domenica 30 gennaio 2011

Felicità, parola chiave delle Beatitudini


il Vangelo di Ermes Ronchi

IV domenica Tempo ordinario Anno A

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, per­ché avranno in eredità la terra. Beati quelli che han­no fame e sete della giusti­zia, perché saranno sazia­ti. Beati i misericordiosi, perché troveranno miseri­cordia. Beati i puri di cuo­re, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perse­guitati per la giustizia, per­ché di essi è il regno dei cie­li.
(...)

Le nove Beatitudini so­no il cuore del Vange­lo;
al cuore del Vange­lo c’è per nove volte la pa­rola felicità, c’è un Dio che si prende cura della gioia del­l’uomo, tracciandogli i sen­tieri. Come al solito, inatte­si, controcorrente, e restia­mo senza fiato, di fronte al­la tenerezza e allo splendo­re di queste parole. Sono la nostalgia prepotente di un tutt’altro modo di essere uomini, il sogno di un mon­do fatto di pace, di sincerità, di giustizia, di cuori puri. Queste nove parole sono la bella notizia , l’annuncio gioioso che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa ca­rico della sua felicità.
Le beatitudini sono il più grande atto di speranza del cristiano. Quando vengono proclamate sanno ancora affascinarci, poi usciamo di chiesa e ci accorgiamo che per abitare la terra, questo mondo aggressivo e duro, ci siamo scelti il manifesto più difficile, incredibile, stra­volgente e contromano che l’uomo possa pensare.
La prima dice: beati voi po­veri.
E ci saremmo aspet­tati: perché ci sarà un ca­povolgimento, perché di­venterete ricchi. No. Il pro­getto di Dio è più profon­do e vasto. Beati voi pove­ri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell’altra vita! Beati, perché c’è più Dio in voi, c’è più libertà, meno attaccamento all’io e alle cose.
Beati perché custodite la speranza di tutti. In questo mondo dove si fronteggia­no nazioni ricche fino allo spreco e popoli poverissi­mi, un esercito silenzioso di uomini e donne preparano un futuro buono: costrui­scono pace, nel lavoro, in famiglia, nelle istituzioni; sono ostinati nel proporsi la giustizia, onesti anche nelle piccole cose. Gli uo­mini delle beatitudini, i­gnoti al mondo, che non andranno sui giornali, sono loro i segreti legislatori del­la storia.
La seconda è la beatitudine più paradossale: Beati quel­li che sono nel pianto . Feli­cità e lacrime mescolate in­sieme, forse indissolubili. Dio è dalla parte di chi pian­ge ma non dalla parte del dolore! Un angelo misterio­so annuncia a chiunque piange: il Signore è con te .
Dio non ama il dolore, è con te nel riflesso più profondo delle tue lacrime per molti­plicare il coraggio, per fa­sciare il cuore ferito, nella tempesta è al tuo fianco, forza della tua forza. La pa­rola chiave delle beatitudi­ni è felicità. Sant’Agostino, che scrive un opera intera sulla vita beata, scrive: ab­biamo disputato sulla feli­cità e non conosco valore che maggiormente si possa rite­nere dono di Dio. Dio non solo è amore, non solo mi­sericordia, Dio è anche feli­cità. Felicità è uno dei no­mi di Dio.

(Letture: Sofonia 2, 3; 3, 12-13; Salmo 145; 1 Corinzi 1, 26-31; Matteo 5, 1-12a)

sabato 29 gennaio 2011

FATTI FOSTE PER SEGUIR VIRTUTE E CANOSCENZA

CINEFORUM di FEBBRAIO
al CINEMA CORSO Ravenna

SABATO 5 febbraio 2011 ore 20,45 CINEMA CORSO RAVENNA


SABATO 19 febbraio ore 20,45 CINEMA CORSO RAVENNA

PortaParola 29 gennaio 2011

Portaparola ravenna
Oggi scriviamo di:
60° Anniversario della morte di Mons. Morelli, un prete che scelse gli ultimi
Baghdad, strage nelle case dei cristiani
Attentato alla Chiesa Cristiana in Iraq
Ci può essere giustizia. Al cento per cento
«La benedizione è come il crocefisso fa parte della nostra identità»




giovedì 27 gennaio 2011

LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE



Mons. Rino Fisichella e la Nuova Evangelizzazione
Ravenna WebTv (18 gennaio 2011)

L’importante incontro a carattere diocesano è avvenuto martedì 18 gennaio presso il Palazzo Congressi della Provincia di Ravenna, in Largo Firenze.
E' intervenuto S. Ecc.za Mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, un dicastero istituito di recente da
papa Benedetto XVI, che hs affrontato un tema quanto mai attuale e importante per tutta la comunità cattolica: “La nuova Evangelizzazione”.
L’iniziativa è stata promossa dalla Scuola di Formazione Teologica “S. Pier Crisologo” di Ravenna.


Riportiamo l'intero intervento di S. Ecc.za Mons. Rino Fisichella

Siate una cosa sola perché il mondo creda
"Il punto cruciale della questione sta in questo: se un uomo, imbevuto della civiltà moderna, un europeo, può ancora credere; credere proprio nella divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo. In questo, infatti, sta tutta la fede". Credo che il tema della nuova evangelizzazione passi da questo interrogativo. Sono le parole cariche di provocazione che provengono da uno degli scrittori più significativi del secolo scorso: Dostoewskij. Chiedersi se l'uomo di oggi è ancora disposto a credere in Gesù come Figlio di Dio comporta necessariamente la questione sottesa: se l'uomo di oggi sente ancora il bisogno della salvezza. Sta tutto qui il problema per noi credenti, per la nostra credibilità nel mondo di oggi; ma è il problema anche per quanti non credono e desiderano dare un senso compiuto alla loro vita. Non trovo altra possibilità al di fuori di questa condizione che provoca a trovare una risposta. Davanti alla possibilità di Gesù Cristo non si può rimanere neutrali; si deve dare una risposta se si vuole trovare un senso alla propria vita. Per alcuni versi, si concentrano qui le grandi questioni che toccano ognuno di noi e la semplice risposta che la Chiesa offre annunciando, come se il tempo non fosse mai passato, lo stesso contenuto dei primi anni della nostra esistenza come cristiani: Gesù, crocifisso e risorto; lui che è passato in mezzo a noi, annunciando il regno di Dio e facendo del bene a quanti si rivolgevano a lui. Ci sono, dunque, alcune questioni che meritano di essere brevemente affrontate per poter giungere a una risposta convincente all'interrogativo posto da Dostoewskij.
Il contesto
Dobbiamo, anzitutto, puntare gli occhi sul contesto che viviamo. Penso che nessuna religione come il cristianesimo abbia preso in seria considerazione la storia e la sfida che la storia pone. Noi siamo inseriti nella storia, siamo determinati dalla storia. Il contesto attuale parla, per alcuni versi, di una grande crisi. Anzitutto a livello culturale e, di conseguenza, a livello religioso.


1. A livello culturale
Scriveva il poeta irlandese William Butler Yeats agli inizi del secolo scorso:
Tutto cade a pezzi,
il centro non tiene
Il mondo è pervaso dall'anarchia.
Probabilmente, la lucidità del poeta che, per definizione, è in grado di esprimere con più intensità del filosofo la capacità di cogliere e tradurre il reale, intravvede ed esprime sentimenti che, probabilmente, albergano nel cuore di tanti di noi dinanzi a molti fatti di cui siamo spesso inermi spettatori. Ciò a cui assistiamo è la mancanza di un centro di gravitazione in grado di fare sintesi del processo culturale che ci ha preceduto, tale da essere in grado di esprimere una nuova progettualità da proporre alla generazione che si staglia nel prossimo futuro. Il nostro contemporaneo, infatti, sembra aperto a ogni forma di novità senza, tuttavia, avere il sostegno di uno spirito critico. Senza alcuna resistenza cambia velocemente il suo modo di pensare e vivere e appare sempre più come un soggetto cinetico, sempre pronto a sperimentare, desideroso di essere coinvolto in ogni gioco anche se più grande di lui, soprattutto se lo rapisce in quel narcisismo non più neppure velato che lo illude sull'essenza della vita. Insomma, il processo di personalizzazione ha generato un'esplosione di rivendicazioni di libertà individuali che tocca la sfera della vita sessuale, delle relazioni interpersonali e familiari, delle attività del tempo libero come di quelle lavorative, lo spazio dell'insegnamento e della comunicazione ne sono fatalmente coinvolte e l'intero ambito della vita ne viene modificato. Per paradossale che possa sembrare, le rivendicazioni sociali sono sempre fatte in nome della giustizia e dell'uguaglianza, ma alla base si riscontra determinante il desiderio di vivere più liberi a livello individuale; si tollerano e sopportano molto di più le ingiustizie e disuguaglianze sociali piuttosto che le proibizioni della sfera privata. Se volessimo sperimentare quanto stiamo descrivendo in un orizzonte ipotetico sulla base di fatti all'ordine del giorno, si vedrebbe facilmente quanto l'analisi non sia molto lontana dalla realtà. Penso, in modo particolare ad alcuni fatti di cronaca raccapriccianti che non sono più un fatto isolato, ma diventano costume. Alla base del litigio tra medici in sala operatoria vi è il richiamo alla libertà di agire come si crede; alla base del pestaggio a un tassista che investe un cane non al guinzaglio ci si appella alla propria libertà e ai diritti degli animali; una volta stabilito il diritto all'aborto si vuole limitare la libertà di coscienza di quanti ne sono giustamente contrari… in ogni comportamento che andiamo ad analizzare riscontriamo lo stesso denominatore comune. Come se tutto questo non bastasse, siamo obbligati a fare almeno menzione di una nuova e più geniale forma di conoscenza che si impone sempre di più, e ha il sopravvento perfino sui vari tentativi lodevoli, anche se deboli, per non dire perdenti, di quanti vogliono costruire qualche barricata con la conservazione di una conoscenza umanistica. Il cosiddetto sapere scientifico si è frammentato in una serie di conoscenze che a stento riusciamo a seguire.

2. A livello della formazione
C’è una crisi a livello della formazione : già al termine, se non sbaglio, degli anni cinquanta un sacerdote che ha influito molto nella vita di generazioni di persone, don Luigi Giussani, scriveva, un libro – forse tra i più difficili, ma certamente tra i più importanti di quelli che ha scritto – Il rischio educativo e il Papa già da qualche anno parla - e con ragione - “dell’urgenza educativa”.
Di fatto, ciò che è mancato nei decenni passati è una vera responsabilità nei confronti di una formazione che permettesse di individuare degli autentici valori e decidersi per essi. (D'altronde, se per anni si è seminato effimero e divertimento come pane quotidiano perché si dovrebbero attendere frutti diversi dall'indifferenza verso ogni forma di impegno, di apatia per lo studio e di un comportamento refrattario verso ogni forma di disciplina? Il termine stesso, anzi, è caduto in disuso e il solo accenno fa reagire con allergia come qualcosa da evitare. Eppure, sembra far capolino sempre più spesso l'esigenza perché si ponga rimedio a questa situazione e si proponga con serietà e determinazione una visione della vita che recuperi l'impegno personale e faccia della formazione un punto di necessario confronto tra le diverse istanze presenti nella società, per non lasciare intere generazioni in balia del vuoto e, peggio ancora, della violenza gratuita. Una condizione come questa impone, per alcuni versi, il ricorso all'urgenza come un fatto non procrastinabile; si deve superare, quindi, lo stato culturale di frammentarietà che caratterizza il momento presente, per ritornare a una visione unitaria non solo del sapere, ma della persona che è il vero soggetto della formazione. Ciò implica la necessità di focalizzare al meglio le forze presenti nella società e nella Chiesa in riferimento all'educazione, per ritornare ad essere propositivi con un progetto formativo che non rimanga intrappolato nelle secche delle ipotesi, ma che si faccia forte dell'esperienza e della storia di generazioni così da offrire contenuti che danno certezza. Le ipotesi affascinano perché aprono spazi di avventura e di creatività che sono utili, ma presto o tardi ognuno ha bisogno di certezze su cui costruire l'esistenza per dare identità alla propria personalità. Non ci si può nascondere che una permanente mentalità materialista spinga a rincorrere solo alcune abilità pratiche piuttosto di aiutare la mente alla ricerca della critica; ugualmente, si persegue spesso la via più facile di appagare ogni desiderio espresso, sovrabbondando in beni di consumo il più delle volte costosi e inutili, piuttosto di far comprendere il senso positivo della rinuncia e del sacrificio per ciò che vale, come espressione di genuina libertà. Non è affatto inconsueto incontrare genitori e insegnanti sconfortati, delusi e incapaci di corrispondere a queste esigenze. La tentazione di abdicare al ruolo non è affatto peregrina, soprattutto quando si sentono abbandonati a se stessi nel non facile compito educativo. L'educazione, d'altra parte, o trasmette la capacità di entrare in se stessi e cogliere quanto di vero e di bene esiste oppure non è tale. Se non si lasciano percepire spazi che permettono di andare oltre noi stessi e incontrarsi con Dio difficilmente si pone in essere quella capacità che permette di dare senso alle cose e alla vita. La comunità cristiana, pertanto, in questo particolare frangente storico deve essere in grado di cogliere la richiesta silenziosa che si muove da più settori, soprattutto da parte di genitori e docenti, perché si crei un'alleanza tra le diverse istanze educative con lo scopo di uscire dalla crisi e costruire una piattaforma su cui far scorrere i prossimi decenni. La domanda di una genuina formazione si fa così ogni giorno più pressante, ma pone con sé un ulteriore interrogativo: l'individuazione di formatori che siano capaci di questa missione.

3. A livello religioso
La vita dei cristiani nel mondo, è sempre stata caratterizzata dalla paradossalità; porta con sé, infatti, lo “scandalo” della croce da cui nasce e l’identità della Chiesa che permane nei secoli come “paradosso e mistero”. Permangono con la loro carica di attualità le parole del teologo H. de Lubac: “Quale paradosso, nella sua realtà, questa Chiesa in tutti i suoi aspetti contrastanti! Quante irriducibili immagini ce ne offre la storia!... Quanti mutamenti sono sopravvenuti nel suo comportamento, quanti strani sviluppi, quante svolte, quante metamorfosi! Ma ancora oggi, nonostante le nuove condizioni di un mondo che tende all’uniformità, quali distanze, talvolta quale abisso nella mentalità, nel modo di vivere e di pensare la loro fede tra le diverse comunità cristiane dei diversi paesi!... Sì, paradosso della Chiesa. Non è questo un vano gioco retorico. Paradosso di una Chiesa fatta per un’umanità paradossale”. È necessario, dunque, affinare lo sguardo con la riflessione per essere capaci di andare oltre le troppe superficialità con le quali si guarda alla presenza dei cristiani nel mondo, e recepire la novità permanente della nostra presenza esso. Se c’è una sfida che siamo chiamati ad accogliere e sulla quale misureremo nel futuro il coerente impegno che abbiamo riversato per la costruzione della società, ritengo che questo consista nello stile di vita che assumiamo per testimoniare la scelta di fede. È intorno al nostro stile di vita, quindi, che si gioca il futuro. Con esso si percepisce e misura la novità della fede cristiana e la sua possibilità di vittoria. Il recente contesto storico ha fatto della secolarizzazione il proprio cavallo di battaglia.
Ne è derivata una profonda crisi che è divenuta una crisi di Dio. Schematicamente si potrebbe dire: religione sì, Dio no; dove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi. L'ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio –distrattamente o tranquillamente- senza intenderlo veramente" 1. In una parola, si ammette che la crisi odierna è determinata dal potere e sapere parlare di Dio; la cosa non può lasciare neutrali soprattutto a oltre quarant'anni dal Vaticano II che aveva tra i suoi scopi quello di parlare di Dio all'uomo di oggi in modo comprensibile. La crisi che viviamo, comunque, si potrebbe riassumere in maniera ancora più sintetica: Dio oggi non è negato, è sconosciuto. Probabilmente, all'interno di quest'espressione c'è qualcosa di vero circa il modo di porsi del nostro contemporaneo dinnanzi alla problematica che ruota intorno al nome di "Dio". Per alcuni versi, si potrebbe dire che si è passati dal "Dio: un'ipotesi inutile" di venerata memoria, al "Dio: la possibilità buona per l'uomo" di G. Vattimo nell'ultima pubblicazione di alcune settimane fa su questo tematica. A questo scopo, dovremmo essere capaci di gettare un sasso nello stagno su due fronti: quello dell'indifferenza, che spesso domina il contesto culturale su questa problematica, e quello dell'ovvietà che evidenzia quanta ignoranza domini spesso sovrana sui contenuti religiosi. Indifferenza e ovvietà, purtroppo, rodono alla base quel comune senso religioso che è ancora presente, rendendo sempre più debole la domanda religiosa e, soprattutto, la sua scelta consapevole e libera. Ritorna immediata, la scena familiare di Paolo per le vie di Atene (At 17,16-34). Non è cambiato molto da allora. Le strade delle nostre città –sempre più monotone per la ripetitività dei modelli offerti dall'appiattimento urbanistico di questi decenni, da dove sembra scomparsa ogni forma di nuova bellezza- sono cariche di nuovi idoli. L'interesse verso un generico senso religioso –venuto meno nei decessi passati- sembra voler riprendersi una sorta di rivincita in un mondo che mostra ancora la via della secolarizzazione, anche se non è più così chiara ed evidente la strada che essa vuole seguire tesa tra una non progettata "postmodernità" e un nihilismo permanente. Espressioni religiose si moltiplicano e sono spesso prive di spessore razionale. In alcuni casi prende il sopravvento l'emotività, in altri, al contrario, forme di fondamentalismo; ambedue, comunque, non fanno altro che evidenziare la mancanza di spessore intellettuale. Da ultimo, appaiono di nuovo all'orizzonte nuovi messia dell'ultima ora, predicando l'imminente fine del mondo.
1 In R. Fisichella (ed.), Il Concilio Vaticano II, Cinisello B. 2000, 67.

In questo contesto è necessario chiedersi chi sono i nuovi Paolo di Tarso coscienti di essere portatori di una bella notizia che entra nell'areopago del nostro piccolo mondo con la convinzione e la certezza di voler annunciare il "Dio sconosciuto".
"Dio": il termine è tra i più usati nel linguaggio mondiale e, tuttavia, quanti sensi diversi, differenti e, a volte, contrastanti tra di loro fino ad opporsi. Dobbiamo chiederci se Dio esiste e cosa o chi è Dio. Domande inevitabili che non possono rimanere senza risposta. I credenti non possono permettere né che "Dio" rimanga un termine privo di senso né che rimanga confinato in un altrettanto aprioristico Sprachspiel comprensibile solo ai pochi addetti che utilizzano la stessa grammatica. Se "Dio" ha un valore allora questo deve essere universale e, pertanto, deve essere reso accessibile per tutti con un linguaggio che nessuno esclude. Il tentativo di ritrovare nuove strade per evidenziare la ragionevolezza del nostro procedere; s. Agostino scriveva nel suo La fede nelle cose che non si vedono: "Vi sono alcuni i quali ritengono che la religione cristiana debba essere derisa piuttosto che accettata, perché in essa, anziché mostrare cose che si vedono, si comanda agli uomini la fede in cose che non si vedono. Dunque, per confutare coloro ai quali sembra prudente rifiutarsi di credere ciò che non possono vedere, noi, benché non siamo in grado di mostrare a occhi umani le realtà divine che crediamo, tuttavia dimostriamo alle menti umane che si devono credere anche quelle cose che non si vedono" 2.
Ma il Dio di cui parliamo non solo si è fatto vedere, ma si è fatto uno di noi. Qui egli porta nella nostra vita la riposta alla domanda di senso. Per dirla con la GS 22: "Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato". Nessun alibi da parte nostra. Egli ha sperimentato in tutto la nostra condizione umana, soprattutto là dove essa si fa carico del dolore, della sofferenza, della malattia e della morte.
2 Agostino, De fide rerum quae non videntur, I,1.
Viviamo un momento tra i più espressivi della storia dell’umanità. Mai come in questo frangente sappiamo che il mondo sta realmente cambiando. Gli studi circa la conoscenza sempre più profonda del mistero umano, della nostra intelligenza naturale e artificiale, delle potenzialità nascoste nel cervello e dell’impatto delle nuove tecnologie genetiche diventano sempre più spesso terreno di discussione e di conflitto. Mentre il confine della vita sembra modificare la stabilità posseduta per millenni, si ergono in maniera contraddittoria visioni ideologiche che pretendono di imporre in maniera assoluta e universale un principio che dovrebbe permanere come individuale e limitato. Se si perde il senso del limite, che è imposto ad ognuno, perché nessuno può pretendere di essere padrone della propria vita, si vivrà nell’illusione e ogni giorno saremo costretti, come novelli Sisifo, a ricominciare sempre da capo con il peso di un fardello che si fa ogni volta più pesante. Nel suo piano di salvezza, tuttavia, il Signore ha posto noi, non altri, ad assumere le responsabilità di ciò che sarà il futuro. Corrispondere a questa sfida è segno di fede e richiede da parte nostra un sano realismo. Come credenti dobbiamo cogliere il momento di grazia che viene offerto; la salvezza, d’altronde, si realizza nella storia non in un’ipotetica teoria teologica. Il momento che viviamo, pur con i suoi limiti, presenta aspetti affascinanti che provocano ad uscire dal nostro piccolo mondo per immetterci in un impegno di trasformazione globale. Non saremo irrilevanti nella misura in cui saremo capaci di presentare le ragioni della nostra fede in un linguaggio moderno, coerente con le sue origini ma attento all’uomo di oggi. D’altronde, la nostra storia mostra quanto abbiamo sempre voluto partecipare alle trasformazioni del mondo. Il progresso non ci impedisce né può farci rinchiudere in uno spazio di isolamento dal mondo. Ciò che serve è che questo ambito del progresso sia coniugato con l’istanza etica così da permettere che pervenga come un servizio all’uomo e all’umanizzazione delle sue conquiste e non come una nuova schiavitù da cui doversi necessariamente difendere.
Guardare al futuro con la certezza della speranza vera è ciò che consente a noi di non rimanere rinchiusi né in una sorta di romanticismo che guarda solo al passato né di cadere in un orizzonte di utopia perché ammaliati da ipotesi che non potranno avere riscontro. La fede impegna nell’oggi che viviamo per questo non corrispondervi sarebbe ignoranza e paura; a noi cristiani, tuttavia, questo non è consentito. Rimanere rinchiusi nelle nostre chiese potrebbe darci qualche consolazione ma renderebbe vana la Pentecoste. È il tempo di spalancare le porte e ritornare ad annunciare la risurrezione di Cristo di cui siamo testimoni. Secondo le parole del santo Vescovo Ignazio agli albori del cristianesimo: “Non basta essere chiamati cristiani, bisogna esserlo davvero” (Ai Cristiani di Magnesia I,1). Se qualcuno vuole riconoscere i cristiani lo può fare per il loro impegno nella fede non per le loro intenzioni. Come diceva Benedetto XVI il giorno prima di essere eletto Papa: ""Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo…Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all'intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini".
La nuova evangelizzazione riparte da qui: dalla credibilità del nostro vivere da credenti e dalla nostra convinzione che la grazia agisce e trasforma fino al punto da convertire il cuore. Come ho ribadito più volte è un problema di senso, ma ciò significa è un problema di saper amare. Il mondo di oggi ha bisogno profondo di amore, perché conosce, purtroppo solo i grandi fallimenti che si impongono. Qui, probabilmente, nasce il paradosso che si apre dinanzi ai nostri occhi e che provoca la mente a riflettere sul senso di una tale azione. In che cosa consiste vivere nella fede per testimoniare l'amore? Si crea contraddizione tra la vita quotidiana e quella della fede? Viene tolta una qualche forma di autonomia a chi vuole vivere nella fede? È possibile a tutti una simile scelta? Gli interrogativi potrebbero facilmente moltiplicarsi; alla base, comunque, rimane come una costante la vera questione con cui ci siamo introdotti: è possibile credere oggi? Non è assurdo affermare che senza la fede la vita personale non potrebbe raggiungere la sua piena maturazione. La fede, infatti, appartiene a una delle espressioni più qualificanti la vita di ogni persona; anzi, per alcuni versi, è l’atto più importante e decisivo. Esso coagula in sé un insieme di azioni che permettono di cogliere il senso di una vita e il suo dinamico sviluppo. Credere, quindi, non è solo possibile, ma è un atto dovuto.
La vita possiede forme di inesorabilità che tutti conosciamo, perché ne facciamo esperienza diretta. Una colpisce in modo particolare, perché è impressa in ciò che possediamo di più personale: il nostro volto. In pochi centimetri, la natura impegna ognuno a verificare le diverse tappe della vita. Implacabile come non mai, quella stessa natura che affascina nel momento in cui ne ammiriamo la possenza delle montagne o l’estensione dei mari, sembra diventare nemica quando obbliga ogni giorno a verificare chi siamo. Nessuna illusione sul tempo che passa; il volto lo dimostra e non rimane che prenderne atto. Con il passare degli anni gravitano sulle nostre spalle anche una somma di esperienze, positive e negative, che segnano lo sviluppo della nostra personalità. Il volto che si specchia coglie in un istante il dramma della vita. Se la certezza accompagna il tempo passato, il futuro è carico di incognite. Forse, il progresso compiuto dalla scienza non permette più che ci si ponga la domanda: “da dove vengo?”; nonostante tutto, però, rimane immutata la domanda: “dove sto andando?”. Il miracolo dell’inizio della vita non è ancora stato scoperto, ma già sono poste le premesse per un intervento sempre più dominate della tecnica sulla natura; eppure, la stessa conquista che promette di estendere oltre il limite biblico la durata dell’esistenza, non è in grado di rispondere alla domanda: “cosa sarà di me dopo questa vita?”. Da ogni parte si volge lo sguardo, sembra che le domande sulla propria esistenza invece di diminuire si accrescono e questo uomo sempre più potente, si scopre ancora più debole di prima. Paradosso ed enigma a se stesso, chiede insistentemente che gli venga data una risposta al perché della sofferenza, della solitudine e del dover lasciare le persone che ama per il sopraggiungere di una morte di cui non sa il come né il quando. In questa “era del vuoto” che sembra estendersi oltre misura, non è frutto del pessimismo affermare che si stanno bruciando intere generazioni solo per evitare di chiedere loro un impegno radicale. Non è lontano il tempo in cui questi stessi giovani si ergeranno a nostri giudici e, rimproverandoci, chiederanno il perché di queste scelte fallimentari nei loro confronti. Sarà difficile in quel momento trovare i veri colpevoli; avranno di nuovo cambiato gli abiti e con rapidità si saranno trasformati in nuovi analisti e opinionisti,
sempre pronti a scrollarsi di dosso ogni responsabilità. Cedere a questa voce delle sirene, tuttavia, equivarrebbe per il teologo ed il pastore ad allontanarsi dalla missione ricevuta. È importante che ci siano sempre sentinelle capaci di vegliare e mantenere viva l’attenzione per il futuro.
Che senso ha, dunque, amare ed essere amato? Per l’uomo di oggi, che spesso confonde l’amore con la passione o che sperimenta i fallimenti di ciò che chiama amore, diventa difficile porsi una simile domanda; eppure, solo nella misura in cui è capace di dare una risposta all’amore, sarà in grado di affrontare la domanda sul senso del dolore e della morte. Contrariamente, la questione del senso sarà sempre sottoposta al ricatto dell’assurdo e non potrà incontrare l’uomo nell’istanza più personale che è quella della vita e non della morte. In questo contesto, merita riprendere tra le mani un testo significativo del Cantico dei Cantici. “Forte come la morte è l'amore” (8,6) è la conclusione a cui arriva l’ignoto autore sacro. Dinanzi al masso granitico della morte, che esprime il non senso della vita, viene a porsi una forza così intima all’uomo, che è in grado di frantumare e disperdere l’assurdo della morte. Questa è certamente il termine ultimo verso cui tutto sembra muoversi nell’esistenza personale; qui l’assurdo trova l’espressione più coerente, soprattutto quando la morte si presenta avvolgendo tra le sue braccia la vita innocente e indifesa. Se, tuttavia, si trova qualcosa che è forte e totale tanto quanto la morte, allora ciò significa che può essere vinta e, quindi, anche distrutta. Qui sorge il volto dell’amore come forma definitiva in grado di dare senso a tutto. G. Marcel scrive: “Se c’è in me una certezza incrollabile, essa è quella che un mondo che viene abbandonato dall’amore deve sprofondare nella morte, ma che là dove l’amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che lo vorrebbe avvilire, la morte è definitivamente vinta” 3. Si potrebbe concludere facilmente sostenendo che quando a una persona si dice: “ti amo”, ciò equivale a dirle: “tu non morirai mai”. Il sigillo posto tra i due non ha più possibilità di essere rimosso, permane oltre la morte mostrando il vero volto dell’amore. L’apostolo Paolo non si allontana da questa prospettiva quando scrive: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia,la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35-39).
3 G. Marcel, Homo viator, Aubier 1944, p. 189.

La fede è un cammino personale e Dio lo si scopre là dove lui ha deciso di incontrare ognuno di noi. L’icona di sant’Agostino è certamente eloquente ed espressiva anche per l’uomo di oggi. Come non ripercorrere le diverse fasi delle sue Confessioni senza ritrovare parte di ciò che noi stessi sperimentiamo? Il cuore inquieto di Agostino, tuttavia, arrivò finalmente a cogliere la verità della fede quando si scontrò con la verità della sua vita. In quel momento giunse anche la vera felicità e la scoperta del genuino amore che, invano, avevo ricercato fino ad allora: “Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v’è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v’è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma a volere piuttosto ciò che da te ode. Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace”. Insomma, la sfida è sempre la stessa; la scommessa non è cambiata: "Sì, è necessario scommettere, ciò non è affatto facoltativo... bisogna scommettere... quale male avrete prendendo questa scelta? Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero... io vi dico che ci guadagnerete in questa vita e che, ad ogni passo che farete in questo cammino, vedrete tanta certezza da guadagnare e tanta nullità in ciò che rischiate, che alla fine riconoscerete che avete scommesso per una cosa certa, infinita, per la quale non avete dato nulla" (233). E er concludere sempre con Pascal: "Se questo discorso vi piace e vi sembra valido, sappiate che è stato fatto da un uomo che si è messo in ginocchio prima di farlo e anche dopo, per pregare quell'essere infinito e senza parti al quale egli sottomette tutto il suo essere e, dunque, la forza di questo discorso si accordi con questa umiliazione" (Pensieri 223). Come dire: se vuoi veramente credere e amare, non puoi essere pieno di te, devi avere il coraggio di abbandonarti in colui che per primo ha amato e per questo ti ha reso capace di tanto amore.

sabato 15 gennaio 2011

Dio sacrifica se stesso per l’uomo

Guido Reni (1575 - 1642), “Gesù abbraccia San Giovanni Battista”, ca. 1640
Il Vangelo di Ermes Ronchi
II Domenica Tempo ordinario Anno A
In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».


Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Ecco l’agnello , ecco il piccolo animale sacrificato, il sangue sparso, la vittima innocente. Ma di che co­sa è vittima Gesù?
Forse dell’ira di Dio per i nostri peccati, che si placa solo con il sangue dei sacrifici? Della giustizia di Dio che come risarcimento esige la morte dell’unico innocente? No, Dio aveva già detto per bocca di Isaia: sono stanco dei tuoi sacrifici senza numero. Io non bevo il sangue dei tuoi agnelli, io non mangio la loro carne (cf. Isaia 1, 11).
Appare invece il capovolgimento totale portato da Gesù: in tutte le religioni l’uomo sacrifica qualcosa per Dio, ora è Dio che sacrifica se stesso per l’uomo. Dio non esige la vita del peccatore, dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. E dal suo costato aperto sulla croce non esce vendetta o rabbia, ma sangue e acqua, sangue d’amore, acqua di vita, la capacità di amare sempre e comunque.
Di che cosa è vittima allora l’Agnello di Dio?
Gesù è vittima d’amore. Scrive Origene: «Dio prima ha sofferto, poi si è incarnato. Ha sofferto perché caritas est passio», la sofferenza di Dio è figlia della sua passione d’amore; ha sofferto vedendo il male che l’uomo ha e fa, sentendolo far piaga nel suo cuore; ha sofferto per amore.
Gesù è vittima della violenza.
Ha sfidato e smascherato la violenza, padrona e signora della terra, con l’amore. E la violenza non ha potuto sopportare l’unico uomo che ne era totalmente libero. E ha convocato i suoi adepti e ha ucciso l’agnello, il mite, l’uomo della tenerezza. Gesù è l’ultima vittima della violenza, perché non ci siano più vittime. Doveva essere l’ultimo ucciso, perché nessuno fosse più ucciso. Giovanni diceva parole folgoranti: «Ecco la morte di Dio perché non ci sia più morte», e la nostra mente può solo affacciarsi ai bordi di questo abisso.
Ecco colui che toglie il peccato; non un verbo al futuro, nell’attesa; non al passato, come un fatto concluso, ma al presente: ecco colui che instancabilmente continua a togliere, a raschiare via il mio peccato di adesso. E come? Con il castigo? No, con il bene. Per vincere la notte incomincia a soffiare la luce del giorno, per vincere la steppa sterile semina milioni di semi, per disarmare la vendetta porge l’altra guancia, per vincere la zizzania del campo si prende cura del buon grano.
Noi siamo inviati per essere breccia di questo amore, braccia aperte donate da Dio al mondo, piccolo segno che ogni creatura sotto il sole è amata teneramente dal nostro Dio, agnello mite e forte che dona se stesso.

(Letture: Isaia 49, 3.5-6; Salmo 39; 1 Corinzi 1, 1-3; Giovanni 1 , 29 -34 )

mercoledì 12 gennaio 2011

LOURDES: pellegrinaggio parrocchiale a luglio





SERATA di PRESENTAZIONE

del PELLEGRINAGGIO a LOURDES (24-29 luglio 2011)

Lunedì 17 gennaio ore 20,45
Sala polifunzionale Don Giovanni Baldini


Via Narsete Ravenna


programma del pellegrinaggio


modulo di iscrizione

sabato 8 gennaio 2011

Spirito e acqua per la vita che sorge


il Vangelo di Ermes Ronchi

Battesimo del Nostro Signore Anno A

In quel tempo, Gesù dal­la Galilea venne al Gior­dano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedir­glielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?».
Ma Gesù gli rispo­se: «Lascia fare per ora, per­ché conviene che adem­piamo ogni giustizia».
Allo­ra egli lo lasciò fare. Appe­na battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si apri­rono per lui i cieli ed egli vi­de lo Spirito di Dio discen­dere come una colomba e venire sopra di lui.
Ed ecco una voce dal cielo che di­ceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».


Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli, e vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba sopra di lui. Lo Spi­rito e l’acqua sono le più an­tiche presenze della Bibbia, entrano in scena già dal se­condo versetto della Gene­si: la terra era informe e de­serta, ma «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque» .
Il primo movimento della vita nella Bibbia è una dan­za dello Spirito sulle acque. Come una colomba che cerca il suo nido, che cova la vita che sta per nascere. Da allora sempre lo Spirito e l’acqua sono legati al sorge­re della vita. Per questo so­no presenti nel Battesimo di Gesù e nel nostro Battesi­mo: come vita sorgente.
Di quale vita si tratta? Lo spiega la Voce dal cielo: Questi è il Figlio mio, l’ama­to: in lui ho posto il mio compiacimento .
«Figlio»
è la prima parola. Ogni figlio vive della vita del padre, non ha in sé stesso la propria sorgente, viene da un altro. Quella stessa voce è scesa sul nostro Battesi­mo e ci ha dichiarati figli, i quali non da carne né da vo­lere d’uomo ma da Dio sono stati generati ( Gv 1,13). Bat­tesimo significa immersio­ne: siamo stati immersi dentro la Sorgente, ma non come due cose separate ed in fondo estranee, come il vestito e il corpo, ma per di­ventare un’unica cosa, co­me l’acqua e la Sorgente, come il tralcio e la Vite: la nostra carne in Dio in ri­sposta a Dio nella nostra carne, il farsi uomo di Dio che genera 'l’indiarsi' (Dante) dell’uomo. Il nostro abitare in Dio dopo che Dio è venuto ad abitare in mez­zo a noi (Gv 1,14), il mio Na­tale dopo il suo Natale.
Amato è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sap­pia o no, ogni giorno appe­na ti svegli, il tuo nome per Dio è «amato» . Immeritato amore, che precede ogni ri­sposta, lucente pregiudizio di Dio su ogni creatura.
Mio compiacimento è la ter­za parola. Termine raro e prezioso che significa: tu – figlio – mi piaci. C’è dentro una gioia, un’esultanza, una soddisfazione, c’è un Dio che trova piacere a stare con me e mi dice: tu, gioia mia!
E mi domando quale gioia posso regalare al Padre, io che l’ho ascoltato e non mi sono mosso, che non l’ho mai raggiunto e già perdu­to, e qualche volta l’ho per­fino tradito. Solo un amore immotivato spiega queste parole. Amore puro: avere un motivo per amare non è amore vero. E un giorno quando arriverò davanti a Dio ed Egli mi guarderà, so che vedrà un pover’uomo, nient’altro che una canna incrinata, il fumo di uno stoppino smorto.
Eppure so che ripeterà pro­prio a me quelle tre parole:
Figlio mio, amore mio, gioia mia. Entra nell’abbraccio di tuo padre!

(Letture: Isaia 42, 1-4. 6-7; Atti 10, 34-38; Matteo 3, 13-17)

sabato 1 gennaio 2011

In ogni uomo un frammento di Dio

Il Vangelo di Ermes Ronchi

II Domenica dopo Natale
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è sta­to fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina o­gni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha ricono­sciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno ac­colto ha dato potere di di­ventare figli di Dio (...).

In principio era il Verbo e il Verbo era Dio.
Giovan­ni inizia il suo Vangelo con una poesia, con un can­to, con un volo d’aquila che proietta subito Gesù di Na­zaret verso l’in principio e verso il divino. Nessun altro canto, nessun’altra storia può risalire più indietro, vo­lare più in alto di questa che contiene l’inizio di tutte le cose: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nul­la senza di lui .
In principio, tutto, nulla, so­no parole che ci mettono in rapporto con l’assoluto e con l’eterno. La mano di Dio su tutte le creature del cosmo e «il divino traspare dal fondo di ogni essere» (Tehilard de Chardin). Non solo degli esseri umani ma perfino della pietra. «Nel cuore della pietra Dio sogna il suo sogno e di vita la pie­tra si riveste» (Vannucci).
Un racconto grandioso che ci da un senso di vertigine, ma che poi si acquieta den­tro una parola semplice e bella: accogliere. Ma i suoi non l’hanno accolto, a quanti invece l’hanno ac­colto ha dato il potere di di­ventare figli.
Accogliere: parola bella che sa di porte che si aprono, di mani che accettano doni, di cuori che fanno spazio alla vita. Parola semplice come la mia libertà, parola verti­ce di ogni agire di donna, di ogni maternità. Dio non si merita, si accoglie.
«Accogliere» verbo che ge­nera vita, perché l’uomo di­venta ciò che accoglie in sé. Se accogli vanità divente­rai vuoto; se accogli disor­dine creerai disordine at­torno a te, se accogli luce darai luce.
Dopo il suo Natale è ora il tempo del mio Natale: Cri­sto è venuto ed è in noi co­me una forza di nascite. Cri­sto nasce perché io nasca. Nasca nuovo e diverso: na­sca figlio! Il Verbo di Dio è come un seme che genera secondo la propria specie, Dio non può che generare figli di Dio. Perché Dio si è fatto uomo? Perché Dio na­sca nell’anima, perchè l’a­nima nasca in Dio (M. Eckart).
E il Verbo si è fatto carne.
Non solo si è fatto Gesù, non solo uomo, ma di più: carne, esistenza umana, mortale, fragile ma solidale.
Bambino a Betlemme e car­ne universale. Dio non pla­sma più l’uomo con polve­re del suolo, come fu in principio, ma si fa lui stes­so polvere plasmata. Il va­saio si fa argilla di un picco­lo vaso. E se tu devi piangere, anche lui imparerà a piangere. E se tu devi morire anche lui conoscerà la morte.
Da allora c’è un frammen­to di Logos in ogni carne, qualcosa di Dio in ogni uo­mo. C’è santità e luce in o­gni vita. Il Verbo entra nel mondo e porta la vita di Dio in noi. Ecco la vertigine: la vita stessa di Dio in noi. La profondità ultima del Nata­le: Dio nella mia carne. E destino di ogni creatura è diventare carne intrisa di cielo.

( Letture: Siracide 24,1-4.8-12; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18 )