sabato 24 aprile 2010

PORTA PAROLA 24 APRILE 2010

Da Avvenire di martedì 20 Aprile 2010
Nel V anniversario dell’elezione, collegio cardinalizio e popolo cristiano stretti a Benedetto XVI
A Malta il commosso incontro con le vittime degli abusi: vergogna e dolore per quanti hanno sofferto
Abbraccio corale al Papa
Preghiere per lui in tutte le chiese d’Italia

NEL CUORE DEL PONTEFICE
DOLORE E SPERANZA COME DI «NAUFRAGIO»

MARINA CORRADI
Uno degli otto che a Malta hanno incon­trato Benedetto XVI e faccia a faccia gli hanno raccontato la loro storia di bambini violati ha detto che il Papa ha pianto, nell’a­scoltare. Segreto e riservatissimo l’incontro, nessuna telecamera si è allungata a cogliere l’istante in cui la compassione, il cum - pa­tere, soffrire insieme, traboccava sul viso di Benedetto XVI. Lo ha testimoniato solo, me­ravigliato, un visitatore: «ll Papa ha pianto con me».
Piangere, e soprattutto davanti ad altri uo­mini, non è abitudine dei grandi della Terra. Se mai succede, lo fanno da soli, perché nes­suno veda ciò che comunemente è inteso co­me stigma di confusione e debolezza. «Ver­gogna », e senso di «tradimento» sono le e­spressioni che lo stesso Benedetto ha usato nella Lettera ai cattolici d’Irlanda. Però non c’è, in quella sofferenza trapelata a Malta, so­lo il dolore del male, né solo senso di sconfitta.
In volo verso l’isola dove Pao­lo fece naufragio, il Papa ha detto ai giornalisti: «Pen­so che il motivo del naufragio parli per noi.
Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede. Così anche noi possiamo pen­sare che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio e possono essere utili per nuovi inizi nella nostra vita».
Singolare, straordinaria cristiana lettura di ciò che, normalmente, gli uomini chia­mano semplicemente disgrazia, o colpa, ma in ogni caso identificano in un pu­ro male, come il rivoltarsi di un avverso de­stino. I marinai della nave di Paolo, in balia del Mediterraneo, alla deriva in un orizzonte sen­za approdi, maledivano probabilmente il giorno in cui erano partiti – il giorno in cui un Caso maligno li aveva arruolati in quella im­presa. Paolo invece, lo ha ricordato il Papa, e­ra certo: «Ci dovremo imbattere in un’isola». Spezzata la rotta per Roma, pure non dubi­tava che anche quel naufragio fosse disegno di Dio. Il fondo della sventura, la nave sfa­sciata dalle onda e l’equipaggio miserabil­mente approdato sugli scogli: eppure Paolo era convinto che non fosse la fine, ma un al­tro inizio. (Non è quasi mai così, fra gli uomi­ni. Di fronte a una dura sconfitta molti si i­steriliscono nella rabbia. I più si rassegnano, amari. Qualcuno si ribella fino a voler mori­re. Non è cosa del mondo, questo modo di guardare a un naufragio: come al germoglia­re di un seme selvatico, non seminato, e che tuttavia spunta in un giardino).
Già almeno una volta Benedetto XVI ha usa­to questa espressione, naufragio. «Senza un morire – ha scritto nel 'Gesù di Nazaret' – senza il naufragio di ciò che è solo nostro, non c’è comunione con Dio, non c’è redenzione». Dicendoci che il nostro progetto, anche il mi­gliore, non è necessariamente quello di Dio, che strappò le vele alla nave di Paolo, a Mal­ta. Dicendo che il fallimento accettato nella conversione può essere fertile di vita nuova. Che non ci salviamo da noi, ma veniamo sal­vati da Cristo.
Che sguardo 'altro', e che altra prospettiva, mentre ancora i titoli dei giornali stanano e inseguono accaniti vicende di preti colpevo­li – quasi soddisfatti che anche gli uomini di Dio siano a volte miserabili come gli altri. «Il Papa ha pianto», ha detto un ex bambino vio­lato a Malta. Lo ha detto meravigliato e com­mosso; perché ha visto in faccia al Papa vero dolore. Eppure, insieme, una assoluta, ferrea certezza di un bene, tuttavia, perfino di quel male più grande.

Da Avvenire di martedì 20 Aprile 2010
RICERCA: TRA I 18 E I 29 ANNI CRESCE L’IMPORTANZA DELLA RELIGIONE
Oggi la presentazione a Novara del rapporto Iard su giovani e fede Uno su due si dice cattolico
Un ragazzo su due si dichiara apertamente cattolico: il 52,8 per cento dei giovani italiani di età compresa tra i 18 e i 29 anni.
Lo rileva una ricerca realizzata dall’Istituto Iard che, su commissione della diocesi di Novara, nell’ambito del progetto «Passio 2010», ha indagato sul rapporto che le nuove generazioni di italiani hanno con la fede. Il lavoro verrà presentato oggi nella città piemontese. La ricerca evidenzia un calo del 14 per cento in sei anni: nel 2004 era infatti il 66,9 a dichiararsi cattolico.
A questa riduzione non corrisponde, però, una riduzione netta di chi ritiene importante la religione per la propria vita: si scende appena del 3 per cento. Anzi, lo Iard registra un leggero aumento di chi la definisce «molto importante» (l’incremento è dell’1,8 per cento). In generale, alla fede viene riconosciuta una funzione di sostegno sia psicologico che relazionale e di guida (offre un senso, dà speranza). La fiducia nella Chiesa diminuisce tra i non credenti (soltanto il 2 per cento la definisce «alta» o «molta alta») e si affievolisce tra i praticanti, attestandosi al 39 per cento. Le rilevazioni sono state effettuate nella seconda metà di marzo, su un campione di mille giovani, rappresentativi delle differenti realtà del nostro Paese. Rispetto alle recenti indagini, e in particolare a quella del 2004, si rafforza la religiosità del «fai-da-te». Dall’altro si assiste a una «polarizzazione» delle scelte: chi è cattolico è sempre più convinto; quanti non lo sono mai stati dimostrano una distanza maggiore dalla Chiesa.


PREGHIERE per i «naviganti» di Marco Sanavio
Trasformare un testimone estremamente concre­to come don Lorenzo Milani in un testimone di­gitale? Si può tentare, attraversando epoche e gene­razioni a colpi di mouse. Dal sito www.wverdi.it è pos­sibile scaricare il programma «Barbiana virtuale», gra­tuito sino al primo livello, un modello tridimensio­nale dei celebri locali della scuola di don Milani na­vigabile tramite avatar e corredato da commenti au­dio. La diocesi di Pistoia, invece, ha scelto come luo­go di testimonianza digitale un blog collegato al sito (diocesipistoia.wordpress.com) tra le cui righe pos­siamo trovare anche la preghiera per i naviganti di Facebook a firma di Patrizio Righero. Anche la pa­storale vocazionale può essere filtrata dalla testimo­nianza digitale, come dimostrano concretamente al­cuni alunni del Seminario teologico di Molfetta che hanno scelto tra i luoghi di ascolto e incontro il sito www.ricercati.tk accanto a un vivace profilo Facebook.

Da Avvenire di venerdì 23 Aprile 2010
GIOVANI, QUANDO LA REALTÀ È PIÙ FORTE DELLE PREDICHE
UN SACCHETTO DI ARANCE PER L’EMERGENZA EDUCATIVA
GIORGIO PAOLUCCI
Emergenza educativa: un fenomeno sulla bocca di tutti. Si levano alti lai nei confronti di 'questi ragazzi che ne combinano di tutti i colori, e non sai più come gestirli'. Si sprecano analisi e denunce, scarseggiano i rimedi Quello su cui (quasi) tutti concordano è che, dopo l’epoca del 'vietato vietare', è necessaria più severità.
Tradotto: insegnanti e genitori devono diventare i poliziotti della gioventù. Bisogna tornare a punire come un tempo, altrimenti la situazione diventa ingovernabile. Ma può bastare l’adulto-sceriffo? Un episodio di cui siamo stati testimoni pochi giorni fa aiuta a rispondere agli interrogativi che molti si pongono senza trovare risposte convincenti.
Studenti di terza media in gita a Firenze, sosta per il pranzo al sacco davanti al monastero di San Marco. Dopo essersi sfamati, cominciano a lanciarsi i panini avanzati e a sbriciolare le merendine, si spruzzano addosso l’acqua delle bottigliette, mentre un gruppo improvvisa una partitella di calcio con le arance rimaste nei sacchetti. Urla, risate sardoniche, tra lo sconcerto e la disapprovazione dei passanti: ma i genitori, cosa insegnano a casa a questa gente? E i professori, i professori che fanno?
Accade un fatto imprevisto: due insegnanti raccolgono le arance avanzate e le mettono in due sacchetti, altri due vengono riempiti di panini, poi si raccolgono le bottigliette d’acqua sparpagliate a terra.
Chiamano quelli che giocavano a calcio e li invitano a seguirli.
«Cosa c’è? Non abbiamo fatto niente». «Non preoccupatevi, venite con noi». Insieme vanno davanti alla loggia dell’Ospedale degli Innocenti, poco lontano, dove bivaccano alcuni anziani clochard.
Un insegnante avvicina quell’umanità dolente e chiede: «Volete qualche panino? Non vi offendete?» Sui volti di quegli uomini si accende un sorriso, le mani si allungano verso i sacchetti. «Serve anche dell’acqua?». «No grazie, ne abbiamo ancora un po’». Ma come, avrebbero potuto farne scorta… e invece no, può servire ad altri. Dal colonnato spunta una donna malvestita, gli occhi scavati e lo sguardo fiero: «Ho sei bambini, sei… posso averne un po’ anch’io?». Restano da distribuire le arance, e gli sguardi dei barboni s’illuminano: «Che meraviglia, la frutta!».
I due prof tornano verso il monastero di San Marco, seguiti dai ragazzi che si guardano tra loro quasi increduli, gli occhi bassi, e commentano: «Ma hai visto quello come ha preso le arance? E quell’altro che non ha voluto la bottiglietta d’acqua?». La bravata da cui tutto era nato ha lasciato il posto allo stupore per qualcosa di grande di cui erano stati testimoni e involontari protagonisti. Qualcosa di più grande della loro inettitudine che ha reso evidente, nell’impatto con la domanda presente in quell’umanità bisognosa, la piccolezza del loro comportamento.
La realtà insegna più di tante prediche sui valori. Basta saperla guardare con occhi sinceri. Ma per questo ci vuole qualcuno che educhi a guardarla così. Qualcuno capace di prendere per mano dei ragazzi che, prendendo a calci le arance avanzate dal loro pranzo, prendono a calci la loro vita. E che della vita possono riscoprire il significato e il valore avendo davanti agli occhi qualcuno che non si aspettavano. Quei due insegnanti si sono risparmiati l’ennesima e prevedibile ramanzina, hanno fatto lezione fuori dalla classe. Una lezione di vita fatta di poche parole e di un gesto capace di risvegliare domande che ognuno si porta nel cuore.
E così hanno conseguito un piccolo-grande traguardo educativo che nessuno 'sceriffo' avrebbe saputo conseguire.

Da Tempi del 22 Aprile 2010

GLI ABUSI CHE NON FANNO SCANDALO di Giulio Meotti
Sperimentazioni di anticoncezionali e pianificazione familiare forzata hanno fatto crollare il tasso di fertilità delle donne di Porto Rico. “Merito” di programmi che dagli anni Venti entusiasmano il New York Times

Per loro non c’è stata alcuna richiesta di risarcimento. Nessuno al New York Times si è stracciato le vesti per quei giovanissimi corpi violati, feriti e marcati per sempre. Nessun grande avvocato liberal ha portato in giudizio gli esecutori e i finanziatori di questa strage silenziosa. A Porto Rico un terzo delle donne in età fertile è stato sterilizzato. È l’isola con il più alto tasso al mondo di donne che non possono avere figli. In America si assiste da settimane a una nuova puntata della “Mani pulite di Dio”.
Sono le inchieste sulla pedofilia nella Chiesa cattolica. Ma a fronte degli abusi sessuali sui minori da parte di sacerdoti, che stando alle ultime ricerche indipendenti sarebbero meno dello 0,5 per cento del totale di abusi in tutta l’America, ci sono legioni di donne e bambine americane e caraibiche sterilizzate senza approvazione. Spesso senza neppure che lo sapessero.
E di questo capitolo oscuro della medicina contemporanea il New York Times, che oggi tira le fila dell’attacco durissimo alla Chiesa cattolica sulla pedofilia, è stato una bandiera. Lo descrive bene Fatal Misconception, la prima storia globale del controllo della popolazione, pubblicato dalle prestigiose edizioni di Harvard a firma dello storico liberal Matthew Connelly. Il Wall Street Journal ha scritto che per la prima volta uno studio storico serio fa luce sui disastri della “filantropia biologica”.
Nella piccola isola cattolica di Porto Rico arrivarono legioni di umanitaristi, medici, industriali, femministe e progressisti per trasformare la cinquantunesima “stella” degli Stati Uniti in un laboratorio della contraccezione di massa. E il New York Times allora stava orgoglioso dalla parte degli sterilizzatori perché l’editore di famiglia, i gloriosi Sulzberger, erano nel board della Fondazione Rockefeller che finanziava sul campo il malthusianesimo a Porto Rico.
Quando negli anni Venti dall’Inghilterra piovvero critiche sui programmi statunitensi di sterilizzazione degli “inadatti a vivere”, il quotidiano se la prese con l’“attacco inglese alla nostra eugenetica”.
Eugenetica che il New York Times non esitò a definire una fantastica “nuova scienza” (come denunciò anche lo scrittore G. K. Chesterton) e che era foraggiata dalla Rockefeller Foundation. L’ultimo stato che ha rimosso le leggi eugenetiche è stata la Virginia nel 1979. E proprio il New York Times aveva descritto le sterilizzazioni della Virginia come “estinzioni graziose”.
Sul numero del 22 gennaio del 1934 i consulenti del ministero dell’Interno nazista lodavano il «buon esempio fornito dagli Stati Uniti». Era l’anno in cui Hitler avviava la sua politica di eugenetica di massa, che avrebbe portato alla morte di 70 mila persone in diciotto mesi. Malati di mente, “promiscui”, albini, alcolizzati, talassemici, epilettici, tantissimi immigrati, dagli irlandesi agli italiani del sud, afroamericani e messicani.

Centomila persone sacrificate
Eccole le vittime della sterilizzazione negli Stati Uniti. E parliamo di 100 mila esseri umani. Donne afroamericane, donne indioamericane, donne sudamericane e donne bianche povere inglobate in programmi di sterilizzazione obbligatori. Un vero e proprio asse del male composto da organizzazioni umanitarie, filantropiche, educative, scientifiche e demografiche. La divisione del lavoro è stata geografica e funzionale: la sezione demografica dell’Onu ha fatto della “popolazione mondiale” un fatto politico, la Fondazione Rockefeller ha fornito ricercatori e fondi, il Population Council ha creato nuovi contraccettivi e insieme alle università e alle Nazioni Unite ha educato nuovi “esperti”, mentre il New York Times tesseva gli elogi dell’eugenetica.
Quando Indira Gandhi divenne prima ministro dell’India, nominò suo figlio Sanjay responsabile del controllo delle nascite sotto l’egida dell’Onu e del Population Council di Rockefeller. Le donne venivano sequestrate, deportate in massa, piegate con la forza alla sterilizzazione, in nome di teorie partorite a migliaia di chilometri di distanza, a Washington, a Londra, a Stoccolma. Nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite.
A Porto Rico la sterilizzazione delle donne era così diffusa che veniva genericamente chiamata “la operacion”. E nessuno al New York Times protestò quando si scoprì che il dottor Pincus scelse proprio Porto Rico come laboratorio per la sperimentazione della pillola anticoncezionale. Si scoprirà che un terzo delle donne portoricane non era a conoscenza della sterilizzazione. Il New York Times non ha mai smesso di strizzare l’occhio all’eugenetica. Pochi mesi fa in un’eloquente intervista al quotidiano Ruth Bader Ginsburg, l’unico giudice donna della Corte Suprema degli Stati Uniti, ha detto: «Francamente ero convinta che ai tempi della decisione Roe (sentenza che legalizza l’aborto in America, ndr) vi fosse preoccupazione per la crescita demografica e in particolare per la crescita della parte più indesiderata della popolazione». Nel board of trustees della Rockefeller Foundation l’editore del New York Times, il signor Arthur Sulzberger, è stato una voce importante dal 1939 al 1957, negli anni in cui l’eugenetica ha mostrato il suo volto più sanguinario e totalitario. Si dà il caso che la fondazione Rockefeller abbia finanziato gran parte delle campagne per la sterilizzazione in America.

La sintonia col nazismo
Non furono i nazisti infatti a ideare le camere a gas. Fu (prima della conversione al cristianesimo) il premio Nobel Alexis Carrel (1873-1944), autore di L’homme, cet inconnu, il quale diceva che «criminali e malati di mente devono essere umanamente ed economicamente eliminati in piccoli istituti per l’eutanasia, forniti di gas. L’eugenetica è indispensabile per perpetuare la forza.
Una grande razza deve propagare i suoi migliori elementi. L’eugenetica può esercitare una grande influenza sul destino delle razze civilizzate ma richiede il sacrificio di molti singoli esseri umani». Ricercatore presso il Rockefeller Institute for Medical Research, Carrel abbracciò l’eugenetica nazista in una lettera del 7 gennaio del 1936, quando alla Rockefeller siedevano già i membri della famiglia Suzlberger: «Il governo tedesco ha preso energiche misure contro la propagazione dei difettosi, contro le malattie mentali e i criminali. La soluzione ideale sarebbe la soppressione di questi individui non appena abbiano dimostrato di essere pericolosi».
La Rockefeller Foundation finanziò anche molti ricercatori tedeschi. Tra di essi il dottor Ernst Rudin, che avrebbe organizzato lo sterminio medico degli handicappati ordinato da Adolf Hitler. E uno dei direttori del New York Times, Eugene Black, da membro della Rockefeller divenne cofondatore del Population Council, l’organizzazione americana di ricerca che ha portato avanti molte campagne per la sterilizzazione di popolazioni indigene nel mondo. Compresa Porto Rico. La famiglia Sulzberger era generosamente impegnata a finanziare anche le attività di Margaret Sanger, la quale venne così incensata da Orson Wells nel 1931: «Quando la storia della nostra civiltà sarà scritta, sarà una storia biologica e Margaret Sanger la sua eroina». Il nome Sanger è il collante fra eugenetica e femminismo. Fondatrice della American Birth Control League (1916) e della International Planned Parenthood Federation (1952), diresse una rivista, The Birth Control Review, che divenne col tempo il più importante laboratorio teorico per la selezione della specie, al grido di slogan come «noi preferiamo la politica della sterilizzazione immediata per garantire che la procreazione sia assolutamente proibita ai deboli di mente».
Sanger costruì la sua prima clinica per il controllo delle nascite nel quartiere di Brownsville a New York, uno dei più poveri della città. Così poteva estirpare meglio “il peso morto dei rifiuti umani”. La sua eredità è arrivata fino a noi. Fu Sanger a procurare i finanziamenti a Gregory Pincus per la ricerca anticoncezionale. E Pincus la sua pillola andò a sperimentarla sui “negri” di Porto Rico.
Mentre oltreoceano Papa Paolo VI metteva a punto l’enciclica Humanae Vitae che condannava proprio l’antinatalismo praticato nella sperduta isola caraibica. È così che si chiude uno sconosciuto e tragico ciclo che coinvolge il più rispettato giornale d’America, le più note e ricche famiglie della East Coast, interi pezzi della medicina del Novecento e una piccola isola dei Caraibi, che a oggi vanta non soltanto il miglior Pil della regione, ma anche il più alto tasso al mondo di donne sterilizzate.

Da Tempi del 22 Aprile 2010
Qualche quesito ai megafoni del Nyt di Amicone
Ecco le domande che emergono dalla ricostruzione di Meotti e dalla testimonianza del portoricano Albacete: che ne è delle donne che tra la metà del secolo scorso e la fine degli anni Settanta (giusto gli anni oggi rivangati per i casi di pedofilìa nella chiesa cattolica) sono state abusate per sperimentare sui loro corpi gli effetti di ogni genere di anticoncezionale e sterilizzate in massa a loro insaputa?
Chi sono gli autori di questa orrenda pagina della storia contemporanea che nella sola Portorico conta almeno 100 mila vittime?
Che ruolo ha avuto nel “genocidio” sessuale e riproduttivo di centinaia di migliaia di donne nere e papiste del continente sudamericano l’editore di quel New York Times che oggi dirige l’assalto del circuito mediatico internazionale contro papa Ratzinger?
E come si spiega che coloro i quali hanno di fatto imposto alla Chiesa cattolica scotti miliardari (si pensi che solo l’arcidiocesi di Los Angeles ha versato risarcimenti per 774 milioni di dollari), non hanno scucito un solo penny alle centinaia di migliaia di vittime dei programmi genocidari delle fondazioni “liberal”?
E ancora, con che faccia quegli stessi “liberal” che chiedono alla chiesa di coprirsi costantemente di cenere non hanno mai osato neppure dubitare della “democraticità” dei loro misfatti a Portorico?
Ecco un promemoria per la Bibbia del giornalismo progressista. E per i suoi fan italiani che le campagne del giornale dei Sulzberger copiano e incollano come cagnolini addomesticati che camminano scodinzolando davanti al padrone con il Nyt in bocca.

Da Avvenire di venerdì 23 Aprile 2010
Rai e Cei insieme per portale web
Da oggi on line sul sito religionecattolica.rai.it news e filmati d’archivio

Da oggi è online il portale
www.religionecattolica.rai.it, promosso da RaiNet in collaborazione con l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana.
Lo spazio web multimediale riguarda le rubriche religiose del palinsesto Rai e l’informazione prodotta dalle redazioni giornalistiche sugli eventi ecclesiali. Documenti del magistero, notizie, eventi ecclesiali, iniziative di solidarietà arricchiscono il portale grazie alla collaborazione con lo staff del sito internet
www.chiesacattolica.it. Il portale tematico fornirà così agli utenti di Internet un nuovo spazio multimediale di approfondimento e riflessione dedicato alle principali espressioni religiose presenti nel nostro Paese. «Il portale segnala l’intenzione della Chiesa italiana per un linguaggio di cui si avverte il bisogno affinché l’informazione e la comunicazione intorno al fatto religioso siano tempestive, efficaci, multimediali», ha sottolineato monsignor Domenico Pompili, sottosegretario e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei. Per l’ad di RaiNet e direttore di Rai Nuovi Media, Piero Gaffuri: «Siamo lieti di poter supportare gli obiettivi di comunicazione multimediale della Chiesa cattolica, attraverso la ricca offerta editoriale di natura religiosa della Rai.
E il web Rai, che registra ogni mese oltre 7 milioni di utenti unici, è il mezzo che maggiormente si presta a un’informazione completa e puntuale».
www.religionecattolica.rai.it www.chiesacattolica.it

Da Avvenire di Domenica 18 aprile 2010
Torino, oltre 170mila per venerare la Sindone
Da record il numero dei fedeli nella prima settimana di Ostensione 200 giovani, trenta chilometri a piedi di notte meditando il Vangelo

DA TORINO FEDERICA BELLO
Mantelli di velluto rosso, lunghe tu­niche bianche, medaglioni argen­tati.
Oltre 3.000 membri di 156 confraternite provenienti da tutta Italia sono sfilati nella tarda mattinata di ieri di fronte alla Sindone per il pellegrinaggio promosso dalla Confraternita del Santo Sudario di Torino. Questa notte si sono in­vece incamminati da Sant’Ambrogio di Susa verso Torino, 200 giovani, dai 16 an­ni in su, che hanno aderito alla proposta di pellegrinaggio «a piedi e in notturna» or­ganizzato dalla Pastorale giovanile della diocesi di Susa. Trenta chilometri medi­tando il brano evangelico dei discepoli di Emmaus, per giungere a Torino per la celebrazione della Messa domenicale da­vanti alla Sindone in Duomo alle 7.
Sono solo alcuni dei tantissimi e variega­ti gruppi di pellegrini che hanno caratte- rizzato la prima settimana di Ostensione che ha visto l’afflusso di oltre 170 mila per­sone da tutto il mondo. Stranieri, ma an­che immigrati che da anni vivono in Ita­lia, come i 1.100 che sempre nella giorna­ta di ieri, metà nelle prime ore del matti­no e metà nel pomeriggio, hanno com­piuto il pellegrinaggio organizzato dal­l’Ufficio diocesano torinese per la pasto­rale dei migranti. Tantissimi i bambini: dai più piccoli che di fronte alla Sindone vor­rebbero toccarla, agli studenti delle scuo­le elementari e medie (numerose le clas­si soprattutto lo scorso mercoledì matti­na) che si erano fatti un’idea della Sindo­ne dalle spiegazioni degli insegnanti e di fronte al Telo rimangono a bocca aperta o, all’uscita del percorso, discutono animatamente sulle prime impressioni. Qualche centinaio gli ortodossi – tra loro l’arcive­scovo Veniamin della diocesi di Vladivostock che ha visitato la Sindone giovedì scorso – provenienti per la maggior parte dall’Est europeo dove soprattutto negli ul­timi anni, grazie all’opera dell’associazio­ne torinese « Amici delle Chiese d’Orien­te » ( Amcor) si è molto diffusa la cono­scenza e la venerazione della Sindone. In 970 tra ammalati e disabili hanno com­piuto mercoledì pomeriggio il percorso a loro riservato, accompagnati da volonta­ri appositamente formati. Tra le diocesi: Vienna, Loreto, Palestrina, Spoleto- Nor­cia, Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino. Pellegrinaggi diocesani e parrocchiali che caratterizzeranno anche la prossima set­timana: tra cui rappresentanze delle dio­cesi di Alghero, Avignone, Bologna con la guida del cardinale Carlo Caffarra sabato prossimo. Dall’apertura dell’Ostensione « boom » di prenotazioni: nell’arco di soli due giorni, 100 mila le richieste arrivate attraverso il sito internet www.sindone.org che hanno portato a quota 1.634.668 i posti riservati, di cui 1.495.096 dall’Italia.
www.sindone.org

Da Avvenire di giovedì 22 Aprile 2010
È IL GIORNO DEI «TESTIMONI DIGITALI»
Molte le iniziative attivate in vista del convegno della Chiesa italiana per coinvolgere il «popolo» del web Multimedialità e interattività per far crescere nella comunità credente la consapevolezza del «potenziale» evangelizzatore delle nuove tecnologie VINCENZO GRIENTI

Multimedialità e interattività, ma anche incontro, dibattito e confronto face to face caratterizzeranno il convegno «Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale» che si apre oggi a Roma.
Oltre 1300 partecipanti provenienti da 180 diocesi italiane, più di 250 operatori dell’informazione accreditati, 25 relatori si ritroveranno all’Hotel Summit dopo otto anni da Parabole mediatiche. Circa 8mila persone sono attese, invece, all’udienza in Aula Paolo VI con Benedetto XVI sabato 24 aprile. Tutte le sessioni dell’evento saranno trasmesse in diretta on line dal sito internet
www.testimonidigitali.it che da oggi cambierà interfaccia grafica. Nel corso dell’ultima settimana sono cresciuti i numeri degli accessi al sito curato dallo staff di chiesacattolica.it in collaborazione con il Servizio informatico della Cei e la Seed Edizioni Informatiche. Più di 450mila infatti sono gli accesi al sito internet del convegno dal 24 gennaio scorso ad oggi con 63mila utenti unici. Il Gruppo ufficiale del convegno su Facebook curato da Andrea Mameli del corso per Anicec per Animatori della comunicazione e della cultura ha superato i 450 iscritti mentre il canale YouTube nell’ultima settimana è stato visitato da 650 utenti. Nel corso del convegno sarà attivato anche un apposito spazio su Twitter che rilancerà con i suoi 'cinguettii' i momenti salienti dell’incontro nazionale. Sarà poi implementata la sezione audio-video 'alimentata' dai servizi radiofonici e televisivi di Tv 2000 e Radio InBlu, e dagli speciali dell’Agenzia Sir diretta da Paolo Bustaffa. Il nuovo sito internet è caratterizzato da un design fresco, usabile e immediatamente accessibile, che unisce alle pagine web convenzionali (come quella dell’ufficio stampa dalla quale è possibile a giornalisti e operatori dell’informazione accreditarsi on line) l’area mediacenter corredata da diverse sezioni: DigitNews, dove è possibile sfogliare l’ultimo numero del periodico free press di attualità telematica; RadioDigit, la web radio curata in collaborazione con l’Associazione WeCa (webmaster cattolici) e la sezione 'rassegna stampa' con la segnalazioni di articoli riguardanti il convegno.
L’interattività del sito emerge grazie anche a una community, moderata da Saverio Simonelli, vice caporedattore di Tv2000 e dall’area Wiki curata da don Paolo Padrini, ideatore di I-Breviary. Tra le novità di questi giorni anche il restyiling del portale
www.religionecattolica.rai.it promosso da RaiNet in collaborazione con l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei.
www.testimonidigitali.it

venerdì 23 aprile 2010

Il Vangelo di Domenica

Mosaico nel Mausoleo di Galla Placidia Ravenna

Gesù offre all’uomo la vita eterna IV Domenica di Pasqua Anno C

In quel tempo, Gesù dis­se: «Le mie pecore ascol­tano la mia voce e io le conosco ed esse mi se­guono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla ma­no del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Le mie pecore ascolta­no la mia voce. A­scoltare: il primo di tutti i servizi da rendere a Dio e all’uomo è l’ascolto. Il primo strumento per tessere un rapporto. A­scoltare qualcuno è già dirgli: tu sei importante, tu mi interessi. Amare è a­scoltare.
Pregare è ascol­tare Dio. Ma perché la Sua voce merita di essere a­scoltata? Gesù risponde: perché io do loro la vita eterna. Ed è importante, per una volta almeno, fer­mare tutta l’attenzione proprio su quanto Gesù si impegna a fare per noi. Lo si fa così raramente.
Tutti sono lì a ricordarci i no­stri doveri, a richiamarci all’impegno, allo sforzo per far fruttare i talenti, per mettere in pratica i comandamenti. Molti cri­stiani rischiano di scorag­giarsi perché non ce la fanno. Ed io con loro. E allora è bene, è salute dell’anima, respirare la forza che nasce da queste parole di Gesù: io do loro la vita eterna. Vita per sempre, senza condizio­ni, prima di tutte le mie risposte; vita di Dio che è donata, riversata dentro, come un seme che inizia a muoversi, se appena mi avvicino un po’ al Signo­re.
«Nessuno le strapperà dalla mia mano». Notia­mo la forza di questa pa­rola assoluta: nessuno. Subito raddoppiata: nes­suno le strapperà mai dal­la mano del Padre. Nes­suno ci porterà via dalle mani di Dio. Il nostro de­stino è inseparabile da quello di Dio. La vita eter­na è un posto fra le mani di Dio.
Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani, co­me bambini ci aggrappia­mo forte a quella mano che non ci lascerà cadere, come innamorati cer­chiamo quella mano che scalda la solitudine, come crocefissi ripetiamo: nel­le tue mani affido la mia vita.
Le mani di Dio. Mani di pastore contro i lupi, ma­ni impigliate nel folto del­la vita, mani che proteggono la mia fiamma smorta, mani che scrivo­no nella polvere e non lanciano sassi a nessuno, mani che sollevano la donna adultera, mani inchiodate in un abbraccio che non può terminare, e poi offerte perché io ci ri­posi e riprenda il fiato del coraggio.
Dalla certezza che a Dio l’uomo importa inizia l’avventura di coloro che vogliono, sulla terra, custodire e lottare, camminare e liberare. Anche a noi l’uomo importa. Cia­scuno pastore di un minimo gregge: hanno nomi e cognomi i miei agnelli, a partire dalla mia fami­glia... Ciascuno può esse­re mano da cui non si ra­pisce. Poterlo dire a colo­ro che amo: nessuno vi strapperà via.
Ogni discepolo, anche se non è ancora e mai il Cri­sto, è però un Cristo ini­ziale, con la sua stessa missione: essere nella vi­ta datore di vita.

(Letture: Atti degli aposto­li 13,14.43-52; Salmo 99; Apocalisse 7,9.14-17: Gio­vanni 10,27-30)

sabato 17 aprile 2010

PORTA PAROLA 17 APRILE 2010

Da Avvenire di venerdì 16 Aprile 2010
GLI 83 ANNI DI BENEDETTO XVI
MILLE VOLTE GRAZIE LA NOSTRA SPERANZA È TAGLIATA DA ROCCIA ANTICA
MARINA CORRADI
Oggi il Papa compie 83 anni. Tanti ne sono pas­sati da quel giorno di Sabato Santo a Marktl am Inn, in Baviera, quando si aspettò, in una not­te di neve, l’alba di Pasqua per fare battezzare quel bambino con l’acqua appena benedetta, con l’ac­qua 'nuova'. E già questo particolare dice della provenienza da un cristianesimo profondo, ere­ditato con il respiro prima che con le parole da u­na madre e da un padre. Da questo humus viene Benedetto XVI, e da una storia che a noi, che po­tremmo essere suoi figli, appare remota e spa­ventevole. La guerra, e il nazismo incalzante. E un ragazzo di 17 anni, richiamato al Servizio lavora­tivo del Reich, che un vecchio ufficiale una notte in caserma cerca di indurre all’arruolamento 'vo­lontario' nelle SS. «Io con alcuni altri ebbi la for­tuna di poter rispondere che volevo diventare pre­te cattolico», ha raccontato Ratzinger nella sua autobiografia, e ha aggiunto: «Venimmo ricoper­ti di scherni e di insulti». Agli insulti e agli attacchi in ragione della sua fe­de il Papa s’è abituato presto; e non sono quelli di oggi, crediamo, a poterlo turbare – se non, forse, per l’eco di una avversione più grande, oltre la sua persona, alla Chiesa intera, di cui alcuni titoli mo­strano il riverbero. Più degli attacchi forse pesa il dolore per un male per cui, ancora ieri, il Papa ha invocato «penitenza». E allora per i suoi 83 anni, Santità, più che una solidarietà oggi vorremmo dirle di una gratitudine. Una gratitudine profon­da per ciò che lei testimonia ed è; con quella sua storia iniziata per noi in un tempo lontano, ma arrivata limpida e fedele ad oggi. Per una sensibi­lità che si incontra nelle sue parole, dalla ' Spe Sal­vi ' al 'Gesù di Nazareth', e che va diritta alle domande e ai dub­bi dei cristiani di questo mo­mento storico. Perché è stra­no: stupisce, in un uomo cresciuto naturaliter cri­stiano, che sia così inten­samente cosciente dei dubbi della generazione successiva, quasi inconsa­pevolmente invece forma­ta nel relativismo. Un Papa che in una enciclica do­manda: «La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la vita, o è ormai soltanto una informazio­ne accantonata?» mostra di ben conoscere il tarlo che educatamente ci ro­de e sussurra che, via, la verità dei Vangeli è anti­quata, e non regge il confronto con le splendide sorti dell’umano progresso, e del 'libero' pensie­ro. Ma poi che appassionata istruttoria, nella stes­sa ' Spe salvi ', a mostrare la bruciante contem­poraneità delle antiche parole: « Spe salvi facti su­mus », nella speranza siamo stati salvati.
Passione e insieme lucidità, rigoroso uso della ra­gione. Anche di questo, grazie. Per la sfida che da anni conduce, prima e dopo Ratisbona: il Dio in cui crediamo non mutila, in niente, l’uso pieno della nostra umana ragione. (Grazie, perché nei li­cei del dopo ’68 a molti di noi hanno insegnato che il cristianesimo era una speranza da illusi).
E grazie, in questo compleanno in giorni amari, della disarmante audacia della Lettera ai cattoli­ci d’Irlanda. Della sollecitudine per gli innocen­ti, in realtà già mostrata nelle linee guida della Congregazione per la dottrina della fede, dove si affermava che in qualsiasi momento del proce­dimento canonico al vescovo locale è conferito «il potere di tutelare i bambini». Della coscienza, nella Lettera agli irlandesi evidente, che «nulla può cancellare il male sopportato» dalle vittime. (Nulla, tranne Cristo: il cui amore è più grande di ogni male).
E grazie, ancora, dell’esempio indicato nel 'Gesù di Nazareth': il «vir desideriorum» del Libro del profeta Daniele, l’«uomo dei desideri», che «non si accontenta della realtà esistente e non soffoca l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande».
E lo sappiamo in fondo, che tanti attacchi affon­dano radici in qualcosa che va oltre tutte le accu­se espresse. È la radicale opposizione della Chie­sa alla mentalità del 'mondo', ciò che alimenta una ostilità che cova e lievita, e a tratti sbuca alla superficie. È la pretesa cristiana di insegnare ai fi­gli un altro senso, e tutta un’altra logica, da quel­la che ci vorrebbe docilmente allineare. È la fe­deltà al «non conformatevi» di Paolo, il duro an­tico nodo dello scontro. Quel «non conformate­vi » che vede in lei, Santità, un testimone. Tenace nella storia attraversata. Come tagliato da una roc­cia antica.


Da Avvenire di venerdì 16 Aprile 2010
VIANELLO E NON SOLO L’UOMO GIUSTO
Quella «vecchia» tv ricca del suo stile
UMBERTO FOLENA
Era stato l’uomo giusto nato nel Paese giusto.
L’Italia del dopoguerra aveva bisogno di scrollarsi di dosso la tristezza e a riuscirci ci pensava anche quel giovanottone lungo lungo, dalla faccia tutt’altro che italiana, semmai britannica, proprio come il suo humour giocato sul paradosso raffinato e sull’ironia, digeribile da chi ne è bersaglio perché è innanzitutto autoironia.
Era diventato l’uomo giusto nella televisione giusta, nel 1954, proponendo con Ugo Tognazzi, nel varietà 'Un due tre', una delle coppie meglio assortite: due protagonisti, nessun comprimario. Fece il bis accanto a Sandra Mondaini, coppia giusta nella televisione giusta, ancora due protagonisti alla pari senza gregari, a dare un tocco di intelligente leggerezza al mitico 'Studio Uno'. Ma quella televisione, la vetero-tv, non era ancora il centro dell’universo. Sapeva di non essere la realtà ma di doversi limitare a rappresentarla, in appena alcuni suoi aspetti, comunque in modo incompleto. In quella tv, Raimondo Vianello appariva ammiccando e scompariva sorridendo. Intanto girava una cinquantina di film, attore giusto nel cinema giusto, quando le città pullulavano di sale cinematografiche, l’Italia produceva film a palate e gli italiani andavano a vederli.
Era un’Italia non priva di difetti, meschinità e mediocrità; ma forse ne era più consapevole di oggi. E per sorriderne bastava accennarli. La battuta, per Vianello, doveva solleticare il cervello, non tramortire come un cazzotto al ventre. Mai un greve doppio senso, mai una volgarità, mai una parolaccia, mai una di quelle facili scorciatoie alla risata a cui ricorrono i comici bolliti, privi di idee, abbandonati (forse mai visitati) dal genio.
Poi fu l’uomo giusto nella televisione sbagliata. La neo-tv, la tv commerciale, non aveva né tempo né denaro per i prodotti raffinati, di qualità; mirava al sodo, alla quantità, ossia agli ascolti e al denaro. Eppure Raimondo resisteva, con Sandra, un po’ come certi brand palesemente fuori moda che ancora compaiono sugli scaffali dei supermercati, immutabili eppure efficaci. Perché? Perché dotati di una verità interiore.
'Casa Vianello' e i suoi seguiti erano un modo bonario, non oleografico né distruttivo, di rappresentare la famiglia facendone emergere tic e nevrosi. Fu, infine, l’ultimo uomo giusto nella tv più sbagliata possibile quando finì a condurre 'Pressing', la serata di calcio della domenica di Mediaset. Nessuno ci toglie dalla testa che toccò a lui perché nessun altro aveva voglia di giocare una partita ritenuta persa in partenza contro il moloch Rai della 'Domenica sportiva'. Raimondo l’eretico trattava il calcio come una cosa normale, di cui sorridere, togliendogli con ostinata tenacia ogni alone di enfasi e retorica. Un autentico godimento, ma per i palati fini; non certo per i telespettatori infettati dal virus dei talk-show rissosi, delle radio blateranti, dei processi e processoni fatti di nulla. Fu spazzato via dallo tsunami di denaro che la tv satellitare riversò sul calcio, finalmente divenuto un prodotto da spremere fino all’ultima stilla di sugo. (Simile a lui, felice anomalia, è rimasto Gene Gnocchi).
Nella tv giusta o sbagliata, nell’Italia giusta o sbagliata, a morire ieri è stato comunque l’uomo giusto. Siamo certi che ieri, leggendo da Lassù i ricordi commossi, fatti a fotocopia, di personaggi televisivi 'sbagliati', dei maestri dell’enfasi e della volgarità, non sia stato capace di prendersela. Li avrà liquidati con una battuta; troppo sottile perché quelli là sotto, giù in basso, possano comprenderla.

Da Avvenire di mercoledì 14 Aprile 2010
L'incidente ferroviario di Merano
Pure nel mondo perfetto la vita non ci appartiene

Quella zona dell’Alto Adige appare al visitatore come un mondo da fiaba. Distese di meli in filari geometricamente perfetti; belle case linde e puntualmente rinfrescate; campi verdissimi, in cui anche l’erba sembra rasata con millimetrica precisione. E nel mondo da fiaba correva il trenino colorato come un giocattolo, di fabbricazione svizzera, tutto nuovo, inaugurato nel 2006; dotato dei più recenti sistemi di sicurezza, tali che, se qualcosa di più grosso di un sasso fosse caduto sui binari, l’allarme sarebbe scattato bloccando immediatamente la linea. Il tratto dove si è staccata la frana era stato recentemente monitorato dai geologi. E dunque il treno R108 da Malles a Merano era il più sicuro dei treni.
Sennonché, un tubo d’irrigazione, forse, pare, si è rotto; un guasto banale, e però il terreno sopra la massicciata ha cominciato a impregnarsi, il fango a tendere, pesante, verso il basso. Poco dopo le otto è transitato sui binari un convoglio di studenti e pendolari: gremito di ragazzi con gli zaini in spalla, vocianti, spensierati. La massa di fango già fradicia ha tenuto, quel treno è passato (e oggi forse qualche madre e qualche padre, in Val Venosta, tra sé ringrazia Dio, per quei quattrocento figli salvi). Pochi minuti, ore nove e tre. La frana precipita nell’istante in cui arriva il treno R108, lo prende in pieno. Se solo fosse stato di un minuto in ritardo. Ma nel paese delle fiabe i treni viaggiano in rigoroso orario. Nessun allarme può fermare i due vagoni, è troppo tardi. «Una serie incredibile di coincidenze negative», diranno gli esperti. Nel paese perfetto, dove ogni cosa è precisa e ordinata e disciplinata, è avvenuto l’imperscrutabile. E per una volta sembra mancare sui giornali quella consueta caccia al colpevole che, a ragione o a torto, scatta dopo una sciagura. Come se si fosse rimasti senza parole: sul treno più controllato, più protetto, tuttavia si può morire. Come se tutte le nostre leggi e regole e misure di sicurezza non garantissero, alla fine, alcunché. Come se nemmeno in un mondo eccellente la nostra vita ci appartenesse. Lo sbalordimento davanti alla sciagura di Merano è il silenzio di questa impotenza. La nostra vita, non nelle nostre mani. Ma nelle mani di un altro. Di un destino cieco e casuale?
Judith Tappeiner, 20 anni, lunedì mattina si è svegliata in ritardo, ha perso il treno dei salvi e ha preso il treno su cui è morta. Commenta un cronista da Merano: «Ad attenderla, solo un cinico, crudele destino». E la mamma che andava a allattare il s/uo bambino di tre giorni, nato prematuro? È umano, è istintivo pensare a un destino maligno, e a un Dio che, se davvero c’è, si è distratto. E però anche di fronte a queste sorti, apparentemente così casuali, come estratte in una feroce lotteria, occorre ricordarsi che il Dio in cui noi crediamo è buono. I suoi pensieri, lo annuncia già l’Antico Testamento, non sono i nostri pensieri, e le sue vie sono spesso assolutamente incomprensibili per noi. E però sappiamo dalla Croce che il dolore ha un senso; è terribile, misterioso, ma non inutile. Non è possibile che quel neonato rimasto orfano a tre giorni sia stato dimenticato da Dio. Noi non capiamo, ma nel non capire ricordiamo che «ogni sofferenza, ogni dolore racchiude una promessa di salvezza, una promessa di gioia», come ha scritto Giovanni Paolo II. E la nostra vita non ci appartiene, nemmeno nel più perfetto dei mondi, dove ogni legge è rispettata. La fatica più grande, oggi, è riconoscerlo; vedere il dolore, non capire, e tuttavia fidarsi.

Da Tempi di martedì 13 Aprile 2010
Dipingono una Chiesa mangiabimbi perché la vogliono a caccia di farfalle
Sacerdoti al forno
Per la Chiesa di papa Ratzinger è stata una dura ma anche purificante e istruttiva Pasqua. Benedetto XVI e, con lui, tutti i vescovi dell’ecumene, sono stati nettissimi nel riconoscere gli abusi di cui si sono macchiati alcuni loro preti e a prendersene in carico la loro repressione e l’allontanamento di quanti, anche tra le alte gerarchie ecclesiali, se ne siano fatti complici. Voleranno teste e certo lo scandalo accelererà la riforma ratzingeriana delle curie, della liturgìa e dei seminari.
Resta la distanza abissale tra i fatti e il lungo latrare e abbaiare del circuito mediatico contro la Chiesa cattolica. Fatta apparire come una casta di mangiabambini, quando già le semplici statistiche dimostrano l’irrisorietà del contributo che gli uomini di Chiesa offrono alla pedofilìa e a tutti gli altri generi di perversioni in cui è specializzata la teoria e la prassi dell’umanesimo secolare (basti pensare alla buona fama che gode la pornografia o a quel partito politico pedofilo che non si presenterà alle prossime elezioni politiche olandesi, non perché è stato messo fuorilegge dai giudici alla Pietro Forno, ma solo perché non ha raccolto le firme necessarie per presentare la lista). Naturalmente è diventato uno sport internazionale sparare su chi porta la croce. Di là, dove i cristiani vengono fisicamente sparati. Di qua, dove il cristiano che non si limiterà a dar la caccia alle farfalle e si occuperà di res pubblica, come scriveva Czeslaw Milosz, «avrà la mano mozzata». Già, i cristiani se ne stiano alle playstation dei teologi alla Küng e Mancuso. E Benedetto si faccia confermare Papa da un martiniano e democratico terzo concilio di preti sposati e donne sacerdote. Grazie a Dio, tutto ciò non accadrà mai.
Mentre sempre accadrà la benvenuta ora in cui il popolo s’infiamma per l’Unico che non inganna.
www.tempi.it

Da Dimensioni Nuove di aprile 2010
LA MACCHINA DEL TEMPO: DA SOGNO A REALTA' di Stefano Moro
Molti ricorderanno Troisi e Benigni che confabulano con Leonardo da Vinci nel tentativo di insegnargli le invenzioni del XX secolo. Oppure Michael J. Fox che fa stridere le gomme della DeLorean DMC-12 preparata da Doc e si ritrova nell'America del 5 novembre 1955. Sono solo due esempi, Non ci resta che piangere e Ritorno al futuro, di come il viaggio nel tempo abbia da sempre catalizzato l'attenzione del grande pubblico, spingendo scrittori e registi a inserirlo in molti romanzi e film di fantascienza.
D'altra parte, come il teletrasporto, è uno dei vecchi sogni dell'uomo, a cui piacerebbe tanto poter vedere con i suoi occhi com'era Atene nel V secolo a.c. o il Messico degli Aztechi nel XV secolo. Ma, nonostante gli studi sulla relatività e sui buchi neri, allo stato attuale la stanzetta con il calendario digitale e il bottone “Back!” resta decisamente un sogno.
Proviamo però per un istante a pensare a Internet come a un vero e proprio mondo, fatto di siti, applicazioni e giochi, a cui accediamo ogni volta che apriamo un browser e iniziamo la navigazione. La metafora del mondo virtuale non è poi così ardita, se si pensa che i milioni di siti che nascono e muoiono sul web portano con se informazioni e notizie spesso strettamente correlate con la cronologia di eventi che si susseguono nella storia reale. Essi hanno al loro interno un bel pezzo del mondo che sta fuori e l'esperienza di una navigazione su Internet di un'ora è spesso una vera e propria immersione nel mondo reale contemporaneo, con tutto il suo corredo di cultura, arte, scoperte, guerre, eventi sportivi e quant'altro. E se uno mai si sognasse di fare un tuffo nel web di dieci anni fa per vedere, che so io, la pagina di allora di GeoCities o Altavista? ebbene sì, lo potrebbe fare, sul web infatti esiste la stanzetta con il pulsante “Back!” e il suo nome è Wayback Machine.
Andiamo su www.archive.org, digitiamo in Wayback Machine la url www.altavista.com e clicchiamo sul pulsante "Take Me Back". Ci troveremo davanti un elenco di date da scegliere e cliccando per esempio su 1 maggio 1999 finiremo sulla pagina di allora del motore di ricerca Altavista, trovandoci le notizie della guerra in Kosovo e il link per scaricare Internet Explorer 5. Pezzi di storia che avremo davanti esattamente e soltanto com'erano il 1 maggio 1999. Allo stesso modo possiamo digitare, per esempio, www.corriere.it e selezionare per esempio la data 19 dicembre 2000, scoprendo che già allora si parlava del Grande Fratello e che proprio quel giorno Alitalia annunciava 3000 assunzioni in 3 anni. Non è una vera macchina del tempo?
Ci si può sbizzarrire nelle ricerche e ritrovare anche le proprie vecchie pagine web, create agli albori di Internet, sempre che siano state indicizzate. Già, perchè il segreto di Wayback Machine è l'indicizzazione del Web, che dal 1996 viene effettuata proprio come fa un motore di ricerca per permetterci di trovare le pagine, con la differenza che ad ogni indicizzazione le pagine vengono tenute da parte ad uso dei posteri. Infatti lo scopo della ONG Internet Archive, che ha creato questa machina del tempo, è proprio quello di mettere a disposizione di tutti una grande biblioteca del web. E per fare questo si è avvalsa della collaborazione di Alexa Internet, azienda californiana che ha donato i dati raccolti e i suoi spider per la continua scansione dei siti. Lo so, probabilmente non state più leggendo queste righe e siete già corsi al pc per provare la macchina del tempo...

www.dimensioni.org

Dal supplemento Bologna Sette di Avvenire di Domenica 11 aprile 2010
L’UOMO che verrà di Chiara SIRK
Chi, nel 2005, era rimasto incantato da quel gioiello cinematografico intitolato «Il vento fa il suo giro», non è rimasto sorpreso dal felice esito di un impegno difficile che Giorgio Diritti, bolognese di nascita, ha accolto: realizzare un film sui fatti che sconvolsero per sempre la vita di Monte Sole, vicino a Marzabotto. È «L’uomo che verrà» e non è un film su una strage, ma sulla vita di persone, sulle loro scelte, su chi lavora i campi, su chi mette al mondo dei figli, anche se c’è la guerra ed è duro andare avanti, su chi ha scelto le armi, su chi pratica la violenza. Tutto è letto con gli occhi di Martina, una bimba che si fa domande da «grandi»: «ci sono persone che vogliono ucciderne altre e non capisco perché» dice tra sé. Ma accanto all’odio c’è la vita di un fratellino che cresce nella pancia della mamma.
Un film essenziale e poetico, delicato, ma potente che dice tutto senza scagliare addosso allo spettatore immagini e parole. Al regista chiediamo: che parte hanno le figure dei sacerdoti nel film? «In questi posti la chiesa, il prete erano punti di riferimento. Le comunità erano molto religiose. La chiesa era il luogo della fede, ma sul sagrato la domenica si concludevano gli affari, si parlava di bestiame da vendere e da comprare. Non era un luogo separato, ma vissuto. Il calendario era quello dei Santi, delle feste religiose. Per questo "i" don Fornasini, pur nella loro giovinezza, avevano un ruolo autorevole e partecipavano intensamente alla vita della loro parrocchia». Nel film le chiese e le croci sono presenze discrete, ma costanti, perché?
«Perché c’era una forte religiosità, di tipo popolare, che forse adesso ci pare anche un po’ "strana", ma tutto era vissuto con grande umiltà, che è un valore da tenere presente. Meglio essere umili e un po’ scorretti, piuttosto che presentarsi come detentori di un sapere con tanta
presunzione». I giovani sacerdoti sanno che potrebbero essere uccisi, ma restano...
«C’era un legame con le famiglie, con le persone, per questo al momento della strage non se ne vanno. Non sono eroi: sono persone con una grande fede, pastori che rimangono con il loro gregge. Così era la chiesa in questi posti: un riferimento costante, con la capacità di essere vicina a tutti. Ancora oggi nel sociale la chiesa riesce ad esserlo».

Da Avvenire di Sabato 10 aprile 2010
Contro l’aborto più aiuti alle mamme Il direttore risponde
Caro direttore, sono nauseata da chi gioca con le parole e con la vita delle donne.
L’arrivo della pillola Ru486 è stato festeggiato come un successo per le donne che per abortire si libereranno del chirurgo. A nessuno interessa veramente del fatto che per tre giorni le donne saranno in balia di se stesse e di questo aborto solitario. La prima pillola uccide l’embrione, le altre due provocano contrazioni e l’espulsione del « prodotto del concepimento » il tutto avviene in solitudine, mentre la vita pare scorrere normalmente, ma una madre lo sa, sa cosa sta accadendo e sa che l’artefice è lei. Tutti, i favorevoli all’aborto e i contrari, affermano che l’aborto è un trauma per le donne, ma i primi considerandolo una conquista per la libertà delle donne e lasciano soli i secondi a lottare con pochi mezzi e con pochi fondi perché questo trauma dove possibile non si verifichi. C’è una legge che rende legale l’aborto e tanti ci ricordano, ogni volta che possono, che le leggi vanno rispettate, ma questa legge dice anche che si deve fare il possibile per aiutare le donne che quella maternità la desiderano. Quindi, non sarà ' illegale' fare una campagna di raccolta fondi per quelle associazioni che nel rispetto della legge offrono sostegno a chi non vuole abortire, ma non è nelle condizioni di affrontare da sola una maternità. Se davvero per tutti l’aborto è un dolore, è un trauma per la donna, aiutiamo chi non vuole affrontare questo dolore a non essere sola. Lavoro in un’associazione di imprese, profit e no profit, e l’altro giorno si è rivolta a me la responsabile di un Cav in crisi perché i fondi sono terminati e ci sono delle mamme da aiutare, questo mi ha fatto sentire impotente e sconfitta, ma ho pensato che si potrebbero unire le forze in favore della vita, nel rispetto della legge, e delle donne. Pensiamoci, facciamo qualcosa perché le imprese e la società civile insieme possano sostenere quelle associazioni che corrono in soccorso della vita. Ci saranno meno donne costrette a ricorrere al chirurgo o alla pillola abortiva, e ci saranno più bambini a dare speranza a questa società.

Non voglio neanche ipotizzare, cara signora, che cosa interessi veramente a certi «cantori» delle virtù chimiche della Ru486. Mi pare più importante – milioni di volte più importante – il suo ragionamento e la forza con la quale sostiene l’urgenza di un sostegno concreto e stabile ai Centri di aiuto alla vita. Imprese e società civile, come lei suggerisce, possono e devono fare la loro parte. Ma devono anche farla le istituzioni pubbliche, a cominciare da quelle regionali così direttamente coinvolte e responsabili nella gestione della sanità. I «governatori» vecchi e nuovi è su questo fronte che sono chiamati a essere, già oggi, a 194 vigente, un segno di contraddizione rispetto alla terribile logica dell’aborto come «diritto» e non come dramma, come terribile cancellazione di una vita inerme. C’è bisogno di un impegno chiaro e conseguente per far crescere la «cultura della vita». È tempo che anche la politica faccia fino in fondo, per bene, la sua parte.

Il direttore di Avvenire
Marco Tarquinio

venerdì 16 aprile 2010

IL VANGELO DI DOMENICA 18 aprile 2010

il Vangelo
Le tre domande di Gesù a Pietro: così Dio abita il cuore dell’uomo
di Ermes Ronchi III Domenica di Pasqua Anno C

In quel tempo, Gesù si ma­nifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. (...)
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovan­ni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signo­re, tu lo sai che ti voglio be­ne ».
Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: « Si­mone, figlio di Giovanni, mi ami?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti vo­glio bene » . Gli disse: « Pa­scola le mie pecore». Gli dis­se per la terza volta: «Simo­ne, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?».
Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Si­gnore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore.
In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio ten­derai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorifi­cato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Gesù e Pietro, uno dei dialoghi più affasci­nanti di tutta la let­teratura. Tre do­mande, come nel­la sera dei tradimenti, at­torno al fuoco nel cortile di Caifa, quando Cefa, la Roc­cia, ebbe paura di una ser­va. E da parte di Pietro tre dichiarazioni d’amore a ri­comporre la sua innocenza, a guarirlo alla radice dai tre rinnegamenti. Gesù non rimprovera, non accusa, non chiede spiega­zioni, non ricatta emotiva­mente; non gli interessa giudicare e neppure assol­vere, per lui nessun uomo è il suo peccato, ognuno vale quanto vale il suo cuore: Pietro, mi ami tu, adesso? La nostra santità non con­siste nel non avere mai tra­dito, ma nel rinnovare ogni giorno la nostra amicizia per Cristo. Le tre domande di Gesù so­no sempre diverse, è lui che si pone in ascolto di Pietro. La prima domanda: Mi ami più di tutti? E Pietro rispon­de dicendo sì e no al tempo stesso. Non si misura con gli altri, ma non rimane nep­pure nei termini esatti del­la questione: infatti mentre Gesù usa un verbo raro, quello dell’agàpe, il verbo sublime dell’amore assolu­to, Pietro risponde con il verbo umile, quotidiano, quello dell’amicizia e del­­l’affetto: ti voglio bene. Ed ecco la seconda doman­da: Simone figlio di Giovan­ni, mi ami? Gesù ha capito la fatica di Pietro, e chiede di meno: non più il confronto con gli altri, ma rimane la ri­chiesta dell’amore assoluto. Pietro risponde ancora di sì, ma lo fa come se non aves­se capito bene, usando an­cora il suo verbo, quello più rassicurante, così umano, così nostro: io ti sono ami­co, lo sai, ti voglio bene. Non osa parlare di amore, si ag­grappa all’amicizia, all’af­fetto. Nella terza domanda, è Ge­sù a cambiare il verbo, ab­bassa quella esigenza alla quale Pietro non riesce a ri­spondere, si avvicina al suo cuore incerto, ne accetta il limite e adotta il suo verbo: Pietro, mi vuoi bene? Gli domanda l’affetto se l’a­more è troppo; l’amicizia al­meno, se l’amore mette paura; semplicemente un po’ di bene. Gesù dimostra il suo amore abbassando per tre volte l’e­sigenze dell’amore, rallen­tando il suo passo sulla mi­sura del discepolo, fino a che le esigenze di Pietro, la sua misura d’affetto, il rit­mo del suo cuore diventa­no più importanti delle esi­genze stesse di Gesù. L’u­miltà di Dio. Solo così l’a­more è vero. E io so che nell’ultimo gior­no, se anche per mille volte avrò sbagliato, il Signore per mille volte mi chiederà so­lo questo: Mi vuoi bene? E io non dovrò fare altro che rispondere per mille volte: Ti voglio bene.
(Letture: Atti degli Apostoli 5,27b-32.40b-41; Salmo 29; Apocalisse 5,11-14; Giovan­ni 21, 1-19)

POST IT DEL 16/4/2010 appuntamenti

sabato 17 aprile 2010 ore 17.30 Visita guidata
Il Trono vuoto - Visita guidata (arch. Luciano Marni )
Battistero degli Ariani piazzetta degli Ariani Ravenna

sabato 17 aprile 2010 ore 20,30 Inaugurazione Presentazione nuova illuminazione (arch. Emilio Roberto Agostinelli)
Basilica di Sant'Apollinare in Classe

DOMENICA 18 APRILE ore 20,45 Concerto
Concerto di "I bimbi per i bimbi" coro UNICEF di Ravenna
Diretto da Tiziana Stanzione, direzione artistica da Annaluisa Gardella e Orio Conti
Festa della Madonna greca
Chiesa Santa Maria in Porto

martedì 20 aprile 2010 ore 10.30 Visita guidata gratuita per i residenti (Antonella Ranaldi) Museo Arcivescovile piazza Arcivescovado Ravenna

lunedì 12 aprile 2010

MADONNA GRECA (l'arrivo in città)

Vescovo di Ravenna SE Monsignor Verucchi

la santa benedizione

Il corteo dei figuranti storici


Gli scout del gruppo Ravenna 1

La Banda cittadina

Il saluto del Gruppo Ravenna 1

I fedeli in cammino verso il santuario

Chiesa di Santa Maria in Porto a Ravenna

sabato 10 aprile 2010

OLIO di LETIZIA

PORTA PAROLA 10 APRILE 2010

Festa della Madonna greca

cliccare sulla pagina per visualizzare


A 910 anni dal suo approdo
FESTA DELLA MADONNA GRECA patrona della città di Ravenna
settimana mariana 9 - 18 aprile 2010
11 APRILE DOMENICA IN ALBIS

PORTO CORSINI
11.00 Santa Messa celebrata da S.E. Mons. Giuseppe VERUCCHI, Arcivescovo di Ravenna - Cervia

15.00 Trasferimento via mare della Sacra Immagine al Faro di Marina di Ravenna

MARINA DI RAVENNA – FARO
15.30 Arrivo della Sacra Immagine della Madonna Greca Segue la Benedizione "MARIS GENTIUM BENEDICTIO" impartita dall'Arcivescovo

15.45 Partenza con la motonave per processione lungo il Canale Candiano

RAVENNA
17.00 Processione in città verso la Basilica di Santa Maria in Porto Accompagna la Banda musicale di Ravenna

18.30 Celebrazione Eucaristica presieduta da S.E. Mons. Giuseppe VERUCCHI, Arcivescovo di Ravenna - Cervia
Benedizione della statua di Giovanni Paolo II
Annullo speciale di Poste Italiane in occasione dei 910 anni dell'approdo della Sacra Immagine

Il programma della settimana mariana è nella tua parrocchia e sul sito web www.santamariainporto.it

La storia e la descrizione dell'icona
La Madonna Greca, la Vergine che viene dal mare

La "Madonna Greca" è la patrona della città di Ravenna.
Si deve a questa Madonna l’aver reso saldo nel tempo il legame tra Ravenna e l’Oriente.
L' immagine della Madonna Greca, venerata nella basilica-santuario di Santa Maria in Porto, è un delicato bassorilievo bizantino scolpito su marmo pario, che rappresenta la Madonna in atteggiamento di preghiera con le braccia alzate è vestita di una lunga e ricca tunica, fermata in vita da una cintura, che lascia intravedere alcune tracce di color porpora e di oro lungo i bordi del manto stesso e sulla quale sono distribuite undici piccole croci di metallo dorato ed il nimbo oggi coperto in parte dalla corona aurea che Giovanni Paolo II appose nel 1998 in onore della Vergine.
Ai lati del capo della Madonna, circondato da un’aureola, vi sono due scudi rotondi che recano inciso a lettere greche il monogramma Mπ ΘY "Madre di Dio".

La festa della Madonna Greca viene celebrata a Ravenna la prima domenica dopo Pasqua (Domenica in Albis) perché, secondo la leggenda, l'immagine della Vergine apparve sul litorale di Porto Fuori, nei pressi di Ravenna, proprio la Domenica in Albis del 1100.
Poco prima dell'alba dell'8 Aprile 1100, Domenica in Albis, Pietro degli Onesti, secondo la leggenda tramandata dalle Carte Portuensi, stava recitando con altri sei monaci il mattutino, quando l'abside venne rischiarata da una luce. Non trattandosi della luce del sole, i monaci uscirono sulla spiaggia per seguire il chiarore che aveva ferito la notte e grande fu la loro meraviglia quando videro che sulle acque galleggiava un’immagine della Madonna, scortata da due angeli, ognuno dei quali recava una luminosissima fiaccola. Di fronte al prodigio i monaci si inginocchiarono e dopo aver salutato la Vergine con preghiere e canti, esortarono il beato Pietro a prendere la sacra immagine. Pietro, però, non si riteneva degno di accogliere la Vergine (si considerava "peccatore" e come "Pietro peccatore" sarebbe passato alla storia) ed invitò i suoi confratelli ad andare incontro alla sacra immagine. Questi, però, non riuscirono nell' intento perché la Vergine si allontanò di fronte al loro avvicinarsi. Sollecitato di nuovo dai confratelli ad andare incontro alla Vergine, il beato Pietro protese le braccia ed a questo gesto gli angeli scomparvero e la sacra immagine gli si fece incontro.
Così narra la leggenda, unica testimonianza scritta che racconti l'approdo sulle spiagge ravennati dell'immagine sacra. È certo, comunque, che il bassorilievo venne realizzato in qualche "officina" sulle rive del Bosforo, da dove si imbarcò su di una nave ai tempi della prima crociata, probabilmente per sfuggire allo scempio dell'iconoclastia. Non si esclude l'ipotesi che sia stato uno dei crociati a portarla dall'Oriente fino a noi.
Unico dato certo è che nei dintorni di Ravenna esisteva sin dal XII secolo un tempio dedicato a Maria, eretto da Pietro degli Onesti sul luogo dove successivamente sarebbe sorta quella "casa di nostra Donna in sul Lido Adriano" (Dante, Paradiso, Canto XXI), oggi Santa Maria in Porto Fuori, che andò interamente distrutta durante un’incursione aerea notturna il 6 Novembre 1944.
In questa chiesa, che per diverso tempo custodì l'immagine della Vergine Greca, si conservavano il sarcofago di Pietro "peccatore" (ancora oggi visibile) ed alcuni affreschi della scuola giottesca romagnola, dei quali oggi è possibile ammirare solamente alcune tracce. Presso la stessa chiesa, inoltre, era fiorente la pia unione dei "Figli e delle Figlie di Maria", fondata dallo stesso Pietro degli Onesti allo scopo di promuovere il culto della Vergine e di ricordarne l'arrivo ogni Domenica in Albis.
La pia unione, all'inizio del Trecento, poteva contare su ben 700 mila iscritti, in tutta Europa.
Verso la metà del XV secolo, Ravenna passava sotto il dominio dei Veneziani ed il nuovo priore veneto del tempio dedicato a Maria, Silvano Morosini, iniziò la costruzione di un nuovo monastero in città per sfuggire alle incursioni dei pirati che andavano infestando il litorale. La posa della prima pietra avvenne il 5 Agosto 1496 e nel 1503 l'immagine della Madonna Greca lasciò la chiesa di Porto Fuori per trovare nuova sistemazione in una cappella all'interno del nuovo chiostro.
Nel febbraio 1511, alla vigilia del "sacco di Ravenna" del 1512 ad opera delle truppe francesi di Gastone de Foix, Papa Giulio II fu ospite dei canonici di Porto e con una solenne bolla, il cui testo si trova inciso su una tavola di marmo nell'ambularco della sacrestia, concesse favori spirituali a quanti avrebbero esarcito elemosine in favore della fabbrica del nuovo tempio che sarebbe sorto in onore della Vergine Maria.
La prima pietra del nuovo tempio, sulla quale stava inciso "Maria Graeca Portuensium Mater, Ravennatum Protectrix", venne posata il 13 Settembre 1553 dal priore Vitale Mercati il quale aveva ottenuto da Papa Paolo III, che pochi anni prima era stato ospite dei canonici, la concessione di poter demolire l'ormai labente basilica di San Lorenzo in Cesarea, per poter utilizzare il materiale ed ereditarne i privilegi.
Nel 1570 Vitale Mercati, promosso alla dignità di Abate da Pio V, poté compiere la solenne traslazione dell'immagine della Vergine Greca dalla cappella interna del chiostro al tempio ormai in via di ultimazione.
Il culto della Vergine fu continuato anche dal successore di Mercati, l'Abate Serafino Merlini, tant'è che dopo la sua morte, avvenuta nel 1623, le pareti della cappella erano ricoperte di ex voto per grazie ottenute. La basilica, intanto, fu ultimata nella facciata e nella gradinata solamente nel 1784, pochi anni prima della "rivoluzione francese" che lasciò anche a Ravenna i suoi segni. Il santuario, infatti, fu spogliato e depredato, ed i monaci vennero espulsi. Vi fecero ritorno, però, nel 1828 e vi restarono fino al 1870; ma a causa dell'incameramento dei beni ecclesiastici si trovarono nell' impossibilità di sostenersi e pertanto lasciarono il convento al clero diocesano. L'arcivescovo Vincenzo Moretti ed i suoi successori si fecero promotori del culto della Vergine che venne solennemente incoronata il 21 Aprile 1900 dal Capitolo Vaticano nella basilica Metropolitana.
Nel 1947 fu eletto arcivescovo di Ravenna monsignor Giacomo Lercaro, che il 1 Febbraio 1948 promosse la consacrazione della città di Ravenna al Cuore Immacolato di Maria ed affidò il santuario di Santa Maria in Porto ai sacerdoti salesiani di Don Bosco.
Nel 1952, per l'instancabile opera di Don Spartaco Mannucci, fu rinnovata la solenne incoronazione ad opera del cardinale Idelfonso il quale consacrò la città e la diocesi alla Madonna.

Da www.CulturaCattolica.it di sabato 3 aprile 2010
Gli esami non finiscono mai
di
Mangiarotti, Don Gabriele
Sarà pur vero che “molti nemici, molto onore”, ma, ad essere sinceri, non ne possiamo più di questo accanimento nei confronti della Chiesa da parte di chi vorrebbe continuamente trasformarla a propria immagine.
Già Eduardo de Filippo, in una indimenticabile opera teatrale da lui scritta ed interpretata, affermava che gli esami non finiscono mai! E sembra che la Chiesa, i suoi esponenti di prestigio, ma anche i singoli fedeli debbano continuamente rispondere a chiunque pretenda da loro spiegazioni, e non sia d’accordo con quanto vanno affermando (e questo non è certamente il caso indicato dalla lettera di San Pietro).
Abbiamo assistito alle denunce nei confronti di chi chiamava omicidio legalizzato la morte procurata ad Eluana (ed ora, anche dopo lo splendido lavoro di Lucia Bellaspiga e di Pino Ciociola, sembra che di ragioni per tale giudizio ce ne siano da vendere); abbiamo assistito alla continua denuncia, che ha persino raggiunto il vertice della Chiesa, il Papa, per quanto ha fatto nei confronti dei preti pedofili (con la pretesa che la Chiesa agisca secondo il parere degli opinion leaders, valido però solo riguardo ai preti, perché, altrimenti, tale reato gode di tolleranza quasi assoluta). Ma ora assistiamo al colmo: padre Cantalamessa, nella omelia del Venerdì Santo in San Pietro, non può equiparare l’odio alla Chiesa all’odio antisemita, ed è necessario che la sala stampa vaticana produca le sue scuse a tutti gli indignati.
Non conosco padre Cantalamessa, ma esprimo a lui tutta la mia solidarietà. L’odio antisemita, che si è scatenato in Germania ai tempi di Hitler, è cominciato dall’odio nei confronti di quei vescovi cattolici che si sono opposti allo sterminio degli handicappati (rifulge la figura del cardinale Von Galen, il leone di Munster). È stato in seguito a tale denuncia che è iniziata la feroce campagna contro i preti che si sarebbero macchiati di gravissimi abusi sessuali, orchestrata da Goebbels. Ed anche in questa situazione quanti sono stati i benpensanti che si sono, allora come ora, uniti al coro di disprezzo e riprovazione!
Rivendico il diritto di esprimere un proprio personale giudizio, allorché non offensivo e motivato, sui fatti della storia e su quanto accade nel presente. Senza censure preventive o postume. Non abbiamo il bisogno di passare ogni volta l’esame del “politically correct”, desideriamo solo testimoniare la verità, consapevoli che possiamo sbagliare, ma certi di un dovere a cui non possiamo sottrarci. Nella speranza che, invece che farci le scarpe reciprocamente, ci si decida a un lavoro comune per il bene dell’uomo. Oggi, di questo impegno, c’è un bisogno inaudito. Forse la Pasqua può ancora indicare, all’uomo di oggi, la strada.


Da www.Cittànuova.it di mercoledì 7 aprile 2010
E adesso chi paga?
di Giulio Meazzini
Soppresse le agevolazioni per le spese postali di quotidiani e periodici. Colpite soprattutto le organizzazioni no-profit. Il dilemma ora è: aumentare il prezzo degli abbonamenti o uscire più di rado?La protesta si diffonde in rete.
Anche Città Nuova, come molti altri periodici, è nei guai. La spedizione del numero 7, che sta arrivando in questi giorni nelle case, è costata diverse migliaia di euro in più del solito. Colpa del decreto del governo del 30 marzo 2010, immediatamente valido, che ha soppresso le tariffe agevolate postali per l’editoria libraria, quotidiana e periodica.
In più, come casa editrice, Città Nuova deve sopportare oneri supplementari di spedizione postale per ogni libro inviato.
Colpite in modo particolare le associazioni no-profit che hanno calcolato rincari del 500 per cento per qualsiasi iniziativa che passi per l’invio di opuscoli lettere o volantini via posta.
Sull’onda delle preoccupazioni per le pesanti conseguenze immediate, molte associazioni, dalla Fondazione Don Gnocchi a Telethon, da Medici senza frontiere a Telefono azzurro hanno fatto sentire la loro voce chiedendo al governo di ritirare il decreto.
Sul web la protesta corre, con molte iniziative, tra cui un appello lanciato dal settimanale Vita contro l’aumento delle tariffe postali. Città Nuova aderisce a questo appello.

da Vita Pastorale di aprile 2010
Convegno della Cei Roma, 22-24 aprile
Testimoni digitali
di DOMENICO POMPILI direttore dell’Ufficio nazionale delle comunicazioni sociali Cei
Presentiamo il grande appuntamento che attende la Chiesa italiana nell’ambito delle comunicazioni sociali, delineandone gli obiettivi, i principali contenuti, e alcuni accenni alle relazioni.
Un nuovo continente da evangelizzare: ecco come la Chiesa guarda a Internet. Benedetto XVI lo ha ripetuto più volte invitando i giovani prima e i sacerdoti poi ad "abitare" la Rete e a essere anche lì araldi del Vangelo. Quello delle comunicazioni sociali è un mondo in costante, rapidissima evoluzione. Mentre prima i mass media erano ben definiti nella loro individualità, ora si sono come liquefatti nel nuovo ambiente tecnologico. Internet e i social network, in un modo che per certi aspetti può essere percepito quasi come "magico", rappresentano degli straordinari catalizzatori di rapporti, capaci di azzerare le distanze spazio-temporali tra le persone.
Allo stesso tempo, possono mettere in crisi il significato della "presenza", nella misura in cui la semplice connessione non riesce a compiere il decisivo salto di qualità che la trasforma in una relazione interpersonale. Anche la missione della Chiesa si sta rapidamente evolvendo. Oggi non basta più soltanto "stare" dentro il mondo dei nuovi media, "occuparlo"; bisogna starci con un profilo riconoscibile perché il contesto pluralistico nel quale ci troviamo esige che siamo chiaramente riconoscibili.
La Chiesa è chiamata a comunicare, anche attraverso le nuove tecnologie, il suo sguardo assolutamente originale sulla realtà: lo sguardo della fede. Internet diventerà sempre più un luogo in cui l’annuncio del Vangelo trova cittadinanza, oltre che un "cortile dei gentili" per incontrare i lontani, nella misura in cui noi cristiani sapremo starci "da cristiani" e sapremo passare dallo "stare in rete" all’essere rete, prima di tutto tra di noi. C’è anche questo tra gli obiettivi del prossimo convegno nazionale Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale, promosso dalla Cei, che si terrà a Roma dal 22 al 24 aprile e chiamerà a raccolta quanti si occupano di comunicazione e cultura nel nostro Paese. L’obiettivo che il convegno si prefigge è racchiuso già nel titolo che è stato scelto. "Testimoni digitali": un sostantivo e un aggettivo.
Perché digitali?
Partiamo dall’aggettivo "digitali": esso indica la nuova condizione in cui oggi i mass media sono in qualche modo sciolti. La tecnologia digitale, infatti, sta ridefinendo i vecchi e i nuovi media, cambiando anche la nostra vita quotidiana e relazionale. Il convegno intende mettere a tema questa nuova condizione culturale profondamente connotata dal digitale. L’aggettivo, però, è preceduto dal sostantivo "testimoni", che è l’elemento fondamentale: esso evoca un atteggiamento, di fronte ai cambiamenti che stanno avvenendo sotto i nostri occhi, che non deve essere né pregiudiziale né rassegnato. Anzi: dentro questa nuova condizione noi dobbiamo essere dei testimoni, cioè dei soggetti che siano in grado d’interpretarla. Non solo! Essere testimoni significa rimandare a qualcosa di ulteriore e nell’accezione cristiana il testimone fa riferimento al Vangelo. La sfida è di essere dentro il contesto digitale facendo risuonare la parole del Vangelo di cui ciascuno è testimone.
Il convegno sarà articolato in quattro fasi. In un primo momento, introdotto da mons. Crociata e centrato sulla relazione di Nicholas Negroponte (uno dei massimi esperti mondiali di media), si cercherà un’analisi tecnologica dei nuovi scenari mediatici, che in un secondo momento saranno esaminati da un punto di vista antropologico (con la presentazione di una ricerca curata apposta per "Testimoni digitali" dall’Università cattolica).
L’obiettivo si sposterà poi su come i volti e i linguaggi dell’era crossmediale interpellino l’annuncio del Vangelo da un punto di vista teologico, pastorale e pedagogico: a tirare le fila di questo momento sarà la relazione del cardinale Bagnasco.
Infine, Benedetto XVI riceverà in udienza i partecipanti al convegno e conferirà loro il mandato di evangelizzare il continente digitale. Durante il convegno (e fin da ora attraverso il sito
www.testimonidigitali.it) tutti potranno contribuire in modo interattivo alla riflessione.

Da Avvenire di venerdì 9 Aprile 2010
L'INTERVISTA A GIUSEPPE GHIBERTI
La Sindone, messaggio d'Amore
di Mimmo Muolo
Si potrebbe dire che davanti alla Sindone ha passato più di vent’anni. A studiare i rapporti tra la preziosissima reliquia e il Vangelo, fin dai tempi dell’ostensione del 1978. Poi negli ultimi due decenni monsignor Giuseppe Ghiberti è stato l’incaricato delle questioni sindoniche per conto dagli arcivescovi di Torino. Chi dunque meglio di questo sacerdote 76enne (è nato nel 1934) e ordinato sacerdote nel 1957 per la Chiesa di Torino, presidente della Commissione diocesana per la Sindone, può parlare della devozione per il Sacro Lino? Tra l’altro con grande cognizione di causa, poiché fin dall’inizio del suo ministero presbiterale si è dedicato allo studio e all’insegnamento del Nuovo Testamento. E così il suo punto di osservazione diventa qualcosa di veramente privilegiato per poter affermare che l’Uomo della Sindone, chiunque egli sia, ha molto da insegnare anche agli uomini e alle donne del nostro tempo. Proprio perché, in quanto immagine di una sofferenza estrema, in grandissima parte coincidente con quella della Passione di Cristo, è un testimone attendibile di tutto quello che Gesù ha dovuto subire per la nostra salvezza.
Monsignor Ghiberti, in questi anni la devozione alla Sindone si è accentuata rispetto al passato o la prova del carbonio 14 ha avuto qualche effetto anche sotto tale profilo?
Qualche segno di maggiore serenità di fronte alle polemiche passate mi pare di intravederlo, pur accompagnato da uguale entusiasmo e commozione. La diffusione della conoscenza della Sindone e anche del suo messaggio mi sembra notevolmente cresciuta, soprattutto in qualche strato, come la popolazione scolastica.
Che cosa rappresenta la Sindone per i fedeli?
A Gesù i fedeli che guardano la Sindone si riferiscono in ogni modo, anche se distinguono più facilmente fra quanto è scientificamente acquisito e quanto si trova ancora allo stato incompiuto. La Sindone è la testimonianza più toccante della sofferenza affrontata da Gesù per amore; inoltre provoca anche il salutare disagio di un richiamo a conversione seria.Che cosa insegna l’Uomo della Sindone a colore che si soffermano a contemplare il suo mistero?
Insegna che il peccato non è un modo di dire, insegna che l’amore da parte del nostro Redentore ha avuto un grande prezzo; che quella sofferenza ha qualcosa da dire alla mia, che il suo silenzio vuole essere imitato in una ricerca di interiorità di vita che sappia distinguere il passeggero dall’eterno.
Come si può utilizzare pastoralmente questo oggetto?
La Sindone è un richiamo alla serietà: dell’annuncio, della vita, dei valori che abbiamo sempre in bocca e che rischiano di diventare parole vuote. Un fatto di tale concretezza non può lasciare indifferenti, se ci si misura seriamente con esso. Anche oggi, come già nella storia passata, vedere Gesù soffrire a quel modo, uomo a causa degli uomini e in favore degli uomini, spinge a uscire dal chiuso delle nostre preoccupazioni private e a programmare in favore di tanti che non hanno né conoscenza né mezzi.
Ci racconta qualche episodio di devozione che l’ha particolarmente colpita?
La Sindone, a detta della nostra gente, sembra che non faccia miracoli; poi però si sente sempre la confidenza di chi confessa di avere ricevuto tanta pace dalla contemplazione di quell’immagine. Tra gli esempi più silenziosi e commoventi mi colpiscono i comportamenti di molti dei nostri più che quattromila volontari: ore e ore in piedi, con la corona del rosario in mano e tanta pazienza nella bisaccia...
Che cosa hanno aggiunto alla devozione popolare le visite dei Pontefici e che cosa ci si deve attendere da questa nuova Ostensione e dalla prossima visita di Benedetto XVI?
I miei ricordi giungono solo fino a Giovanni Paolo II, che venne a Torino poche settimane prima di essere eletto Papa, nel 1978, e poi ebbe un’Ostensione privata nella sua visita del 1980. Ma la visita per eccellenza fu il pellegrinaggio del 1998. Erano giorni di evidente sofferenza, eppure sostenne il peso della giornata con grande coraggio, rifiutando di servirsi dell’ascensore per salire in Duomo. Anche la parola venne con difficoltà, ma ciò che disse rimase nel cuore di tutti ed è insegnamento rivisitato anche oggi, per una sana distinzione fra quanto è essenziale e quanto lo è meno nella devozione sindonica. L’esempio dell’adorazione al Santissimo Sacramento che precedette la venerazione della Sindone fu accolto da tutti con commozione. La visita di Benedetto XVI che attendiamo per il 2 maggio ci porterà certamente nuovo aiuto alla riflessione e incoraggiamento nella pastorale ispirata al messaggio della Sindone.

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