sabato 30 aprile 2011

Dalle piaghe aperte, luce e misericordia

II Domenica di Pasqua Anno A
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. (...) Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (...)
«Se non vedo, se non tocco, se non metto la mano non credo!» Tommaso vuole delle garanzie, ed ha ragione, perché se Gesù è vivo, cambia tutto.
Tommaso sperimenta la fatica di credere, come noi. Eppure in nessuna parte del Vangelo è detto che la fede senza dubbi, granitica, sia più sicura e affidabile della fede intrecciata alle domande (anzi la prima parola di Maria non è un «sì», è invece una domanda... come è possibile che io diventi madre? Non esiste fede esente da domande e da dubbi. Tommaso però, pur dissentendo dagli altri apostoli, non abbandona il gruppo, rimane e il gruppo, a sua volta, non lo esclude. Modello per le nostre assemblee: quando i dubbi sorgono, quando situazioni difficili o errori della comunità ti scoraggiano, non andartene, non isolarti, non sentirti escluso, resta all'interno della comunità. Non stancarti di porre le tue domande: qualcuno, custode della luce, ti porterà la risposta. Otto giorni dopo venne Gesù... Mi conforta pensare che se trova chiuso, Gesù non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì. Venne Gesù... e disse a Tommaso.
Gesù viene, non per essere acclamato dai dieci che credono, ma per andare in cerca proprio dell'agnello smarrito, lascia i dieci al sicuro e si dirige verso colui che dubita: Metti qua il tuo dito, stendi la tua mano, tocca! A Tommaso basta quel gesto. Colui che tende le mani verso di te, voce che non ti giudica ma ti incoraggia e ti chiama, corpo offerto ai dubbi dei suoi amici, è Gesù.
Non ti puoi sbagliare! C'è un foro nelle sue mani, c'è un colpo di lancia nel suo fianco, sono i segni dell'amore, che Gesù non nasconde, anzi, quasi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo; lo squarcio nel costato, puoi entrarci con una mano; piaghe che non ci saremmo aspettati, pensavamo che la Risurrezione avrebbe rimarginato per sempre le ferite del venerdì santo. E invece no.
L'amore ha scritto il suo racconto sul corpo di Gesù con l'alfabeto delle ferite. Indelebili ormai, proprio come l'amore. Ma dalle piaghe aperte non sgorga più sangue, bensì luce e misericordia. E nella mano di Tommaso, che trema, ci sono tutte le nostre mani. Tommaso passa dall'incredulità all'estasi: Mio Signore, mio Dio. Mio come lo è il respiro e, senza, non vivrei. Mio come lo è il cuore e, senza, non sarei. La vitalità di Dio mi è compagna, l'avverto, energia che sale, si dilata dentro, dà appuntamenti, mette gemme di luce, mi offre due mani piagate perché ci riposi e riprenda fiato e coraggio. E dico a me stesso: Io appartengo a un Dio vivo, non a un Dio compianto. E questa parola mi è di dolce, fortissima compagnia. Io appartengo a un Dio vivo!
(Letture: Atti 2, 42-47; Salmo 117; 1 Pietro 1, 3-9; Giovanni 20, 19-31)

Portaparola del 30/4/2011

















domenica 24 aprile 2011

Pasqua è il parto di un orizzonte nuovo


il vangelo di Ermes Ronchi

Pasqua del Signore Il primo giorno della settimana, Ma­ria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Ge­sù amava, e disse loro: «Hanno por­tato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro di­scepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Si­mon Pietro, che lo segui­va, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non po­sato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte (...).

Ciò che ci fa credere è la croce. Ma ciò in cui crediamo è la vit­toria della croce (Pascal): la vittoria sulla morte e sulla violenza. Cristo risorto, eternamente risor­gente in me e in ogni cosa, apre l’im­mensa migrazione degli uomini ver­so la vita. L’esistenza non scivola i­neluttabilmente come su di un pia­no inclinato verso la morte, ma al­l’incontrario si dirige instancabil­mente da morte a vita.
Maria di Magdala esce di casa quan­do è ancora notte, buio in cielo, buio nel cuore. Notte dell’Incarnazione, in cui il Verbo si fa carne. Notte della Ri­surrezione in cui la carne indossa l’eternità. Così respira la fede, da una notte all’altra. Pasqua ci invita a met­tere il nostro respiro in sintonia con quell’immenso soffio che unisce in­cessantemente l’istante e l’eterno, il visibile e l’invisibile, la nostra povertà e la ricchezza di Dio. Non ha niente tra le mani, ha soltanto la sua vita ri­sorta: da lei Gesù aveva cacciato set­te demoni , cioè la totalità del male. E una attesa ardente, come la sposa del Cantico: lungo la notte cerco l’amato del mio cuore.
Maria si ribella all’assenza di Gesù: « amare è dire: tu non morirai! » (Ga­briel Marcel). Non a caso chi si reca alla tomba in quell’alba è chi ha avu­to più forte esperienza dell’amore di Gesù: le donne, Maddalena, il disce­polo amato. E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente nel fresco dell’alba, aperto come il gu­scio di un seme. E fuori è primavera. Qualcosa si muove in Maria: un’an­sia, un fremito, un’urgenza che cam­biano di colpo il ritmo del racconto.
Corse allora… Può correre ora per­ché sta nascendo il giorno, deve cor­rere perché è il parto di un universo nuovo, le doglie della vita. Il mondo è un immenso pianto (Dio naviga in un fiume di lacrime, scrive Turoldo) ma a Pasqua diventa un immenso parto. Di vita, di futuro, di speranza, di nuovi orizzonti, di lacrime asciu­gate.
Corre da Pietro e dal discepolo ama­to: « correvano insieme tutti e due... ». Perché tutti corrono nel mattino di Pasqua? Corrono, sospinti da un cuo­re in tumulto, perché l’amore ha sem­pre fretta, non sopporta indugi, la vi­ta ha fretta di rotolare via i macigni che la bloccano. Chi ama è sempre in ritardo sulla fame di abbracci.
L’altro discepolo, quello che Gesù a­mava, corse più veloce. Giovanni ar­riva per primo al sepolcro, arriva per primo a capire il significato della ri­surrezione, e a credere in essa. Chi a­ma o è amato capisce di più, capisce prima, capisce più a fondo. Il disce­polo amato ha intelletto d’amore (Dante), ha l’intelligenza del cuore. Intuisce che un amore come quello di Gesù non può essere annullato dalla morte, che tutto ciò che anche noi vivremo e faremo nell’amore non andrà perduto, non sarà vinto da nul­la.

(Atti 10, 34a. 37-43; Salmo 117; Co­lossési 3, 1-4, Giovanni 20, 1-9).

Santa Pasqua Portaparola ravenna











sabato 9 aprile 2011

Le lacrime di Dio, fonte d'amore

Il vangelo di Ermes Ronchi V Domenica di Quaresima Anno A In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato [...]. Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro [...]. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Nella vita degli amici di Gesù irrompono la morte e il miracolo. Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto. Dolcemente, come si fa con chi amiamo, Marta rimprovera l'amico: va diritta al cuore di Gesù, e Gesù va diritto al cuore delle cose: Tuo fratello risorgerà. E Marta: so che risorgerà nell'ultimo giorno. Ma quel giorno è così lontano dal mio desiderio e dal mio dolore. Marta parla al futuro: So che risorgerà, Gesù parla al presente: Io sono, e incide due parole tra le più importanti del Vangelo: Io sono la risurrezione e la vita. Come alla samaritana è ancora a una donna che Gesù regala parole che sono al centro di tutta la fede: Io ci sono e sono la vita! Sono colui che adesso, qui, fa rinascere e ripartire da tutte le cadute, gli inverni, gli abbandoni. Notiamo la successione delle due parole «Io sono la Risurrezione e la vita». Prima viene la Risurrezione, poi la vita, e non viceversa. Risurrezione è un'esperienza che interessa prima di tutto il nostro presente e non solo il nostro futuro. A risorgere sono chiamati i vivi, noi, prima che i morti: a svegliarci e rialzarci da tutte le vite spente e immobili, addormentate e inutili; a fare cose che rimangano per sempre: Da morti che eravamo ci ha fatti rivivere con Cristo, con lui risuscitati (Efesini 2,5-6). La vita avanza di risurrezione in risurrezione, verso l'uomo nuovo, verso la statura di Cristo, verso la sua misura. O uomo prendi coscienza della tua dignità regale, Dio in te... (Gregorio di Nissa), che ti trasforma, e fa la vita più salda, amorevole, generosa, sorridente, creativa, libera. Eterna. Che rotola armoniosa nelle mani di Dio. Gesù si commosse profondamente e scoppiò in pianto. Dissero allora: guarda come lo amava! Piange e le sue lacrime sono la sua dichiarazione d'amore a Lazzaro e alle sorelle. Dio piange e piange per me: sono io Lazzaro, io sono l'amico, malato e amato, che Gesù non accetta gli sia strappato via. Dalle lacrime di Dio impariamo il cuore di Dio. Il perché della nostra risurrezione sta in questo amore fino al pianto. Risorgiamo adesso, risorgeremo dopo la morte, perché amati. Il vero nemico della morte non è la vita ma l'amore. Forte come la morte è l'amore, dice il Cantico. Ma l'amore di Dio è più forte della morte. Se il nome di Dio è amore, allora il suo nome è anche Risurrezione. Lazzaro, vieni fuori! Liberatelo e lasciatelo andare. Tre parole per risorgere, tre ordini che risuonano per me: esci, liberati e vai. Con passo libero e glorioso, per sentieri nel sole, in un mondo abitato ormai dalla più alta speranza: qualcuno è più forte della morte. (Letture: Ezechiele 37,12-14; Salmo 129; Romani 8,8-11; Giovanni 11,1-45)

Portaparola 9 aprile 2011





domenica 3 aprile 2011

Chiamati alla luce della gioia di Dio



il Vangelo di Ermes Ronchi

IV Domenica di Quaresima Anno A

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va' a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa -Inviato-.

Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?».

Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia».

Ed egli diceva: «Sono io!».

Una carezza di luce sul cieco. Gesù tocca e illumina gli occhi di un mendicante che ci rappresenta tutti. Una carezza di luce che diventa carezza di libertà.

Chi non vede deve appoggiarsi ad altri, a muri, a un bastone, ai genitori, a farisei.

Chi vede cammina sicuro, senza dipendere da altri, libero. Come il cieco del Vangelo che guarito diventa forte, non ha più paura, tiene testa ai sapienti, bada ai fatti concreti e non alle parole.

Si nutre di luce e osa. Libero.

Una carezza di libertà che diventa carezza di gioia. Perché vedere è godere i volti, la bellezza, i colori. La luce è un tocco di allegria che si posa sulle cose.

Così la fede, che è visione nuova delle cose, crea uno sguardo lucente che porta luce là dove si posa: «Voi siete luce nel Signore» (Efesini 5,8).

I farisei, quelli che sanno tutte le regole, non provano gioia per gli occhi nuovi del cieco perché a loro interessa la Legge e non la felicità dell' uomo: mai miracoli di sabato! Non capiscono che Dio preferisce la felicità dei suoi figli alla fedeltà alla legge, che parla il linguaggio della gioia e per questo seduce ancora. Funzionari delle regole e analfabeti del cuore. Mettono Dio contro l'uomo ed è il peggio che possa capitare alla nostra fede.

Dicono: «I poveri restino pure poveri, i mendicanti continuino a mendicare, i ciechi si accontentino, purché si osservi il sabato! Gloria di Dio è il precetto osservato!».

E invece no, gloria di Dio è un uomo che torna a vedere. E il suo lucente sguardo dà lode a Dio più di tutti i sabati! Ed è una dura lezione: i farisei mostrano che si può essere credenti senza essere buoni; che si può essere uomini di Chiesa e non avere pietà; è possibile "operare" in nome di Dio e andare contro Dio. Amministratori del sacro e analfabeti del cuore.

Nelle parole dei farisei il termine che ricorre più spesso è «peccato»: «Sappiamo che sei peccatore; sei nato tutto nei peccati; se uno è peccatore non può fare queste cose»; anche i discepoli avevano chiesto: «Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori?». Il peccato è innalzato a teoria che spiega il mondo, che interpreta l'uomo e Dio.

Gesù non ci sta: «Né lui ha peccato, né i suoi genitori».

Si allontana subito, immediatamente, con la prima parola, da questa visione per dichiarare come essa renda ciechi su Dio e sugli uomini.

Parlerà del peccato solo per dire che è perdonato, cancellato. Il peccato non spiega Dio.

Dio è compassione, futuro, approccio ardente, mano viva che tocca il cuore e lo apre, amore che fa nascere e ripartire la vita, che porta luce.

E il tuo cuore ti dirà che tu sei fatto per la luce.

(Letture: 1 Samuele 16,1b.4a.6-7.10-13a; Salmo 22; Efesini 5,8-14; Giovanni 9,1-41)

sabato 2 aprile 2011

Portaparola ravenna del 2/4/2011







DI FRONTE ALL’'UOMO DEI DOLORI'

SINDONE, ICONA DELLA QUARESIMA RICCARDO MACCIONI

Il suggerimento arriva da un amico sacerdote: non avere paura della Sindone, tieni una sua immagine in casa. Ho seguito il consiglio. La riproduzione, poco più di un santino, sta lì nella stanza con i grandi vetri, quasi davanti alla Bibbia, che non apro abbastanza. È un modo per ricordare l’Ostensione dell’anno scorso, che dal 10 aprile al 23 maggio portò a Torino oltre due milioni di fedeli. Qualche volta guardarla fa male perché, come in uno specchio che ti scruta dentro, vedi riflessa l’enorme distanza tra il piccolo uomo che sei e la grandezza cui tutti siamo chiamati. Succede soprattutto in Quaresima, quando lo Spirito chiede più spazio e il cuore ha bisogno di aria fresca. Su quel volto segnato dalla sofferenza, scorrono le persone trascurate, le parole non dette, gli abbracci non dati. Eppure non è lo sconforto a sorprenderti, e neanche la voglia di fare. Se ti immergi in quell’icona di dolore, se ti lasci interrogare dalle ferite che ne segnano i tratti, senti soprattutto un grande bisogno di silenzio. L’unica risposta possibile di fronte alla violenza disumana, il modo più diretto che abbiamo di aprirci all’eterno presente di Dio. Per essere riempiti occorre svuotarsi, lasciare che il vento dello Spirito spazzi via il fragile castello di carta delle nostre certezze, saper rinunciare a un po’ di noi stessi. È l’itinerario della Quaresima. È il messaggio della Sindone. Visto attraverso il Vangelo della Passione, l’uomo dei dolori racconta il miracolo di chi accetta la morte più atroce per dare vita agli altri, viene esaltato perché ha scelto l’umiliazione, sana le nostre ferite più profonde con le sue piaghe. Non resta che ringraziare. E chiedere perdono. La nostra colpa è il bisognoso che fingiamo di non vedere, la preghiera barattata in cambio di inutili chiacchiere, il vocabolario che, anziché pace, diffonde rabbia e violenza. Capirlo non è facile, lo è ancora di meno riconoscere che i responsabili siamo proprio noi, con il nostro povero bagaglio di frasi fatte e di risposte scontate. Ma se ce ne rendiamo conto, se accettiamo di non potere fare tutto da soli, significa che cambiare è possibile. Trasformando da dentro la vita che facciamo, preferendo, allo scintillio dell’ennesima vetrina, il buio di una cappellina e i consigli di un confessore. Perché, da quei presuntuosi analfabeti dello Spirito che siamo, non lo ammetteremo mai però cerchiamo maestri veri, testimoni autentici, e il modo per riconoscerli. Torino ne ha dati e avuti tanti. L’anno scorso i pellegrini in fila per l’Ostensione erano immersi proprio nel cuore della sua santità sociale, dove uomini e donne di fede, da don Bosco a Giulia di Barolo, dal Cottolengo al Cafasso, dal Murialdo a Faà di Bruno, hanno costruito l’Italia della carità. La Sindone non poteva che «abitare» dentro quella cittadella ideale senza confini e frontiere, dove tante esistenze perdute si sono ritrovate alla luce del Vangelo. È lì, a ricordarci che dalla morte può venire la vita, che umiltà e grandezza sono sorelle gemelle, che in fondo siamo tutti viandanti lungo il perimetro del nostro cuore. Bisognoso di Assoluto.

Sul sito della Chiesa cattolica di Torino è possibile “leggere” virtualmente il telo sacro: http://www.sindone.org La Sindone, per le caratteristiche della sua impronta, rappresenta un rimando diretto e immediato che aiuta a comprendere e meditare la drammatica realtà della Passione di Gesù. Per questo il Papa l’ha definita “specchio del Vangelo”


Da E’ vita supplemento di Avvenire di giovedì 31 marzo 2011

«DECIDO IO». MA I CAPRICCI NON DETTANO LEGGE

di Tommaso Scandroglio

Dalla 194 sull’aborto all’ipotesi di eutanasia legalizzata: così un’interpretazione deformata del principio di autodeterminazione ha influito sull’opinione pubblica. E ha distorto la lettura del dettato costituzionale sull’assistenza medica

Un erroneo concetto di autodeterminazione è il minimo comun denominatore di alcuni fenomeni sociali che fanno a pugni con i «principi non negoziabili». Nell’aborto lo slogan «l’utero è mio e decido io» sarà pur vecchio di quaranta anni ma è ancora alla base dell’interpretazione corrente della legge 194. Legge nata dalla pressione ideologica per «tutelare» simile esigenza. Se invece madre natura non dona il bebè tanto desiderato, si pretende di averlo per vie artificiali e inoltre si esige che sia perfetto e che la legge accondiscenda a tutto ciò. Non acconsentire a simili richieste sarebbe ledere la libertà della persona. Oggi infine tocca all’eutanasia: la vita è mia e determino io la soglia minima di apprezzabilità della stessa, i requisiti minimi di sopportabilità per determinare se è degna di essere vissuta. Come negli esempi precedenti si pretende una legge che dia tutela a questa autonomia e che la sacralizzi. Ovvio che in tale prospettiva le Dat non possono che essere vincolanti per il medico perché espressione di un libero volere che non deve conoscere limiti. Tale interpretazione del principio di autodeterminazione però non è proprio condivisibile alla luce della ragione e del diritto vigente. La libertà non può essere intesa in senso assoluto, cioè sciolta da qualsiasi legame. Bensì la nostra libertà è relativa, è agire in relazione a ciò che mi detta la natura umana la quale pretende che si conservi la vita e la salute, mia («no» all’eutanasia) e degli altri («no» all’aborto e alla fecondazione artificiale). Un’autodeterminazione vincolata dunque. Intendere in modo diverso il principio di autonomia significa comprimere e quindi svilire il naturale anelito al bene dell’uomo e non aver compreso la sua intima essenza, così come ricordò Benedetto XVI nell’ottobre del 2008 in occasione del Congresso nazionale della Società italiana di chirurgia: «L’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana». Da ciò discende che le leggi dello Stato devono essere certamente al servizio dell’uomo, ma al servizio del suo vero bene, non delle sue vogliuzze, dei suoi capricci, dei suoi impulsi autolesionisti. Da parte del legislatore ci deve essere perciò un riconoscimento oggettivo delle esigenze naturali dell’uomo: la vita, la salute, la libertà, etc. E un rigetto di tutte quelle condotte che seppur volute dall’interessato stesso vanno a ledere questi suoi diritti indisponibili. Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma l’articolo 32 della Costituzione sancisce il diritto al rifiuto delle cure». Non è così. Il rifiuto di trattamenti sanitari è una mera facoltà di fatto, non un diritto. Vi sono almeno due ragioni a sostegno di ciò. Inprimo luogo l’articolo 32 della Costituzione non sancisce un diritto alla non cura, ma impone un limite alla cure coattive prestate dallo Stato. È una differenza non da poco: porre un «alt» al dovere di cura da parte dei medici non significa corrispettivamente riconoscere un diritto soggettivo a rifiutare le terapie. In secondo luogo la salute è qualificata dall’articolo 32 come «diritto fondamentale». Di conserva discende il fatto che non può esistere un diritto diametralmente opposto a questo, cioè il «diritto fondamentale» alla malattia, alla mancanza di salute. E quindi non ci può essere il diritto ad evitare quelle cure che potrebbero farmi recuperare il mio stato di salute intaccato da una patologia. Se dunque non si può predicare un diritto alla non cura, non esiste parallelamente nessun obbligo giuridico in capo al medico nell’interrompere le cure rifiutate dal paziente. Infatti laddove si predica un diritto ci deve essere un dovere in capo a qualcuno di soddisfare questo diritto. In buona sostanza la persona ha la facoltà di sottrarsi alle cure, ma non pretenda che il medico collabori con lui in questo intento. Puoi buttarti da un cornicione, ma non venire a chiedere che qualcuno ti dia una spinta. A questo punto però viene da domandarsi: il principio di autodeterminazione che fine fa? Il suo ambito di applicazione in realtà è assai esteso. Di fronte a una patologia il medico illustrerà tutte le possibili soluzioni e i rischi connessi. Starà poi al paziente, sostenuto dai familiari, decidere quale strada terapeutica intraprendere, conscio che l’unico limite impostogli è il rifiuto di cure salvavita.


Da Avvenire di venerdì 1 aprile 2011

Nuova legge. Dopo le regioni, strategia nazionale

CONSULTORI, SVOLTA PER IL BENE COMUNE

Dalla Lombardia e dal Lazio la riforma destinata a cambiare il volto dei servizi e dei presidi familiari di Davide Re Presidi multidisciplinari per la tutela e la promozione della famiglia. Realtà caratterizzate da un alto livello di specializzazione in grado di accogliere, consigliare,assistere, accompagnare nuclei familiari, ma anche giovani, anziani, persone segnate dal bisogno e dalla fragilità. Ecco come dovranno diventare i consultori familiari nel progetto di legge nazionale rilanciato ieri a Milano, in un convegno organizzato dalla Confederazione italiana consultori familiari di ispirazione cristiana. Una strategia a centri concentrici che dalla Lombardia e dal Lazio è destinata ad allargarsi alle altre regioni, con l’obiettivo neppure troppo velato di rinnovare la legge nazionale in materia ormai sfaldata e inattuale sotto il peso dei suoi 37 anni d’età. I contorni della nuova legge sono stati tratteggiati dal presidente della Confederazione, l’avvocato Goffredo Grassani, con una premessa importante. La normativa riguarda consultori pubblici, privati e del privato sociale senza scopi di lucro, perché se è vero che la struttura pubblica è «sussidiaria dell’associazionismo», è altrettanto indubitabile che la stessa struttura pubblica non può lasciare spazio ad associazioni incompetenti ed inerti. Non solo, per il consultorio «del nuovo millennio» ci vorrebbe pure un riconoscimento di natura fiscale. In modo da renderlo «indipendente» e in grado di supportare le persone in difficoltà, attraverso la consulenza di professionisti. Presenti alla mattina oltre al presidente del Cfc Grassani e l’assessore lombardo alla Famiglia Giulio Boscagli. Al termine delle relazioni una tavola rotonda, alla quale hanno partecipato Dino Verdolin, Luciano Viana, Olimpia Tarzia, Elda Fainella, Antonio Adorno e Raffaele Cananzi, moderata da Gabriella Moschioni, ha messo in evidenza varie la situazione delle realtà locali. Primo obiettivo della legge è la tutela e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio. I motivi sono evidenti. Oggi una percentuale crescente di matrimoni (dal 40 al 50% nelle diverse regioni) si dissolve nei primi dieci anni e ormai un terzo dei figli nasce fuori dal matrimonio, con derive sociali e culturali pesantissime. Non si tratta di una preoccupazione “confessionale”. La famiglia che si disgrega e non riesce più ad assolvere i suoi obietti primari sul fronte educativo, apre la strada a conseguenze che intaccano innanzi tutto le fondamenta del bene comune. Il secondo obiettivo della legge è quello di valorizzare le associazioni che promuovono la famiglia, con particolare attenzione al bene primario della stabilità familiare. A queste associazioni viene assegnato la qualifica e il ruolo di “istituzioni sociali”, perché impegnate nella tutela, ha spiegato ancora Grassani, dei diritti fondamentali della libertà della persona. Terzo obiettivo, ma non meno importante dei primi due, la funzione educativa attribuita al consultorio, che non significa privare la famiglia da uno dei suoi compiti fondamentali, ma «attualizzare la cultura familiare fondata sulla famiglia, sulla solidarietà intergenerazionale e sui principi di promozione di tutte le condizioni per il pieno sviluppo della persona». E la Lombardia, attraverso il suo sistema sanitario e sociale, è un po’ l’apripista del percorso di riforma che si è intrapreso. «L’idea di fondo – ha detto Boscagli – è la creazione di una rete capillare di supporto alle famiglie, attorno a cui si muovono, operando in stretta collaborazione, tutti i soggetti: dai consultori pubblici e privati, alle Asl». Particolarmente positiva si sta rivelando in Lombardia anche l’esperienza del Fondo Nasko, che fa proprio della collaborazione tra i consultori e i Cav uno dei suoi punti caratterizzanti. «La politica di difesa della maternità è una politica di bene comune – ha concluso Boscagli –, su cui dovrebbero convergere tutte le forze politiche e sociali».


Da E’ vita supplemento di Avvenire di giovedì 31 marzo 2011

MATERNITÀ «DIFFICILI», C’È IL COMUNE di Edoardo Tincani

Una bella notizia per il popolo della vita arriva dalla provin¬cia di Reggio Emilia. Il Comune di Correggio, guidato dal sindaco Marzio Iotti, il 3 marzo ha siglato un accordo che mette risorse pubbliche – 10.000 euro, per il primo anno di sperimentazione – a sostegno delle maternità inattese e difficili, in piena attuazione della legge 194/1978 e della direttiva regionale 1690/2008. A 33 anni dalla legge sull’aborto in Italia, finalmente un passo concreto verso l’attuazione della sua parte preventiva. Il protocollo d’intesa porta la firma dell’as¬sessore Maria Paparo, a nome del Comune e del Servizio sociale integrato, di Giu¬liana Turci per il distretto Ausl e di tre associazioni di volontariato: Movimento per la vita, Caritas e la se¬zione femminile della Cro¬ce Rossa. Questa rete pub¬blico-privato favorirà un percorso per ridurre il ricor¬so all’aborto volontario, se motivato da problemi so¬cio- economici. In secondo luogo, il sostegno alla genitorialità attraverso il «potenziamento delle attività di informazione, orientamen¬to, prevenzione» per la donna e per la coppia, in modo da favorire una maternità consapevole. A Correggio – spiegano i volontari Alfonso Chies¬si e Rita Nicolini, marito e moglie – si è scelto di valorizzare il consultorio, come luogo in cui la donna in difficoltà potrà sentirsi accolta e decidere se farsi accompagnare dai servizi so¬ciali o dalla 'squadra' delle associazioni per la vita. È il coronamento di un lavoro durato oltre quattro anni e portato avanti da persone appassionate che hanno trovato la collaborazione negli interlocutori istituzionali. Beneficiarie del progetto so¬no le donne entro il 3° mese di gravidanza residenti nel territorio correggese che si rivolgono al consultorio familiare con richiesta di Ivg. Da oggi, se quella domanda fosse motivata da preoccupazioni economiche, verrà presentata una gamma di aiuti: il contributo integrativo del reddito dal 4° al 9° mese di gravidanza, quanti¬ficato dal Comune in base al singolo progetto di assi¬stenza socio-sanitaria; l’accompagnamento oltre la nascita del bebè, con sostegno morale alla mamma e poi fornitura di latte, pannolini,vestitini.

Da Avvenire di giovedì 31 marzo 2011 FINE VITA: DIRE SÌ ALLA NORMATIVA SULLE DAT PER UNA LEGGE CHE SIA UTILE DOMENICO DELLE FOGLIE Sì, questa è la stagione in cui per i cattolici è ancor più importante rendere visibile e tangibile la 'cultura della vita'. Una cultura che come cittadini italiani sappiamo di condividere con tanti non credenti, dentro e fuori le aule del Parlamento, nelle corsie degli ospedali come nelle aule scolastiche, nelle stanze dei tribunali e delle università, nelle famiglie come nelle associazioni e nei movimenti, nelle parrocchie e negli oratori come nei circoli, nei media tradizionali come nella rete, nei gruppi di amici e nelle più diverse articolazioni di questa nostra società complessa e post¬moderna. Una 'cultura della vita' che può e deve ispirare – e accompagnare – i passi decisivi della legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) all’esame del Parlamento italiano. Una legge «necessaria e urgente» come ci ha ricordato il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco. Una legge che si rende «necessaria » se, da cittadini consapevoli, ci lasciamo guidare da quel sano principio di realtà che non dimentica quanto è accaduto solo due anni fa in questo Paese: a una persona indifesa furono sottratti acqua e cibo, in forza della sentenza creativa e intrusiva costruita da taluni magistrati. Dimenticare questa drammatica circostanza, o considerarla secondaria, questo sì che sarebbe colpevole agli occhi dei cittadini più avvertiti del valore di ogni singola vita, della sua insostituibilità e non replicabilità. Ecco perché, nel considerare «urgente» una legge che ponga dei limiti a ogni tipo di scorciatoia eutanasica, il pensiero va allo stesso significato del concetto di democrazia, come strumento dei 'moderni' per rappresentare tutti e garantire e tutelare i più deboli. Quando si fa osservare che ai credenti questa legge non aggiunge nulla, perché i credenti difficilmente farebbero ricorso allo strumento delle Dat, se non in funzione positiva, si dimentica che ciascun cittadino ha una responsabilità che travalica il proprio particolare. È que¬sta responsabilità che spinge i credenti anche a servirsi di una legge che 'cattolica' non è, per tutelare gli interessi dei più deboli che a tutti debbono stare sommamente a cuore. Questa legge, infatti, risponde a un forte principio solidaristico, anche nella prospettiva di uno sviluppo sociale che vedrà crescere, a dismisura, la popolazione degli anziani. Uomini e donne che sempre più spesso si troveranno purtroppo a dover affrontare il 'transito' in solitudine, a causa dell’espandersi delle famiglie mo¬nonucleari e dell’assottigliarsi e indebolirsi dei vincoli parentali. Per loro, forte sarà il rischio sia dell’abbandono terapeutico sia dell’accanimento. Di tutto questo un legislatore accorto può e deve farsi carico, proprio nello spirito dell’«alleanza di cura» che si fa espressione tangibile della scelta solidaristica scolpita a chiare lettere nella nostra Costituzione repubblicana. Una legge 'buona e giusta' quella sulle Dat? Si è lavorato al Senato e si sta lavorando alla Camera perché sia così. Ricordiamoci, però, che ogni legge è sottoposta al vaglio delle maggioranze – a volte trasversali, come in questo caso, e comunque transitorie in un regime di alternanza politica. E per tutte le maggioranze, presenti e future, dovrebbe valere il criterio di garantire, a ogni singola legge, una volta approvata, un periodo di rodaggio. È civile e necessario, insomma, che a queste disposizioni non venga riservato il trattamento ostile e la propaganda deformante già riservati, ad esempio, alla legge 40 sulla fecondazione artificiale, altra normativa 'non cattolica' ma accettata dai credenti per chiudere l’era di 'provetta selvaggia'. Abbiamo già visto una parte dell’opinione pubblica, più ideologizzata e meno disponibile ad accettare il voto (trasversale, torniamo a ricordarlo) di un libero Parlamento, allearsi con una frazione della magistratura per tentare di demolire o, comunque, manomettere la legge sin dal giorno seguente la sua entrata in vigore. Chi come noi alimenta con la ragione e le opere la 'cultura della vita', sa di dover innanzitutto agire nella società per diffonderla in modo credibile e convincente. E questo facciamo, senza progettare scorciatoie ed elitarie manovre di potere e di (dis)informazione per far prevalere il nostro punto di vista. Parliamo chiaro e accettiamo il confronto a viso aperto nello spazio pubblico, forti delle nostre ragioni e della richiesta di non cancellare le voci nostre e di malati e disabili. Magari, per qualcuno, politicamente scorrette e scomode. Dalla Redazione del Portaparola Ravenna A RAVENNA IL REGISTRO PER IL TESTAMENTO BIOLOGICO A fine marzo è stato votata l’istituzione del registro della DAT "Il Comune - ha detto l'assessore Piaia della giunta del sindaco PD Matteucci - avrà un registro nel quale i cittadini potranno iscriversi attraverso una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, dando conto di aver redatto una dichiarazione anticipata di trattamento (Dat) e di averla depositata presso una persona di fiducia o notaio. E' questo il risultato di un lavoro svolto in più fasi con la discussione di più ordini del giorno e di una petizione di iniziativa popolare". Il provvedimento ha però spaccato il PD locale la cui componente cattolica ha votato contro l’istituzione del registro. Per Giancarlo Frassineti (Lista civica Per Ravenna) il "testamento biologico e Dat sono contrari alla cultura della vita e sotto questo profilo la delibera è un'iniziativa vana. Tanto più che, fino a quando non ci sarà una legge nazionale, il registro non avrà alcuna utilità pratica. Questa iniziativa è strumentale, inapplicabile e fatta con uno spirito puramente propagandistico". Manifesto Scienza & Vita -Area Tematica 2011/2012 Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia - La democrazia, come concezione politico-sociale e come ideale etico, si fonda sul riconoscimento dei diritti inviolabili di ognuno, indipendentemente da qualsiasi giudizio circa le sue condizioni esistenziali. - Il che corrisponde all’impianto, di straordinario rilievo, definito dagli articoli 2 e 3 della Carta costituzionale, i quali fondano su tale affermazione il principio di uguaglianza, sollecitando all’assunzione dei doveri necessari perché in ogni contesto di vita il rispetto della dignità umana non sia soltanto dichiarato, ma anche concretamente perseguito. - La titolarità dei diritti umani dipende esclusivamente, pertanto, dall’esistenza in vita di ciascun individuo. E la tutela della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento degli esseri umani come uguali nei loro diritti. - “Un’autentica democrazia non è solo il risultato di un rispetto formale di regole, ma è il frutto della convinta accettazione dei valori che ispirano le procedure democratiche: la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei diritti dell’uomo, l’assunzione del bene comune come fine e criterio regolativo della vita politica”. Fondamento della democrazia è, dunque, la rilevanza per l’intero corpo sociale – in pari dignità, diritti e doveri – di ciascun individuo umano, con particolare attenzione per la tutela di coloro che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità, come, per esempio, nello stato di malattia o di diversa abilità. - In altre parole, fondamento della democrazia è la premura verso la realtà esistenziale di ogni essere umano, la quale presuppone il rispetto del diritto alla vita: da assistere (ad-sistere), secondo le potenzialità che ci offre la scienza, nella relazione di cura. - “Ogni giorno ci viene incontro la vita con la sua carica di novità e di sfide, di luci e di ombre. Essa chiede a qualunque età di essere guardata, compresa, accolta con responsabilità. Possiamo dire che educare significa aprire alla vita: vuol dire incontrarla e dialogare con lei”. - La scienza biomedica ci permette di acquisire verità oggettive circa la salute di un dato individuo e di operare per la sua salvaguardia. E’ una ben nobile disciplina, finalizzata a comprendere razionalmente le dinamiche fisiopsichiche della vita umana e a promuovere il benessere di ogni essere umano. Tuttavia l’esaltazione della scienza come forma esclusiva di approccio alla realtà umana ne compromette la fecondità, presentandola come unica modalità interpretativa della vita. - Nell’ambito dell’assistenza sanitaria il supporto delle scienze biomediche e delle biotecnologie è ovviamente indispensabile. Basti considerare gli evidenti e costanti sviluppi che ha prodotto nel campo della diagnostica e della terapia. Ma ciò non basta. E’ necessario che a quel supporto si affianchi il ricorso alla cura, vale a dire al prendersi cura di un essere umano che, nella vulnerabilità propria di uno stato di malattia, manifesta il bisogno di essere aiutato. - Non tutte le malattie sono guaribili, eppure ogni persona malata o in condizioni di grave fragilità è curabile. Nell’assistenza, nel prendersi cura dell’altro, si misura il senso di solidarietà fondato sulla percezione del medesimo almeno come amico morale, la cui vita e il cui ben-essere sono da tutelare e perseguire quali valori imprescindibili. In un tale contesto relazionale di aiuto e di cura ogni persona trova il compimento della dialogicità costitutiva dell’umano: essere con e per gli altri. - Nella relazione di cura, la scienza si coniuga con la cura, l’arte tecnica con l’arte morale, lo scopo con il senso, la libertà con la responsabilità. Responsabilità è appunto farsi carico (rem ponderare) dei bisogni dell’uomo segnato dalla malattia, dalla sofferenza, spesso dalla solitudine e dall’abbandono; significa dare una risposta (respondere) a chi interpella per essere assistito, curato e possibilmente guarito. - Declinare secondo scienza e cura la vita significa educare alla democrazia, allo sviluppo della persona nella sua totalità. http://www.scienzaevita.org/ Da Tempi.it del 2 Aprile 2011 A PROVA DI BAMBINO. HO LETTO “LA BEATIFICAZIONE DI GIOVANNI PAOLO II” Un libro dedicato ai bambini, “La Beatificazione di Giovanni Paolo II”, arricchito da bellissime fotografie e dalle parole di papa Wojtyla di Annalena Valenti Un bellissimo libro, con molte fotografie, agile, 48 pag., e dal prezzo davvero contenuto (sei euro), in un originale formato quadrato 15x15. Dedicato soprattutto, ma non solo, ai bambini, esordisce con l’annuncio, da parte di Benedetto XVI, della Beatificazione del suo amato predecessore: “Siamo felici!”. Il libro ripercorre brevemente la vita di Karol Wojtyla: lo sport, il teatro, il seminario, la sua elezione a Papa, i viaggi apostolici con tanto di numeri e pallini rossi segnaletici che hanno fatto e faranno la felicità di certi bambini curiosi. La speciale predilezione per i giovani, che lo porta a istituire le Giornate Mondiali della Gioventù, e per i bambini “Conto su di voi”. L’attentato subito, il suo rapporto con i Movimenti Ecclesiali, e poi, poco dopo la morte, il miracolo accaduto per sua intercessione. Il libro, che è un intrecciarsi di notizie, anche in numeri da record per viaggi e per santi e beati proclamati, è arricchito da bellissime fotografie e da alcune delle parole pronunciate da papa Wojtyla, tra cui quelle con cui comincia il suo Pontificato e che il suo successore, papa Benedetto XVI, riprende. Parole con cui il libro si apre e si chiude: “Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo”. YOUCAT - Sussidio al catechismo della Chiesa cattolica per i giovani «I libri hanno valore se guidano alla vita, se sanno servirla. È sprecata ogni ora di lettura se da essa non scaturisce per il lettore una scintilla di energia nuova, un senso di rinnovamento, un alito di nuova freschezza». Un libro che non si accontenta della superficie della vita ma che vuole essere a servizio della storia e della realtà che viviamo, un buon libro che ci permette di capire nel bene e nel male chi siamo, ci rende coscienti dei segreti della nostra anima, ci svela orizzonti che da soli non sapremmo raggiungere. Le 300 pagine di YOUCAT sono originali fin dalla copertina: un giallo vivace con il titolo bianco che campeggia verso i tre quarti, mentre sullo sfondo sbalza una grande Y fatta da tante piccole croci dalle molte e varie fogge. Forte il richiamo alla bandiera vaticana, ai colori del Papa, e l’ammiccare fin da subito alla galassia di Internet, dove molti degli interlocutori di questo testo passano buona parte del loro tempo. Il nuovo catechismo dei giovani, tra l’altro, sarà nella sacca del pellegrino – in almeno sette lingue – delle centinaia di migliaia di giovani che quest’estate – dal 16 al 21 agosto – parteciperanno alla GMG (Giornata mondiale della gioventù) di Madrid, con un prevedibile festoso anticipo nella prima consegna la domenica della Palme, il 17 aprile. Un’esperienza collettiva di Chiesa che non potrà non lasciare il segno. YouCat è l'acronimo di Youth Catechism. Uno strumento di 300 pagine creato e pensato “da e per” i giovani che vogliono approfondire la fede della Chiesa. Nato nell’ambito della Conferenza episcopale austriaca, il lavoro ha avuto la supervisione del cardinale di Vienna Christoph Schönborn, coinvolgendo teologi, esperti di catechesi e un gruppo di cinquanta giovani. Tredici le lingue in cui verrà pubblicato, il testo verrà accompagnato dalla premessa di papa Benedetto XVI - di cui abbiamo offerto uno stralcio in anteprima-, riunendo idealmente nella condivisione della propria fede i giovani di diverse culture e di diverse parti del mondo. Il volume, dalla copertina di colore giallo ed una “Y” composta da croci di diverse fogge, è suddiviso al suo interno in quattro sezioni: «Che cosa crediamo»; «La celebrazione del mistero cristiano»; «La vita in Cristo» e «La preghiera nella vita cristiana». Una sfida alla diffusa opinione che troppo spesso considera i giovani ovattati dalla superficialità e intorpiditi dalla modernità. Sono in molti, invece, i ragazzi che si interrogano sulla ricerca autentica di un senso delle vita, sulla fede, e conoscere può aiutare a restare saldi e ad avere forza di fronte alle sfide del tempo: «dovete conoscere quello che credete – continua Benedetto XVI nella premessa -; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista conosce il sistema operativo di un computer».