domenica 17 gennaio 2010

9/1/2010 PortaParola Ravenna

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Da “Avvenire” di giovedì 7 gennaio 2010
CELEBRATA L’EPIFANIA. IN TUTTA ITALIA L’ARRIVO DEI MAGI NEI PRESEPI VIVENTI
Il Papa: troviamo il coraggio di essere bambini nel cuore GENNARO MATINO

LA MANIFESTAZIONE DI UN DIO COSÌ GRANDE DA FARSI PICCOLO
RICONOSCERE IL MESSAGGIO RESISTERE AGLI ERODI DI OGNI TEMPO


L’Epifania è un giorno che rac­conta luce svelata, è un gior­no di straordinario fascino: e, ieri, il Santo Padre si è lasciato illumi­nare dalla luce della pagina di Mat­teo e l’ha riflessa nel significato quotidiano dei nostri giorni.
Nel co­gliere l’apparente distanza tra il te­sto di Isaia e quello di Matteo, tra la profezia e la realtà della grotta di Betlemme, Benedetto XVI ci ha ricordato come invece tra la pro­messa e l’adempimento non vi sia affatto una frattura, ma la difficoltà dell’uomo di comprendere le vie di Dio, perché le sue parole non sono le nostre parole, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri. Imprigiona­to in categorie propriamente uma­ne, identificando l’onnipotenza in una sorta di strapotere capace di schiacciare e sottomettere chiun­que, l’uomo di ogni tempo è inca­pace di comprendere che l’onni­potenza di Dio è tale perché Dio è Amore, amore infinito, gratuito che dona se stesso, il Figlio unigenito, per la salvezza dei suoi figli: «La sua grandezza e potenza non si espri­mono nella logica del mondo, ma nella logica di un bambino inerme, la cui forza è solo quella dell’amo­re che si affida a noi».
Gaspare, Melchiorre, BaldassarreRavenna, Basilica di Sant'Apollinare in Classe, ca 600.Indubbiamente, ha spiegato il San­to Padre, rispetto alla splendida vi­sione di Isaia, in cui la grande luce di Dio avrebbe attirato a sé tutti i re delle nazioni, «quella che ci pre­senta l’evangelista Matteo appare povera e dimessa: ci sembra im­possibile riconoscervi l’adempi­mento delle parole del profeta I­saia. Infatti, arrivano a Betlemme non i potenti e i re della terra, ma dei Magi, personaggi sconosciuti, forse visti con sospetto, in ogni ca­so non degni di particolare atten­zione ».
È dunque comprensibile che da sempre l’uomo sia rimasto affascinato dalla visione di Isaia, più che dal racconto di Matteo, tanto che ancora oggi, ha ricorda­to il Papa, nei nostri presepi i Ma­gi vengono rappresentati con vesti da re, su cammelli e dromedari. Eppure, al di là dell’apparente con­traddizione, della potenza e della crudeltà di Erode, che costringe al­la fuga la Sacra Famiglia, nono­stante «l’episodio dei Magi sembra essere cancellato e dimenticato», il Santo Padre ha colto in tutta la sua pienezza l’adempimento del­la profezia nella pagina di Matteo.
L’episodio dei Magi non si chiude con il ritorno frettoloso alle loro terre, non scompaiono dallo sce­nario della storia della salvezza. Al contrario per Benedetto XVI «quei personaggi provenienti dall’O­riente non sono gli ultimi, ma i pri­mi della grande processione di co­loro che, attraverso tutte le epoche della storia, sanno riconoscere il messaggio della stella, sanno cam­minare sulle strade indicate dalla Sacra Scrittura».
Le parole del Papa sono dunque un forte invito a seguire la stella, ad a­prire gli occhi e il cuore per abban­donarci all’amore di Dio. Come i Magi nell’offrire oro, incenso e mir­ra, segno della regalità e divinità di quel Bambino che avrebbe ingoia­to la più amara delle erbe, dichia­rano la loro sottomissione al pic­colo Re, così noi tutti, uomini del­la terra, di Oriente e di Occidente, del Nord e del Sud siamo chiamati a scegliere tra la presunzione del mondo e «l’umiltà autentica», tra il potere della terra e il vero coraggio «di essere bambini nel cuore, di stu­pirsi, e di uscire da sé per incam­minarsi sulla strada che indica la stella, la strada di Dio».
E chi si la­scia illuminare dalla stella come i Magi non può più tornare indietro, né può sottomettersi al potere de­gli Erodi di ogni tempo, ma seguirà la luce, quella dell’amore di Dio, che sempre si manifesta tra i poveri, tra gli ultimi della terra.
L’invito del Santo Padre a incamminarci sulla strada segnata dalla stella è un in­vito coraggioso a non lasciarsi vin­cere dalla notte, la notte della crisi economica, la notte della violenza, del terrorismo, è un invito a non ri­manere indifferenti di fronte alla stravolgente novità di un Dio che si fa carne per rimanere vicino a noi.
Un Dio così grande da farsi picco­lo, che facendosi Bambino ha l’u­miltà di affidarsi alle nostre cure per poter crescere nel nostro cuore, nel­la nostra storia, nella storia del mondo.

Da “Avvenire” di mercoledì 6 gennaio 2010
A TREVISO UNA STORIA DI NATALE TUTTA DA RACCONTARE
Sara e il suo bambino: gran notizia che non fa rumore
GABRIELLA SARTORI

Fino all’Epi­fania le favole di Natale si possono raccontare. Se poi sembrano favole ma sono storie vere, raccontarle è necessario.
La notte del 23 dicembre scorso, Sara, di Montebelluna, Treviso, trentadue anni, incinta alla ventinovesima settimana, si sente male. Diagnosi pesante: « aneurisma dissecante all’aorta ascendente » , patologia molto grave in sé ma ancora più grave in quanto Sara non solo è incinta ma ha anche già subito un importante intervento al cuore, di diversa natura, nel 2005. Sara e il bambino che porta in grembo hanno bisogno urgente di ricovero in una struttura altamente attrezzata: se no, moriranno tutti e due. Comincia il giro convulso di telefonate in vari ospedali del Veneto e del Friuli, ma il posto non si trova: periodo difficile, molti operatori hanno appena cominciato le agognate ferie natalizie. All’ospedale civile ' Ca’ Foncello' di Treviso, il cardiochirurgo professor Carlo Valfrè, con la sua équipe, è impegnato in un intervento d’urgenza. Ma i dirigenti di Ca’ Foncello non si arrendono. Con un giro di telefonate, fanno l’impossibile per reperire altro personale in tempi record, medici, infermieri, ostetriche, anestesisti: e ci riescono. Anche perché trovano in tutte le persone allertate la massima disponibilità a tornare immediatamente in servizio anche se sono appena rientrati a casa per il meritato riposo e si apprestano a festeggiare il Natale in famiglia.
Nessuno dice di no: in poche ore nasce una seconda équipe cardiochirurgica in grado di far fronte alla difficile situazione.
L’elicottero del Suem porta la mamma Sara a Ca’ Foncello alle sedici e trenta. Comincia l’intervento. Sara dice: pensate prima al bambino. Così si fa: alle sedici e 41, il primario di ginecologia Giuseppe Dal Pozzo e la patologa neonatale dottoressa Linda Bordignon portano alla luce Lorenzo, 942 grammi di peso, vitale e sano. È il primo bambino trevigiano che nasce in cardiologia.
Poi comincia l’intervento su Sara: otto ore di duro lavoro e alle due di notte della vigilia è salva anche lei.
Cardiologia dei miracoli quella natalizia di Treviso? Chi se ne intende, dice che l’espressione non è esagerata. Però di questa meravigliosa storia nessuna traccia è arrivata sui mass media nazionali.
I quali, anche a Natale, non hanno mancato di informarci di tutt’altre vicende. Vedi il caso della sfortunata bambina di Agrigento che ha perduto la vita in quanto non soccorsa in tempo dai volontari (?) del 118: che avrebbero litigato per ore su chi avesse il compito di intervenire prima di passare ai fatti.
O l’altra bambina di Cosenza, cui medici... disattenti, hanno ingessato il braccino sano invece di quello rotto. Anche stavolta, il circo mass- mediatico italiano ha obbedito all’antica , cinica legge secondo la quale « una buona notizia non è una notizia » . E che importa se, a dare solo cattive notizie, si altera in negativo il profilo morale e professionale del Paese, si distrugge la speranza delle persone, si scoraggiano i giovani.
Nel suo discorso di Capodanno alla nazione, il presidente Napolitano ha detto con forza che l’Italia reale è migliore di come la si fa apparire. Il presidente dice il vero, e chi sta in mezzo alla gente lo sa. Tanto più noi credenti per i quali Natale o ' è' la Buona Notizia o non è Natale. Per questo, noi sappiamo che, a Treviso, quest’anno il Bambino è nato in un reparto di cardiologia, che sua madre, che l’ha voluto a rischio della vita, si chiama Sara, che gli angeli sono scesi dal cielo con l’elicottero del Suem, e che i pastori che l’hanno soccorso indossavano i camici bianchi della sala operatoria. È una buona notizia: e vogliamo che sia conosciuta.

Da “Avvenire” di giovedì 7 gennaio 2010
INTITOLATA AD ALDO MORO L’UNIVERSITÀ DI BARI
Un debito saldato Un obiettivo cruciale DOMENICO DELLE FOGLIE

Forse Bari ha finalmente saldato il suo debito d’onore nei confronti dell’uomo che più le ha dato lustro nel secolo scorso: Aldo Moro. Il senato accademico ha infatti deciso di intitolare l’Università degli Studi allo statista pugliese, nato a Maglie ma studente e poi professore di Diritto penale nell’Ateneo barese. Il presidente della Democrazia cristiana rapito e ucciso dalle Brigate Rosse, il cui nome ha segnato anche la ritrovata forza della nazione nel combattere l’eversione terroristica, sarà forse ricordato più facilmente dalle generazioni future. E quanto serva la memoria nel nostro Paese è facile verificarlo facendo solo qualche domanda a tanti nostri giovani, forse a più agio con il Grande Fratello o con X Factor. La decisione del senato accademico, peraltro, sana formalmente un vecchio problema: viene infatti abrogata la vecchia intestazione al cavaliere Benito Mussolini. Caduta effettivamente in disuso dopo la Liberazione e bandita dalla legge, non era mai stata annullata con un atto ufficiale dell’Ateneo. Ora un voto rimette le cose a posto.
In queste ore in cui la Puglia fa notizia soprattutto per la difficoltà nel trovare i candidati giusti nella corsa alla presidenza della Regione e mentre a Milano si discute sull’opportunità di intitolare una piazza a Bettino Craxi, è confortante che almeno sul nome di Aldo Moro si trovi un’ampia intesa, sia pure dopo un dibattito approfondito e con un voto contrario che resta agli atti. Il 'no' è quello del giovane rappresentante degli studenti di Azione universitaria, formazione di destra, che così ha motivato la sua scelta: «Intitolare l’Ateneo a un uomo politico connota eccessivamente la nostra Università e non ci permette di riconoscerci in essa'» In queste parole, c’è tutto il retaggio di un giudizio politico che affonda le radici in alcune scelte strategiche di Aldo Moro, dal centrosinistra alla solidarietà nazionale. Se quelle opzioni politiche alle quali lui spinse non senza pesanti contraccolpi personali (e anche ecclesiali) l’intera Democrazia cristiana, nella quale la sua corrente non superò mai il 4/5 per cento, hanno trasformato e segnato la storia repubblicana, è certamente vero che Aldo Moro aveva soprattutto una grande aspirazione: allargare la base democratica del Paese. Una possibilità realizzabile, in quel contesto storico, solo estendendo la partecipazione alle masse popolari che si riconoscevano nelle diverse sinistre (socialdemocratica, socialista e comunista) che popolavano la scena politica italiana.
Questo può ancora oggi non piacere e creare dei moti di rifiuto, ma la storia recente della cosiddetta Seconda Repubblica sta lì a dimostrare che l’opzione morotea dell’allargamento della base democratica era assolutamente giusta. Basterebbe pensare all’ancora recente sdoganamento di Alleanza nazionale (anch’essa una formazione popolare), da parte di Silvio Berlusconi, per valutare con un occhio meno prevenuto le lontane scelte di Aldo Moro. Non si finirà mai di associare lo statista democristiano ai 'professorini' cattolici della Costituente, ma di sicuro è bello poterlo ricordare con una vecchia foto custodita nei polverosi archivi cartacei dei giornali. Lui che si affaccia dal finestrino di un treno, alla stazione di Bari, mentre parte per Roma. La sua mano accenna un saluto e un sorriso contenuto gli illumina il volto. Meglio ricordarlo così, piuttosto che nella istantanea che ne immortalò il corpo rannicchiato nella Renault 4, in via Caetani, quel terribile 9 maggio del 1978. Una vita fa.

Da “Avvenire” di giovedì 7 gennaio 2010
DOPO L’ITALIA ( E IL CROCIFISSO) NEL MIRINO L’IRLANDA ( E LA LEGGE ANTIABORTO)
I consueti bersagli «cattolici» dell’ormai solita Corte GIANFRANCO AMATO

Dopo i crocifissi in Italia, tocca alla legge antiabortista irlandese. Nei giorni scorsi si è svolta infatti a Strasburgo, davanti ai 17 giudici della Grande Camera della Corte europea dei Diritti dell’uomo, l’udienza sul ricorso promosso contro l’Irlanda a causa della sua legislazione contraria all’aborto. Il caso è giunto avanti alla Corte a seguito della richiesta avanzata da tre donne di veder riconoscere il 'diritto' di abortire anche nell’isola, anziché dover cercare – come loro hanno fatto – una soluzione in Inghilterra.
L’interruzione volontaria della gravidanza è illegale in Irlanda – a meno che la vita della donna non sia in grave pericolo –, tanto che persino la Costituzione è stata modificata nel 1983 per includere un emendamento pro­life: «Lo Stato – si legge nella Carta – afferma il diritto alla vita del nascituro e, tenuto conto dell’eguale diritto alla vita della madre, garantisce nella propria legislazione il riconoscimento e, per quanto possibile, l’esercizio effettivo e la tutela di tale diritto, attraverso idonee disposizioni normative».
Davanti ai giudici di Strasburgo, che si pronunceranno nei prossimi mesi, il governo irlandese non ha esitato a difendere a spada tratta la propria Costituzione e le norme che ne derivano in tema di aborto, argomentando che «il diritto alla vita del nascituro è basato su fondamentali valori morali profondamente radicati nel tessuto sociale irlandese». A prescindere dal merito dei singoli casi pendenti avanti la Corte (prima il crocifisso, ora l’aborto), la questione più generale che si pone è di capire se sia ammissibile che la cultura, la tradizione, i valori e persino le norme approvate in Parlamento attraverso un processo democratico possano essere messe in discussione da un organismo internazionale artificialmente creato e del tutto avulso dal contesto che è chiamato a giudicare. Il paradosso si ingigantisce se si considera che quella cultura, quelle tradizioni, quei valori e quelle leggi appartengono a uno Stato membro dell’Unione Europea e possono essere smantellate da un organismo che con l’Unione non ha nulla a che vedere. Sì, perché la 'Corte europea dei diritti dell’uomo', non è un’istituzione della Ue e non va confusa, come spesso accade, con la Corte di giustizia europea, che invece è, a tutti gli effetti, un’importante componente dell’architettura istituzionale comunitaria.
Gli strenui difensori dei princìpi liberali e democratici si dovrebbero porre il problema se sia giusto consegnare la sovranità popolare di un Paese membro della Ue nelle mani di 17 uomini delle più disparate estrazioni, visto che fanno attualmente parte della Corte anche giudici provenienti da Turchia, Macedonia, Albania, Montenegro, Moldavia, Georgia e persino dall’Azerbaigian. Sono costoro che hanno la facoltà di giudicare cultura, tradizioni, valori e leggi di Paesi civili e democratici del Vecchio Continente come l’Irlanda e l’Italia, accomunati – guarda caso – dal 'difetto' di essere entrambi di tradizione cattolica. Quando scoppiò il caso dei crocifissi, scoprimmo che il giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo in rappresentanza dell’Italia è Vladimiro Zagrebelsky, talmente imparziale da aver meritato il premio di 'Laico dell’anno 2008' conferitogli dalla Consulta torinese per la laicità delle istituzioni, aderente alla Ehf-Fhe, la Federazione umanista europea. E purtroppo abbiamo potuto già verificare che 'laicità' in questo caso non fa rima con 'terzietà' e neanche con 'serenità' (di giudizio).

Da “Avvenire” di domenica 3 gennaio 2010
L’ESTERNAZIONE DI UN MINISTRO DI ANKARA CONTRO LA CITTÀ DI BARI
Cose turche su san Nicola (ma non è un caso serio)
GIORGIO FERRARI

« Se costruiremo un museo a Demre, la prima cosa che faremo sarà quella di chiedere le spoglie di Babbo Natale».
Non è una battuta di un film dei fratelli Coen, è accaduto davvero. Il minaccioso avvertimento lo dobbiamo al ministro della cultura turco, Ertugul Gunay, che forse da bimbo fantasticava sulle figurine del Feroce Saladino, forse ha nostalgia delle rodomontate che noi europei abbiamo cantato tanto bene nelle Chansons de Geste medievali, o forse ancora la battuta gli è semplicemente sfuggita di bocca: fatto che sta che, a sentire Gunay, la Turchia pare proprio voler reclamare le spoglie di san Nicola, conservate come è noto a Bari, che l’intemerato ministro bolla come «città di pirati» e dalla quale vorrebbe strappare le reliquie del patrono per riportarle in Anatolia, precisamente a Demre, che un tempo si chiamava Myra, e dove Nicola fu vescovo nel quarto secolo.
Stiamo scherzando? Si spera, anche se è storicamente vero che nel 1087 una spedizione navale partita da Bari si impadronì delle spoglie del Santo che due anni più tardi furono poste definitivamente nella cripta della Basilica a lui dedicata. Ma che dire allora di tutti i tesori italiani finiti all’estero per mano di condottieri e saccheggiatori senza scrupoli? Dovessimo reclamarli, si svuoterebbero i musei di mezzo mondo, alcuni dei quali chiuderebbero i battenti. E come sorvolare sul fatto che della città di Myra i Turchi hanno cancellato storia cristiana e nome? Un pregio tuttavia l’alzata d’ingegno del ministro Gunay – che involontariamente ci mostra come la Turchia che anela a far parte della Ue stia già metabolizzando i difetti più antichi del Vecchio Continente – ce l’ha: quella di aver ricordato a coloro che non lo sanno che l’onnipresente Babbo Natale è in realtà una trasposizione relativamente recente della figura di san Nicola, santo generoso e apportatore di doni, venerato un po’ dovunque: fu infatti una campagna della Coca Cola americana a globalizzare negli anni Trenta del secolo scorso quel vecchio barbuto e vestito di rosso. I turchi dunque sono avvertiti: se fanno sul serio, dovranno seriamente considerare che un Santo cristiano non è un «bene culturale» commerciabile. E non si mette in museo

Da “Avvenire” di martedì 5 gennaio 2010
Anche in questa nostra epoca sotto il segno della torre e del povero
DAVIDE RONDONI

Due notizie apparentemente riferite a cose lontane colpiscono in questi giorni. Ieri è stata inaugurata a Dubai la torre grattacielo più alta del mondo. La Burj Khalifa di 828 metri di altezza. Su­pera di gran lunga le sorelle di Taipei (508) e le Petronas malesi di Kuala Lumpur (452).
Figuriamoci di quanto svetta su quei grattacielini oramai mignon che pur ci stupiscono ancora in giro per Manhattan o quelli progettati con gran sussiego a Milano. Però c’è un problema: Dubai è attraversata da una crisi profonda, e la torre che doveva gridarne la potenza e­conomica al mondo diviene un simbolo grottesco (e per metà sfitto, visto che gli appartamenti non son per nulla andati a ruba…). E l’altra notizia, ben approfon­dita da questo giornale domenica scor­sa, riguarda il numero di coloro che so­no in Europa a rischio povertà. Una cifra enorme, 78 milioni. A costoro un po’ di riparo viene dai cosiddetti 'ammortiz­zatori sociali'. E dalla gran carità diffusa tra il popolo.
La gran torre di Dubai è stata lanciata al cielo come segno di potenza. Facevano così già le famiglie medievali nelle no­stre città e nei bor­ghi d’Italia. Tra le due torri di Bolo­gna e questa nuova di Dubai corre un filo diretto: manifestazioni di pote­re e di prestigio. E l’Europa che si sta dotando di organi­smi politici di go­verno tesi a farne una potenza unica, scopre di avere co­sì tanti suoi abitanti sulla soglia della po­vertà. Due potenze che scoprono di non esserlo. O di esserlo molto meno di quan­to pensavano. La torre e il povero sono due segni della nostra epoca.
Forse i due principali segni della nostra epoca, si potrebbe dire come di ogni epoca. In ogni regno antico c’è stata la costruzione di torri e la plebe pian­gente. Così in ogni regno moderno e ora anche nella nostra epoca. Che pensa di essere diversa, che ha millantato per tan­to tempo d’essere la 'moderna', la 'nuo­va', la 'più avanzata', e invece si ritrova come le altre: con la torre che evoca un prestigio destinato a passare, e con le fol­le dei poveri vicino a casa, anzi in casa. C’è qualcosa di vertiginoso nell’accostare questi due segni. Queste due notizie sim­bolo. Dubai con il suo mercato finanzia­rio e immobiliare che parevano aver in­serito il turbo fino a pochi mesi fa, erano visti come la nuova mecca, il futuro. E l’Europa pur tra mille difficoltà raggiun­geva lo status di grande realtà politica, con un presidente, un ministro degli esteri (anche se quasi nessun europeo sa come si chiamano). Ma ecco che la grande co­struzione economico-finanziaria e la grande architettura politica mostrano la loro debolezza. La loro fragilità.
La torre e il povero. La torre in rovina già all’inaugurazione e il povero che non ces­sa di rovinare la festa alla corte dei po­tenti sono il segno anche della nostra e­poca. Che non è in definitiva né migliore né peggiore di quelle che i nostri avi si so­no trovati a vivere. Che non è più forte solo perché si autodefinisce più moderna. Il problema di ieri è anche il problema di oggi. Come ricorda il grande poeta Eliot: c’è qualcosa che non cambia nella storia degli uomini. Una lotta che non cambia. Tra bene e male, per la quale occorre es­sere buoni. La torre e il povero stanno ancora lì, come in ogni civiltà a ricordarci di cercare dav­vero quale è la nostra forza. Il Papa in que­sti giorni ha parlato di sobrietà e solida­rietà.
Solo l’uomo che ha una vera forza è capace di sobrietà e di solidarietà. È dei deboli il ricorso al lusso e all’egoismo. Ma allora, in questa nostra epoca ancora sot­to il segno della torre e del povero, da do­ve ci verrà la forza per costruire case per tutti e non totem, e ripari per chi ne ha bisogno? Da dove ci può venire la forza?

Da “Avvenire” di martedì 5 gennaio 2010
La seconda vita del pane “salvato” dal cassonetto DA MILANO PAOLO FERRARIO

Siticibo, Lastminute market e gli altri: ecco le storie di chi valorizza il recupero delle eccedenze alimentari e invita a sprecare di meno

Interi sacchi di pane destinati al­la spazzatura. Un pugno nello stomaco di quanti fanno fatica non solo ad arrivare alla fine del me­se ma, spesso, anche a coniugare il pranzo con la cena. L’allarme del pa­ne sprecato è ritornato drammati­camente in primo piano in questi giorni, insieme a quello per altre quantità di cibo gettate nella spaz­zatura. Ma è un trend inarrestabile? No. Da tempo infatti sono attive or­ganizzazioni che si occupano di rac­cogliere il pane in eccedenza e di di­stribuirlo ai poveri. Una di queste è Siticibo, che dal 2004 raccoglie e di­stribuisce cibo non consumato da refettori scolastici, mense aziendali, ospedali, alberghi, ristoranti e da al­tre strutture della ristorazione orga­nizzata (vedi dati nel grafico in pa­gina). L’idea è venuta a un’impren­ditrice milanese, Cecilia Canepa, che un pomeriggio, andando a recupe­rare i figli a scuola, ha assistito alla preparazione degli avanzi della men­sa per il camion della nettezza urba­na. Uno choc (che soltanto a Milano è quantificato in 180 quintali di pa­ne buttato ogni giorno) che presto si è tradotto in azione a beneficio di chi fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena.
Secondo gli ultimi dati Istat, in Ita­lia, dove si buttano, ogni anno, 6 mi­lioni di tonnellate di cibo, oltre 8 mi­lioni di persone non hanno la possi­bilità di avere una dieta alimentare diversificata e, rileva la Fondazione per la sussidiarietà, almeno 3 milio­ni sopravvivono in una condizione di vera e propria “povertà alimentare”. Dal 2004 al 2009, Siticibo, che fa ri­ferimento alla Fondazione Banco alimentare ed è presente in cinque città italiane (Milano, Como, Roma, Firenze e Modena), con i suoi 119 volontari ha raccolto e distribuito, ad 88 enti caritativi, 350 tonnellate di pane, per un controvalore commer­ciale di 770mila euro. «Nelle scuole dove raccogliamo il pa­ne non consumato – spiega la re­sponsabile nazionale di Siticibo, Giu­liana Malaguti – abbiamo assistito anche a profondi cambiamenti nel comportamento dei bambini nei confronti del cibo.
A loro raccontia­mo della fatica che, dal contadino che semina e raccoglie il grano fino al fornaio che lavora la farina e sfor­na le pagnotte, sta dietro alla roset­ta che trovano sul tavolo in mensa. È una metafora che fa centro e che spinge i bambini a rispettare il pane e a consumarlo con una consapevo­lezza maggiore, evitando di sprecar­lo ». Il pane non consumato dai piccoli milanesi finisce poi sulla tavola dei poveri ed emarginati. In questo sen­so, è molto interessante l’esperienza in atto con i Fra­telli di San France­sco, realtà che nella metropoli lombarda gestisce una mensa da 1.200 pasti al giorno. Il quantitati­vo di pane quotidia­namente necessario è garantito dalla rac­colta delle eccedenze alimentari di dodici scuole della città, che copro­no interamente il fabbisogno.
www. bancoalimentare.org
www.siticibo.it www. fratellisanfrancesco.it www.lastminutemarket.org

Trasformare lo spreco in risorsa è an­che l’obiettivo di Last minute market, un progetto della Facoltà di Agraria di Bologna, che da dieci an­ni raccoglie e ridistribuisce, a enti ca­ritativi che operano nel terzo setto­re, eccedenze alimentari in quaran­ta città italiane. Grazie a una fitta re­te di volontariato locale, è garantito il recupero “a chilometro zero”, «sen­za costi di trasporto e costi ambien­tali », come spiega il presidente An­drea Segrè, docente di Politica agra­ria internazionale e comparata. «Per favorire i più bisognosi – sottolinea il docente – non ci si può permette­re di sprecare neppure un minuto e nemmeno un prodotto». Di grande interesse è anche il risvol­to educativo che i volontari di Last minute market osservano tra i do­natori di cibo. «Nei punti di raccolta storici – racconta Segrè – le ecce­denze alimentari che noi intercet­tiamo sono sempre più contenute, segno che si produce e quindi si spreca di meno».
L’esperienza di Last minute market è stata presentata anche al recente K­limaforum di Copenaghen, in Dani­marca, dove il professor Segrè ha ri­velato che «il 10% delle emissioni di gas serra dei Paesi sviluppati deriva dalla produzione di cibo che viene giornalmente gettato». «Se il model­lo Last minute market venisse im­plementato sull’intero territorio ita­liano – aggiunge il professor Segrè – secondo i nostri studi sull’impatto ambientale, da tutto il settore distri­butivo dall’ingrosso al dettaglio, si potrebbero recuperare all’anno ben 244.252 tonnellate di cibo per un va­lore complessivo di 928.157.600 eu­ro. Sarebbe inoltre possibile fornire tre pasti al giorno a 636.600 persone e risparmiare 291.393 tonnellate di anidride carbonica che sono invece attualmente prodotte a causa dello smaltimento del cibo come rifiuto. Per neutralizzare tutta questa ani­dride carbonica sarebbero necessa­ri 586.205.532 metri quadrati di area boschiva equivalenti a 58.620 ettari o a 117.200 campi da calcio».

Da “Avvenire” di mercoledì 6 gennaio 2010
Radio inBlu vetrina di future popstar
Parte stasera «Effetto Notte Live» in cui gli artisti emergenti avranno a disposizione un’intera ora per far sentire la loro musica

Un passaporto per la po­polarità. Lo offre a par­tire da stasera il circui­to radiofonico cattolico Radio inBlu attraverso Effetto Notte Live, il nuovo programma de­dicato agli artisti emergenti ma di provata qualità, che cerca­no, spesso con enorme fatica, un piccolo e meritato angolo di notorietà.
A partire da stasera, ogni mer­coledì alle 22, negli studi ro­mani di Radio inBlu, ogni gio­vane avrà a disposizione un’o­ra di musica eseguita rigoro­samente dal vivo e alternata all’intervista al microfono di Paola De Simone. «Dare spazio agli emergenti – spiega la cu­ratrice e conduttrice del pro­gramma – è una scelta corag­giosa.
Se poi si sceglie di offri­re un intero programma a gio­vani senza etichetta chiamati a esibirsi dal vivo, allora la scommessa si fa più dura. Ma affascinante. Questo è quello che abbiamo deciso di fare con Effetto Notte Live, una tra­smissione che non ha traguar­di, ma tanta curiosità e voglia di esplorare nell’infinito sot­tobosco della musica indi­pendente. Una vetrina, un trampolino di lancio. Ma for­se qualcosa di più». Alla pun­tata integrale di Effetto Notte Live farà eco, la domenica suc­cessiva, la rubrica Provini (in onda alle 17.15) che conterrà un breve estratto dell’esibizio­ne del mercoledì e, non a ca­so, è anche il riferimento e­mail per iscriversi alle selezio­ni: provini@radioinblu.it.
Tutto è pronto, dunque, per l’esordio con Carlo Contoca­lakis che finora ha pubblicato un singolo e un ep e attual­mente sta lavorando, in piena autonomia, al suo primo disco di inediti. Carlo ha suonato molto dal vivo, tra concerti e festival. Nel suo curriculum c’è anche la vittoria al 'Premio 29 settembre', dedicato a Lucio Battisti.
Ora il taglio del nastro a Effet­to Notte Live. Con la speranza di un esordio beneaugurante per sé e per la nuova avventu­ra di inBlu, estesa a tutta Italia grazie alla fitta rete di radio lo­cali che animano il singolare circuito radiofonico. (P.F.)

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