domenica 17 gennaio 2010

16/1/2010 PortaParola Ravenna


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Da “Avvenire” di mercoledì 13 gennaio 2010
EMERGENZA HAITI
LA CARITAS LANCIA LA COLLETTA


La Caritas Italiana lancia un appello per l'emergenza vittime del terremoto di Haiti. È un'«enorme catastrofe, migliaia le vittime.
I danni sono enormi" afferma l'organizzazione che si è già attivata per gli aiuti anche a livello locale. Haiti - ricorda - è il paese più povero dell'America Latina ed è periodicamente provato da calamità naturali e crisi sociali. Dei circa nove milioni di abitanti, su una superficie che è poco più di quella della Sicilia, oltre la metà vive con meno di un dollaro al giorno.
La Caritas di Haiti, nata nel 1975, oltre ai consolidati impegni in settori fondamentali come l'alimentazione, la salute, l'educazione e l'abitazione, lo sviluppo integrale, si è sempre attivata in ogni emergenza e anche in questa occasione ha avviato aiuti d'urgenza, in coerenza con quella che il suo presidente, Mons. Pierre Andrè Dumas, vescovo di Anse--Veau et Miragone, ha definito «una pastorale samaritana, di prossimità, attenta alle piccole comunità, con una rinnovata opzione per i più poveri».
La Caritas Italiana da anni sostiene la Chiesa locale - in particolare per le emergenze e per interventi di promozione della donna e di economia solidale - ed ha prontamente manifestato vicinanza e solidarietà. In collegamento costante con l'intera rete Caritas, lancia un appello per poter contribuire alla realizzazione del piano d'emergenza. Per sostenere gli interventi in corso si possono inviare offerte a Caritas Italiana tramite

C/C POSTALE N. 347013
specificando nella causale: Emergenza terremoto Haiti


Offerte sono possibili anche tramite altri canali, tra cui:

- UniCredit Banca di Roma Spa, via Taranto 49, Roma
Iban: IT50 H030 0205 2060 0001 1063 119

- Intesa Sanpaolo, via Aurelia 796, Roma
Iban: IT19 W030 6905 0921 0000 0000 012

- Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma
Iban: IT29 U050 1803 2000 0000 0011 113

- CartaSi e Diners telefonando a Caritas Italiana tel. 06 66177001 (orario d'ufficio)

La Croce Rossa. La Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa ha immediatamente allertato il proprio Centro Logistico di Soccorso che si trova a Panama per fronteggiare il terribile terremoto che ha colpito Haiti. Una squadra di valutazione è stata inviata sul luogo del disastro ed un primissimo stanziamento di 1,7 milioni di Euro è stato effettuato per venire incontro alle prime necessità. Tutte le 186 Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa sono state poste in stato di allarme per l'organizzazione di un ponte aereo per inviare soccorsi sanitari, viveri, coperte e tende.La Croce Rossa Italiana fa appello alla solidarietà degli italiani per sostenere questo intervento di aiuto umanitario. I contributi finanziari, raccolti dalla CRI, saranno impiegati a sostegno delle attività di assistenza alle popolazioni terremotate, in stretta collaborazione con la Croce Rossa haitiana e la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

Unicef. «Nonostante i gravi danni subiti ai propri uffici a Port-au-Prince, l'Unicef si è subito attivato per fornire un aiuto immediato alle vittime del terremoto che ha colpito oggi Haiti». È quanto afferma il Presidente dell'Unicef Italia Vincenzo Spadafora. «In coordinamento con le altre agenzie delle Nazioni Unite presenti aggiunge - l'Unicef fornirà gli aiuti necessari per garantire accesso ai servizi igienici, all'acqua potabile e all'assistenza sanitaria di base». «È necessario - prosegue Spadafora - che i bambini, i più vulnerabili in caso di catastrofi naturali, siano protetti.
Già da queste prime ore chiediamo a tutti i donatori e alle aziende di sostenere la nostra raccolti fondi per le vittime del terremoto di Haiti. È un forte appello che rivolgiamo all'opinione pubblica: non lasciamo soli i bambini di Haiti.

Da “Avvenire” di venerdì 15 Gennaio 2010
UNISONO SQUASSATO DEL MONDO
PER SPEGNERE L’INFERNO
ROBERTO MUSSAPI

Scene di inferno: le abbiamo viste e le vediamo, in internet e in televisione, le raccontano i reporter. E la discesa a Port-au-Prince ha i toni di una periglio­sa discesa infera dal piccolo charter no­leggiato faticosamente a Santo Domingo dalla troupe di una tv americana. Nelle ri­prese, l’approssimarsi all’inferno: le case crollate, i palazzi sventrati, voragini e in giro poche persone, quasi tutte a piedi. E poi, in un montaggio da incubo, alle im­magini si fondono le frasi riportate, sen­tite o lette, la terra che ondeggia, la fitta nube di polvere che copre ogni cosa, tan­ta gente che stringe tra le braccia i corpi dei propri cari. Il fatto che quelle braccia e quei volti e quei cadaveri siano presso­ché universalmente neri rende più ango­scioso l’incubo: nella loro pelle nera c’è un precedente inferno nel quale l’uomo bianco – dall’età della conquista spagno­la e francese e poi della pirateria inglese fino a oggi – ha fatto di quella gente bel­lissima una popolazione disperata, la più povera del mondo occidentale.
Poi, accanto, anzi attorno alla tragedia, un fiume di notizie di segno inverso: i so­cial network che vincono il black out te­lefonico, le voci che subito annunciano, comunicano, mettono in contatto, una frenesia immediata nella reazione del mondo. I primi gruppi che arrivano nel­la capitale rasa al suolo, medici, parame­dici, attrezzature per creare ospedali da campo, un tam-tam incessante in tutto il globo, un messaggio ossessionante e li­taniante, una sommessa e inconscia pre­ghiera globale. Accadono cose senza tregua, il mondo pare muoversi all’unisono, un unisono paradossale, disordinato, squassato dal terremoto.
Accade qualcosa, nella tragedia, qualco­sa di antico e qualcosa di nuovo e strano. Accade l’angoscioso e spontaneo dilem­ma espresso e risolto ieri in un abbraccio dolente e vitale da Davide Rondoni: o ma­ledire Dio o pregarlo (ed è naturale per o­gni credente conoscere anche una parte dell’uomo che si ribella a Dio, senza la quale molto spesso avrebbe avuto poco senso accettarlo, e a volte desiderarlo). Ma il dilemma, che ci assedia, non è tut­to. Accade, dolorosa, umile e potente, la preghiera consapevole e tutta offerta. E accade l’azione di chi magari non si sof­ferma sul senso che può avere una simi­le sventura, sul suo significato profondo («O Dio o il nulla governano il mondo»), ma si mette immediatamente in comu­nicazione con l’inferno per spegnerlo, non annullarlo ma attenuarne le deva­stazioni. Migliaia di uomini pratici e for­se poco propensi al pensiero, che, per na­tura altruistica (esistono tali nature), per elementare istinto di solidarietà si met­tono in moto.
Così il dilemma s’inscrive in un contesto più vasto, imprevedibile, ricco e sor­prendente: tanti uomini, di importanza mondiale come capi di Stato o delle Na­zioni Unite, o del tutto sconosciuti, mili­tari, tecnici, volontari, che senza porsi al­cuna domanda si buttano al lavoro, al computer, al telefono, a raccogliere fon­di, voci, appelli, o sbarcando con attrez­zature sofisticate come siamo abituati a vedere in guerra… Accadono uomini che si lanciano verso l’eroica resistenza all’inferno, nel sogno di una ricostruzione impossibile (la vita umana non si restituisce in terra), ma che adombra la fede in qualcosa che superi la tragedia stessa, obbedendo, senza sa­perlo, al sogno che espresse in pieno No­vecento il poeta Dylan Thomas: «E la morte non avrà dominio».

Da “Avvenire” di venerdì 15 Gennaio 2010
TRA CARICATURE DATATE E IL NO DELLA BONINO AL QUOZIENTE FAMILIARE
Quel pregiudizio delle élite sul «familismo» italiano
PIER LUIGI FORNARI


Non sembra che Emma Bonino abbia pronun­ciato il suo drastico 'no' al quoziente fami­liare conti alla mano.
L’esponente radicale candidata per la presi­denza del Lazio tantomeno pare aver va­lutato gli effetti prodotti da questo siste­ma e da altri simili di favor familiae adot­tati in alcuni Paesi europei, dove non si è prodotta la segregazione domiciliare del­le donne tanto temuta dalla parlamenta­re pd. Ma il punto di fondo è un altro: perché il fisco non dovrebbe trattare la famiglia come un’unica squadra nella quale si decide d’accordo 'chi' gioca e 'dove' nell’interesse di tutto il team? Per­ché i rapporti tra coniugi e figli devono essere assimilati al rapporto oppressori­oppressi e non a quelli di un 'collettivo' vincente?
Una spiegazione può venire da una lettu­ra attenta del libro ( L’Italia fatta in casa) di Alberto Alesina e Andrea Ichino, che nella sostanza propugna le stesse tesi della Bonino. I due economisti, spalleg­giati da autorevoli analisi di Francesco Giavazzi, hanno abilmente riciclato la leggenda nera di un’Italia cronicamente malata di «familismo amorale», le cui ne­faste conseguenze sarebbero addirittura mafia, illegalità, lentezza della giustizia civile, ecc. Una caricatura imposta fin da­gli anni Cinquanta sulla base di un’inda­gine circoscritta a un piccolo paese del potentino, Chiaromonte, da Edward C.Banfield, sociologo Usa con un lungo training nelle agenzie governative. Stra­namente il testo che riporta l’obsoleta in­dagine ( Le basi morali di una società arre­trata ) è stato ripubblicato un anno fa, no­nostante in cinquant’anni le cose siano cambiate, e di molto, in tutto il pianeta.
L’accusa lanciata contro l’Italia era la mancanza di senso civico in confronto al pullulare di associazioni a St. George (U­tah) negli Usa. Il sociologo americano af­fermava esplicitamente, peraltro, che la redenzione della nostra gente sarebbe potuta giungere da una missione prote­stante. Banfield additava perfino l’esem­pio delle campagne culturali condotte in tal senso in Brasile. Per fortuna nessuno ebbe il cattivo gusto di ripagarlo con la sua stessa moneta, anche se la tentazione di farlo certo non mancava: si pensi alle suggestioni suscitate dai film Usa con i quali in quegli anni si bombardò il nostro Paese. Del resto già nell’Assemblea costi­tuente il conquistatore del Polo Nord, Umberto Nobile (eletto come indipen­dente nelle liste del Pci), lamentava i di­vorzi facili e a ripetizione dell’american way of life.
Lo stigma del «familismo amorale» fu magistralmente confutato dalla sociologa Loredana Sciolla (nel libro Italiani, stereo­tipi di casa nostra, 1997) dimostrando co­me nella storia la nostra cultura relazio­nale, al cui centro c’è anche la famiglia, ha originato un fiorire di confraternite e associazioni così come la tradizione forte dell’autonomismo locale. Come mai quel lavoro scientifico non ha avuto la consi­derazione che meritava? Alcune élite hanno cercato di inculcare un diffuso senso di colpa per una supposta menta­lità familista. Un contributo venne anche dal modo in cui fu raccontata nel film di Vittorio De Sica («Ieri, oggi, domani») la vicenda di una venditrice abusiva di siga­rette che per non essere arrestata ricorre­va a una lunga serie di maternità. «Tiene a panza, tiene a panza, cià, cià, cià», gri­dava dietro ad 'Adelina', interpretata da Sofia Loren, una frotta di bambini nel contesto di una Napoli degradata. Simili stereotipi hanno fatto dimenticare che personalità italiane di notevole calibro sono nate in famiglie numerose.
Anche una rilettura attenta delle criticità del mondo anglosassone potrebbe aiu­tarci a riscoprire il valore delle nostre ra­dici: è il caso del film di Ken Loach Fa­mily life (1971), nel quale il regista britan­nico ha raccontato la vicenda di una gio­vane inglese portata alla follia dal peso del moralismo puritano perché rimasta incinta. «Di aborto nemmeno parlarne», dice la madre, che di fatto la induce a in­terrompere la gravidanza. Ebbene, quella mentalità con la sua repressione dei sen­timenti e la rimozione della coniugalità non appartiene al cuore delle nostre radi­ci culturali. E neppure a quelle di Adelina. Radici, appunto, familiari.

Da “Avvenire” di venerdì 15 Gennaio 2010
LA SENTENZA DI SALERNO, IL SENTIRE DEL CUORE, L’« INVISIBILE » VERITÀ
Gli embrioni «sbagliati» sono morte data, sono lutti
MARINA CORRADI

Una figlia perduta a sette mesi, tre aborti, un unico bambino sano. Con questa odissea alle spalle una coppia portatrice di una grave malattia genetica ha ottenuto da un giudice l’autorizzazione a ricorrere alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto – per scartare gli embrioni malati e individuare quelli sani. Che la legge 40 da questa sentenza sia violata, è una evidenza: la procreazione assistita è solo per le coppie sterili, e la selezione degli embrioni, in Italia, è eugenetica. Una vicenda umana dolorosa è stata usata per aprire una breccia nella legge. E tuttavia, dire questo non basta. Non basta per quella coppia né per gli altri come loro e nemmeno per tanti che ascoltano la storia in tv, e pensano che in fondo una eccezione, dopo tanti lutti, sia giusta. In un 'sentire del cuore' che contrasta con la rigidità dei codici.
Eppure a volte il cuore, o almeno questa parola usata nella sua accezione sentimentale, non vede bene. Perché la realtà è che ai quei genitori viene consentito di 'produrre' molti germi di figli, che saranno scrutati e analizzati; a quello 'perfetto' verrà data una possibilità di vita, gli altri, segnati dal loro stigma, cancellati. Nel nome del 'diritto alla salute', espressione usata dal giudice, quei principi di uomo saranno eliminati. (Paradossale: essere uccisi per il 'diritto alla salute' di altri).
Il fatto è, e lo diciamo con rispetto verso chi ha il dolore di non poter avere figli sani, che un fattore manca in questa somma di diritti e di poteri, che porta al 'sì' della sentenza di Salerno. Quei figli abortiti, e quella persa a pochi mesi di vita, e quello vivo e tanto amato, sono stati, in principio, uguali agli embrioni che si vogliono scartare. Davvero si può negare questa prima uguaglianza, e accettare che gli 'sbagliati' siano buttati via come cose? Per avere un figlio sano, quanti difettosi fratelli annientati, e, davvero è buon cuore consentire, per soddisfare il desiderio di paternità, questa silenziosa strage?
Certo, sono invisibili quei semi, e ciò che è invisibile agli occhi raramente ci commuove. Però lo sappiamo in fondo che nel principio è già scritto, intero, un uomo. Lo sappiamo, che nel seme è inciso se avrà gli occhi chiari, e i capelli, e le mani grandi di suo padre. Tutto è già scritto, in quel frammento da niente; come uno straordinario 'file' che attende solo per dispiegarsi il calore di una madre.
La ragione del no alla selezione è questa. È il rispetto a un bene molto grande, benché infinitamente piccolo.
Anche se non si vedono, quegli embrioni rifiutati sono morte data, sono lutti. È una coscienza, questa della pienezza del principio, che avevano molte delle nostre madri, e che ora neghiamo. Non è ancora figlio quel grappolo di cellule, ci diciamo per tollerare l’aborto. Ma lo sappiamo invece, e lo conferma la scienza, che a poche ore dal concepimento il disegno è già vergato, unico, non ripetibile: il disegno di quell’ uomo.
E le sentenze argomentino pure di un 'diritto alla salute' e di un ideologico 'diritto alla procreazione', che nessun codice ci potrà mai garantire. Evochiamoli pure questi diritti immaginari, che nella vita un istante di malattia o di disgrazia bastano a contraddire drammaticamente. La realtà non ideologica, innegabile, carnale, è invece quel grappolo di cellule che cresce, e forma gli occhi e le mani, mentre il cuore già batte: in un disegno inesorabilmente ordinato a vedere la luce.


Da “Io amo l’Italia” di Magdi Cristiano Allam
(Magdi Cristiano Allam è deputato al parlamento europeo nel gruppo del Partito Popolare Europeo)
ISLAM E INTEGRAZIONE - Le difficoltà riguardo la costruzione di moschee
La libertà di culto è un principio irrinunciabile per ogni nazione che si voglia definire civile. Però vi sono alcune condizioni affinché i culti siano rispettati: reciprocità e rispetto dei diritti umani
Andrea Sartori (Insegnante)

E' odioso pensare di negare luoghi di culto ad appartenenti a religioni differenti, però non possiamo non tenere conto di episodi che ci invitano alla cautela sui luoghi di culto islamici.
Il primo, ed è una faccenda tutta interna all'islam, è la mancanza di unità. L'imam Sergio Yahya Pallavicini ha dichiarato che i musulmani milanesi non hanno "luoghi di culto dignitosi". Però nel caso dell'erezione di una moschea, quale sarebbe l'islam che vi si seguirebbe? La Coreis, l'associazione dei Pallavicini, è molto peculiare, ad esempio: innanzitutto raccoglie solo italiani convertiti, in secondo luogo ha un'impostazione eminentemente mistica e non politica. Forse è la forma di islam più compatibile con la nostra civiltà, ma è certamente elitaria. Dall'altra parte vi sono gli Abu Imad e i predicatori dell'islam più violento.
Negli ultimi mesi è stata spesso ascoltata la voce di Hamid Abdel Shaari, rettore di Viale Jenner, moschea jihadista. Poi vi sono le moschee che fanno capo ai Fratelli Musulmani, quindi ad un islam fortemente politico ed autoritario, che intenderebbe imporre la sharia: la legge islamica che prevede la pena di morte per le adultere o il taglio della mano per i ladri. Quella sharia che indirettamente ha condannato sia Hina che Sanaa. Allora, quale islam è quello cui si fa riferimento?
Poi c'è il nodo della reciprocità: se l'islam vuole convivere con noi deve accettare le regole del libero pensiero e della reciprocità.Questo è il passo più difficile per una religione ancora fortemente autoritaria e che non tollera critiche. Invece il gioco deve essere il medesimo cui si sottopongono cristianesimo, ebraismo, buddhismo e ogni altra fede in occidente: la possibilità di essere criticata o di perdere fedeli.
Sappiamo come il cristianesimo venga quotidianamente attaccato. Ma queste sono le regole della libertà di coscienza, e come tali vanno rispettate. Ma dai pulpiti non si lanciano inviti a ripristinare l'inquisizione, bensì confutazioni. Se si è sicuri della propria fede non si risponde attraverso minacce, ma con argomenti.
L'islam non tollera ancora la critica: i casi delle vignette danesi, o di Salman Rushdie ne sono la prova. Anche il caso di Oriana Fallaci, insultata e minacciata. Oggi vediamo che Daniela Santanché viene aggredita per le sue posizioni. Odifreddi o Margherita Hack non sono mai stati aggrediti, e la Chiesa non ha chiesto certo la testa di Vauro per le sue vignette.
Non si può convivere con chi non accetta critiche, questo è logico. Non è una questione di razzismo, è una questione di buonsenso.L'islam, per vivere nel nostro mondo, deve accettare la reciprocità, che si traduce nel "libero mercato delle religioni" (espressione usata da Messori, piuttosto brutta ma che rende bene l'idea): i musulmani devono accettare che alcuni di loro possano allontanarsi dalla fede così come lo ha accettato la Chiesa a partire almeno dalla fine del Settecento.
Molti imam ripetono il celebre versetto coranico "Non vi sia costrizione nella religione" però lo smentiscono nei fatti. Anche la condanna del comportamento di Sanaa da parte della madre è una preoccupante spia della pericolosità di questo atteggiamento. Sanaa non rubava, non commetteva nessuna azione disonesta, anzi aveva un lavoro e viveva una relazione con un ragazzo. Il fatto che si condanni il fatto che ha amato la "persona sbagliata" perché non musulmana e che con questa argomentazione si sminuisca di fatto la gravità del gesto del padre rende un tipo di mentalità inaccettabile. Perché nessuno si può e si deve permettere, eccettuati casi gravi, di intromettersi nella libertà d'amore ("sacra quanto la libertà di parola" diceva Victor Hugo). Ma questi insegnamenti provengono dalle moschee. Provengono da un insegnamento religioso che non viene proposto, ma imposto. E che di fatto va a distruggere la vita delle giovani generazioni.
Tutte le religioni sono bene accette, a patto che rispettino i diritti umani fondamentali. Lo Stato deve farsene garante, visto che l'Italia comunque è una nazione rispettosa dei diritti umani. E quindi non deve chiudere gli occhi dinanzi a tali cose. Ma il discrimine principale devono essere i diritti umani.

I principali diritti umani violati a causa della predicazione nelle moschee sono:
1 L'uguaglianza tra uomo e donna (che sono violati dal concetto di poligamia, dal velo, dalla sottomissione ad un tutore maschio, dall'impossibilità di contrarre matrimonio con un non musulmano mentre all'uomo è permesso)
2 La libertà di coscienza, che si risolve nella condanna dell' "apostasia" (termine già odioso di per sé, e di sapore realmente medioevale ed inquisitorio: dalle nostre parti gli ex cristiani sono chiamati "convertiti" e non subiscono persecuzioni)
3 La contemplazione e l'applicazione della pena di morte contemplato nella sharia non solo per reati gravi, ma anche per cose che di fatto non ledono nessuno (come l'abbandono della religione); o solo una persona, e non in maniera grave (come l'adulterio)
4 La divisione della società in "musulmani" e "non musulmani", considerati questi ultimi inferiori e, nell'eventualità di un predominio islamico, sottoposti a restrizioni e a tasse se monoteisti, forzati a scegliere tra la conversione e la morte se politeisti o atei: una forma di razzismo religioso inaccettabile.

Qualora nelle moschee si propagandino tali ideologie, non è possibile tollerare un luogo di culto islamico. Qualora si dia un'altra lettura della religione, allora è possibile.
La reciprocità inoltre coinvolge anche una situazione a livello internazionale: la difficoltà di erigere luoghi di culto non islamici in molti Paesi musulmani, e il veto assoluto di praticare una forma di culto diversa dall'islam in Arabia Saudita. I difensori di tale misura saudita argomentano capziosamente che non esistono moschee in Vaticano (argomentazione risibile già se si confrontano le dimensioni di Città del Vaticano e dell'Arabia Saudita). Ma i luoghi di culto non islamici non sono vietati solo nelle città sante della Mecca e di Medina (cosa che potrebbe avere un senso, se proprio vogliamo. Anche se è possibile ai musulmani entrare in Vaticano, ma non ai non musulmani entrare alla Mecca o a Medina), ma su tutto il territorio saudita. Seguendo questa logica aberrante bisognerebbe vietare la costruzione di luoghi di culto non cattolici in tutta Italia. La più grande moschea d'Europa è a pochi chilometri da Città del Vaticano.
E se vogliamo parlare di reciprocità anche con altri culti, esistono moschee a Lhasa e in Tibet, la "Mecca" del buddhismo, ed ebbero anche privilegi sotto alcuni antichi Dalai Lama. Anche questo è un punto che non va ignorato.

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