetti in vista
La Regione Basilicata potrebbe presto adottare un provvedimento che ricalca, nelle linee fondamen­tali, quello scelto dalla Regione Lombardia per le mamme in difficoltà. Una scel­ta che affronterà dopo l’estate.
Nel Lazio la proposta è di isti­tuire un «bonus mamme» di 250 euro per 18 mesi.
A soste­gno della maternità la Toscana vorrebbe destinare (il provvedi­mento è ancora da approvare) 2mila euro l’anno alle mamme in difficoltà, mentre per ha chi ha un figlio nato nel 2010, è a basso reddito e vive in un al­loggio in affitto vengono dati contributi per pagare affitto e retta del nido.
La Si­cilia punta a riorganizzare i consultori stanziando 4 milioni e 400mila euro, la Campania vantava 5 anni fa un «reddito di cittadinanza», 500 euro al mese per le famiglie bisognose, che oggi, per mancanza di copertura finanziaria, è scomparso.
Stessa caren­za di fondi in Abruzzo dove l’unica legge a favore delle donne incinte e disoccupate risale al ’97, ma dal 2000 se ne è persa traccia.

Da Avvenire di mercoledì 9 giugno 2010
LA LETTERA DEI VESCOVI AI SACERDOTI
GRAZIE A OGNUNO E ALL’UNO D’ESEMPIO
DAVIDE RONDONI
La cosa peggiore è quando ti riducono a una categoria.
Quando non esisti più come persona ma esiste solo la categoria a cui qualcuno vuole ridurti. Specie quando ti vogliono imputare qualcosa. E dicono, che so: i rossi. Oppure: i gialli. Oppure: i neri. Oppure: i preti.
In questi mesi ne abbiamo sentite sui preti.
Notizie brutte, orrende. E poi soprattutto un sacco di chiacchiere, di battute grevi. Di offese generalizzate. Ben oltre il perimetro dei fatti, e del dolore dei fatti. Ben oltre l’amore per la verità, anzi spesso in spregio della verità. È stato così, ne abbiamo sentito di tutti i colori. Offese. Ingiurie.
Pronunciate pure con sussiego e espressione finto-intelligente in salotti tv o sui giornali. Accuse generalizzate, perché se si doveva stare e ragionare sui casi singoli, sulle faccende particolari, si doveva smettere il facile mestiere del moralista. E vedere i casi singoli di ogni genere, non solo del genere preso a bersaglio. Insomma, si doveva generalizzare l’accusa sui preti per nascondere una realtà orrenda che invece riguarda tutti. E che riguarda l’idea di giustizia che abbiamo per ciascuno di noi, per la vita di ciascuno di noi.
E ora finalmente qualcuno, invece di accusarli genericamente, li ringrazia uno per uno, i preti.
Ma non come categoria, come persone, una a una. I preti italiani. Il don Luigi e il don Beppe. Il don Maurizio e il don Gabriele. Uomini con quei nomi a cui il 'don' messo davanti, da segno di rispetto e deferenza, si voleva far diventare segno di sospetto e di marchiamento. Per fortuna però – Avvenire l’ha già scritto – la gente conosce bene i suoi preti. E ora c’è chi dice pubblicamente, esemplarmente, grazie a questi uomini. A ognuno di loro. Per l’opera che compiono. L’opera che si vede di dedizione alle persone. E per l’opera che non si vede mai del tutto, di dedizione a Dio. Per le due opere che sono una. Che hanno il medesimo fuoco. I due gesti che sono uno. Come i due lati del comandamento evangelico: ama Dio e il prossimo tuo.
Non fan questo i preti? E in cambio di cosa lo fanno, verrebbe da chiedersi? Un tempo, forse, c’era qualche privilegio. Insomma, poteva esserci qualche convenienza a fare il prete. O almeno così dicevano le battute del popolo. Ora invece la stragrande maggioranza di loro tira la cinghia, ricava battute e risolini nei salotti bene e sui media, passa i giorni a misurarsi con realtà d’impegno, di difficoltà e di degrado da cui troppi altri – soprattutto tra chi ha potere – restano distanti. E magari neanche uno straccio di pubblico ringraziamento.
Per questo le parole della lettera dell’Assemblea dei vescovi italiani che ringrazia e incoraggia i preti italiani non sono retorica. Non sono frasi di circostanza come troppe se ne sentono. Non si tratta di un comandante che rincuora le sue truppe in un momento difficile. Non sono le parole che i vertici di un’associazione di categoria rivolge ai suoi affiliati Anzi, sono parole rivolte a ciascuno, non alla categoria. È un ringraziamento speciale. Che pesa in modo speciale in questo momento. E perciò rincuora.
Come dice bene il cardinal Hummes nelle pagine che seguono, infatti, l’esempio di uno – che si è dato, nel suo servizio, il nome di Benedetto – si è accompagnato a quelle parole per tutto l’anno sacerdotale che sta terminando. Nella lettera della Cei non viene indicato un programma generico, come per ottenere un’adesione generale della categoria. Perché per tutto l’anno la storia e la fede dei semplici ci ha indicato l’esempio di uno, così che ciascun sacerdote posi gli occhi suoi, il suo personale cuore, la sua personalissima storia davanti a quell’esempio concreto, ai gesti e alle parole di uno di loro. Perché nella vita reale la vita di un uomo non riprende coraggio e forza grazie solo alle parole. Ma perché vede uno, un uomo, che lo invita con l’esempio, e che è sulla stessa strada.

Da PiuVoce.net del 11 Giugno 2010
Libération rivela che le francesi non ne possono più degli ormoni quotidiani
LE DONNE DEGLI ANNI DIECI LIBERATE DALLA ``PILLOLA``
di Nicoletta Tiliacos
In occasione dei cinquant’anni della pillola non potevano che intensificarsi le lamentele sulle italiane indisciplinate e un po’ troglodite, che continuano a trascurare i contraccettivi orali e non imitano le giudiziose cugine d’Oltralpe, campionesse mondiali di uso della pillola, adottata dal sessanta per cento delle donne francesi in età fertile. Ma basta leggere un articolo apparso il 9 giugno sul quotidiano Libération (molto laico e di sinistra), per capire che forse le italiane così fesse non sono.
Una serie di ginecologi, interpellati dalla giornalista Olivia Marsaud, raccontano che sono sempre più numerose le donne decise a farla finita con la quotidiana dose di ormoni per silenziare la fecondità. Queste donne che “non ne possono più”, come dichiara una di loro, hanno più o meno lo stesso profilo: “Giovani donne attive, dai venticinque ai trentacinque anni, sotto pillola da più di dieci anni o più, la maggior parte in coppia stabile da molti anni”. Interessantissime le motivazioni. Louise, trentadue anni, da sei mesi ha smesso di prendere la pillola perché non ne sopportava più “l’aspetto ‘dogmatico’, come se fosse l’unico mezzo di contraccezione” e per quell’impressione “di non aver mai avuto scelta”. Un’altra pentita della pillola, Nadia, dice di aver smesso “per non trattare più il mio corpo come uno straniero”.
La pillola quotidiana, il “gesto di libertà” osannato negli anni Sessanta, alle giovani donne degli anni Dieci appare sempre più come una costrizione.
www.piuvoce.net

Da Avvenire di mercoledì 9 giugno 2010

Da Tv2000 e Cei le immagini con la sintesi del convegno e le idee per gli animatori
TESTIMONI DIGITALI, ECCO IL VIDEO
Sempre attivo il sito Internet del grande convegno di fine aprile a Roma, con numerosi contenuti interattivi e una ricca galleria fotografica
DI VINCENZO GRIENTI
Meno di un quarto d’ora di filmato per raccontare il convegno nazionale «Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale» (Roma, 22-24 aprile 2010) 'caricato' e disponibile nel sito Internet www.testimonidigitali.it che continua ad essere aggiornato e attivo in numerose sezioni a partire proprio dal 'mediacenter'. Il video, curato dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e da Tv2000 anche per mettere a disposizione di animatori e Portaparola uno strumento pratico di conoscenza e orientamento, è stato proiettato durante l’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana di fine maggio scorso e racconta tre giorni di incontri, di scambio di idee, di confronto sui mezzi di comunicazione sociale e sul loro impatto nella cultura di oggi. A parlare sono i protagonisti che hanno animato il convegno nazionale promosso dalla Commissione episcopale per la Cultura e le comunicazioni sociali e organizzato dall’Ufficio nazionale e dal Servizio nazionale per il progetto culturale della Cei. Il video si apre con le parole che Benedetto XVI ha rivolto agli oltre 8mila partecipanti all’udienza del 24 aprile nell’Aula Paolo VI, in Vaticano. «Il tempo che viviamo conosce un enorme allargamento delle frontiere della comunicazione, realizza un’inedita convergenza tra i diversi media e rende possibile l’interattività – esorta il Pontefice –. La rete manifesta, dunque, una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista, ma nel contempo segna un nuovo fossato: si parla, infatti, di digital divide .
Esso separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le nazioni tra loro e anche al loro interno».
Il sito Internet del convegno ha registrato nei soli 2 giorni di lavori oltre 200mila accessi e circa 19mila utenti unici alla diretta online. Ciò è stato reso possibile grazie anche alla sinergia di Avvenire, Tv2000 , Radio InBlu e dell’Agenzia Sir . «È sicuramente un modo per ripercorrere quei giorni indimenticabili – scrive per email Giorgio, 24 anni, di Salerno –. Per rivedere i volti e non dimenticare le parole del Papa». Tra le sezioni del sito Internet più attive, a parte l’area news e quella del 'mediacenter', c’è anche la pagina della ricerca «Relazioni comunicative e affettive dei giovani nello scenario digitale», dell’Università Cattolica di Milano, disponibile all’indirizzo www.testimonidigitali.it/ricer ca. Diretta dall’antropologa dei media Chiara Giaccardi, che ha coordinato un gruppo di ricercatori, la ricerca ancora coinvolge attivamente tramite la compilazione del questionario (in via del tutto anonima) che può essere rispedito tramite posta elettronica all’indirizzo ricerca@testimonidigitali.it.
Sono ancora disponibili, poi, le puntate radiofoniche di Radio Digit, la rubrica promossa in collaborazione con l’Associazione Weca, e i numeri del periodico free press DigitNews . A ciò si aggiunge un’ampia galleria fotografica che ripercorre i momenti più belli del convegno.

La Libreria San Paolo, presente a Ravenna da più di 40 anni per merito delle Suore Paoline, è stata rilevata dall'Opera di Religione della Diocesi di Ravenna nel 1999, mantenendo il carattere di libreria religiosa.
La Libreria San Paolo costituisce un'importante realtà, poiché rappresenta, attualmente, l'unica attività della zona in cui si possano reperire libri religiosi e riviste cattoliche.
Presso la libreria è disponibile una vasta gamma di altri articoli, come dvd (specialmente per film d'autore, pellicole rare, film per la famiglia), spartiti musicali, recital per scuole elementari e materne, musicassette e compact disc (raccolte di musica religiosa, musica classica e operistica), editoria elettronica, stampe sacre e messaggi visivi.
Libreria San Paolo Via Pietro Canneti Ravenna