sabato 16 gennaio 2010

5 DICEMBRE 2009 PortaParola Ravenna

Il Crocifisso «Questo simbolo ci tiene ancora uniti» (Benedetto XVI)

Da “Avvenire” di mercoledì 25 novembre 2009
Il cardinale all’attacco della norma regionale che pone sullo stesso piano nuclei familiari e singoli individui per quanto riguarda l’accesso ai servizi pubblici locali. «Con l’eventuale approvazione voi dareste un contributo alla credenza falsa e socialmente distruttiva che il matrimonio sia mera convenzione sociale»

«CONVIVENZE? TRADITO IL PATTO DI CITTADINANZA»
Caffarra: errore mettere sullo stesso piano matrimonio e unioni
Errani: valuterò con rispetto e chiariremo le nostre posizioni

DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI

« L’ approvazione della norma regionale che pone sullo stesso piano singoli individui, famiglie e convivenze nell’accesso dei servizi pubblici locali avrebbe a lungo andare effetti devastanti sul nostro tessuto sociale » . Lo scrive il cardinale Carlo Caffarra in un appello rivolto al presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani, ai membri della Giunta e del Consiglio regionale.
« Chi non riconosce la soggettività incomparabile del matrimonio e della famiglia – ricorda l’arcivescovo – ha già insidiato il patto di cittadinanza nelle sue clausole fondamentali. È ciò che fareste, se quel comma fosse approvato: un attentato alle clausole fondamentali del patto di cittadinanza » . Il matrimonio e la famiglia fondata su di esso, prosegue Caffarra « è l’istituto più importante per promuovere il bene comune della nostra regione. Dove sono erosi, la società è maggiormente esposta alle più gravi patologie sociali. La prima erosione avviene quando si pongono atti che obiettivamente possono far diminuire la stima soprattutto nella coscienza delle giovani generazioni, dell’istituto del matrimonio e della famiglia. E ciò accadrebbe se al matrimonio e alla famiglia, così come sono costituzionalmente riconosciuti, venissero pubblicamente equiparate convivenze di natura diversa. Vi prego di riflettere seriamente sulla responsabilità che vi assumereste approvando quella norma » . Parlare di discriminazione in caso di non approvazione non ha senso, sottolinea il cardinale. « Se è ingiusto trattare in modo diverso gli uguali, è ugualmente ingiusto trattare in modo uguale i diversi. Non sto dando giudizi valutativi di carattere etico sulla diversità in questione. Sto parlando della logica intrinseca ad ogni ordinamento giuridico civile: la giustizia distributiva è governata dal principio di proporzionalità » .
Qualcuno, insiste l’appello « potrebbe pensare che il comma in questione è una scelta di civiltà giuridica: estende la sfera dei diritti. Dato e non concesso che così fosse, ogni estensione dei diritti deve essere pensata nell’ambito del dovere fondamentale di difendere e promuovere il bene comune. Se così non fosse, si costruirebbe e favorirebbe una società di egoismi opposti » .
Con l’eventuale approvazione, afferma inoltre Caffarra « obiettivamente voi dareste un contributo alla credenza falsa e socialmente distruttiva che il matrimonio sia una mera ' convenzione sociale' che può essere ridefinita ogni volta che così decida una maggioranza parlamentare.
Volete dunque – chiede Caffarra ai destinatari dell’appello – assumervi la responsabilità di porre un atto che per sua logica interna muove la nostra Regione verso una cultura che va estinguendo nel cuore delle giovani generazioni il desiderio di creare vere comunità familiari? » . «Come cittadino, cristiano e vescovo, rispetto la vostra autorità – annota il cardinale – so che siamo liberi in forza della sottomissione alle leggi. Ma colla stessa forza e convinzione vi dico che vi possono essere leggi gravemente ingiuste, come sarebbe questo comma se venisse approvato, che non meritano di essere rispettate» . E non si tratta di un’ «indebita ingerenza clericale » .
« Laicità dello Stato ­spiega Caffarra – significa che tutti, nessuno escluso, possono intervenire nella discussione pubblica in vista di una decisione - che è di vostra esclusiva competenza - riguardante il bene e l’interesse di tutti » . « Vi chiedo – scrive l’arcivescovo nella conclusione – di accogliere questo appello, di riflettere seriamente, prima di prendere una decisione che potrebbe a lungo termine risultare devastante per la nostra Regione. Dio vi giudicherà, anche chi non crede alla sua esistenza, se date a Cesare ciò che è di Dio stesso » . Nel pomeriggio la risposta del presidente della Regione Vasco Errani: « Chiederò un incontro all’arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra per chiarire personalmente le nostre intenzioni e posizioni », ha fatto sapere con una nota.
« Valuterò con grande rispetto, come doveroso, l’inedito appello di Caffarra. Ma non abbiamo certo intenzione di intervenire –
ha concluso – sulla definizione di famiglia che è normata nella Carta Costituzionale e sicuramente non è nella potestà legislativa della Regione ».


Da piuvoce.net cattolici in rete lunedì 30 novembre 2009
L`ETERNA ADOLESCENZA DEI FINTI ADULTI CRISTIAN CARRARA
Si bruciano le tappe ma gli esperti dicono che la vera maturità arriva sempre più tardi

“La gioventù è una malattia obbligatoria di tutti gli esseri viventi. Sembra molto grave, addirittura inguaribile, quando la si ha addosso. Ma poi passa in un baleno. Le complicazioni si hanno adesso che, con la scoperta della psicanalisi, dei complessi, delle istanze e via discorrendo, c’è in giro una quantità enorme di persone che vogliono eliminare questa meravigliosa malattia facendo invecchiare rapidamente i giovani”.
Con il suo solito piglio umoristico e ironico Giovannino Guareschi coglie nel segno. La nostra è una società che non ama i giovani. Ma non nel senso talvolta banale e più volte sottolineato, di una società incapace di far spazio alle giovani generazioni. La visione di Guareschi della gioventù come una malattia che prima o poi se ne va e di coloro che, e anche oggi sono in molti, vorrebbero far invecchiare rapidamente i giovani, dice qualcosa in più.
Costoro, che non vedono l’ora di far saltare a piè pari ai propri figli la preziosa età del gioco, della fantasia, delle domande sul tutto e sull’infinito. Che non vedono l’ora di vederli impegnati in qualcosa di serio per gli occhi adulti, come la ricerca di una posizione che dia lustro al loro nome, e nemmeno troppo sotterraneamente a quello del loro papy. Costoro, che hanno costruito attorno all’adolescenza dei nostri giovani un armamentario di giochi, di film di immagini, in cui tutto è volto a massacrare la purezza e la meravigliosa curiosità dei nostri piccoli, per ferirla con il virus di uno sguardo che forza ad essere adulti prima del tempo, e ad esserlo assorbendo tutti i lati peggiori di nostra società. Questi artefici di piccoli, tristi adulti pare però abbiano sbagliato strategia. I nostri figli crescono, spesso avendo saltato le tappe, imparando ben presto a comportarsi come adulti. Ma vari studi indicano che la maturità, quella che si misura non solo con gli atteggiamenti esterni, arriva e si compie molto più tardi nei giovani d’oggi, rispetto a quelli di qualche decennio fa. Insomma, vediamo dei giovani che si comportano ben presto da adulti, ma dentro restano adolescenti per anni.
Un’adolescenza infinita. Ecco il risultato di chi ha pensato di far invecchiare rapidamente i nostri giovani.

http://www.piuvoce.net/ www.cristiancarrara.it
cattolici in rete

Da “Avvenire” di giovedì 3 dicembre 2009
CONTRO LA VITA, CONTRO LA LEGGE
QUEI PILATI «INCOMPETENTI» MARINA CORRADI

Non è cosa di nostra competenza. Questa la risposta dell’Aifa al ministro Sacconi che, dopo un’approfondita indagine parlamentare, chiedeva che la pillola abortiva venisse sommi­nistrata solo in regime di «ricovero ordinario», cioè in ospedale fino al compimento dell’abor­to. L’Agenzia italiana del farmaco ha elegante­mente declinato la richiesta: le nostre compe­tenze in materia di dispensazione dei farmaci «sono limitate», ha spiegato. Risposta medical­mente pilatesca, quando è noto che in un alto nu­mero di casi la somministrazione del farmaco a­bortivo dà luogo a emorragie e problemi, anche gravi, che la donna non dovrebbe trovarsi ad af­frontare da sola. Risposta politicamente invece molto chiara, quando spiega come il pieno ri­spetto della legge 194 sia materia di competen­za del Ministero – e che dunque se la veda lui.
Perché qui è il nodo politico del confronto. La 194 prevede che l’aborto avvenga in ospedale. Se si arrivasse invece a delegare all’ospedale so­lo la somministrazione della pillola, mandando poi le donne a casa, la legge 194 sarebbe scaval­cata. In una sorta di privatizzazione di fatto del­l’aborto. Utile a sgravare i medici da un compi­to pesante, e il servizio sanitario dalle spese de­gli interventi chirurgici. Ma poco conciliabile col testo di una legge che almeno nel suo incipit af­fermava di riconoscere «il valore sociale della maternità e la tutela della vita umana dal suo i­nizio ».
Che cosa si tutela, se la Ru486 va presa in fretta, entro la settima settimana di gravidanza, e non c’è neanche il tempo di quella settimana di ri­flessione prevista dalla 194? Chi si tutela, se pas­sa la vulgata che per abortire ora 'basta una pil­lola'? Non certo le adolescenti, né la loro consa­pevolezza di cos’è un figlio, e cos’è buttarlo via. Che cosa sia poi davvero, di sofferenza, il lungo velenoso 'lavoro' dell’aborto chimico, lo sco­priranno poi, sulla pelle. Sembra paradossale che proprio un giornale cat­tolico debba 'difendere' la legge sull’aborto co­sì come fu concepita trent’anni fa. Ma quella leg­ge, inaccettabile per i credenti, era almeno il com­promesso fra parti politiche che, nel legalizzare l’aborto, avevano ancora uno sguardo, sia pure a livello di princìpi, alla maternità, giudicata co­me un bene da tutelare, e ai diritti del concepi­to: cui era dedicato il lungo articolo 2 sulla pre­venzione dell’aborto. Trent’anni dopo, quell’articolo è rimasto quasi lettera morta. Le «associazioni di volontariato» che avrebbero voluto aiutare le donne a tenersi il figlio sono state ostacolate e spesso demoniz­zate. Per trent’anni il leit-motiv costante invece è stato:
«La legge 194 non si tocca». (Un Moloch, un dogma del laicismo, del femminismo e della sinistra. Secondo cui l’aborto è prima di tutto 'diritto' da affermare).
Ma se il garbato declino di responsabilità del­­l’Aifa porterà come risultato a lasciare che le don­ne, ottenuta in fretta una pillola, abortiscano so­le a casa loro, sarà nei fatti e idealmente, rispet­to alla legge, un passo indietro, un venire meno a quello 'sfavore' all’aborto che pure tra le righe del testo della 194 si avverte. Una scelta prag­matica, utile ai conti delle Asl; una scelta utilita­ristica in linea con l’individualismo che ci do­mina. (Fare in fretta, senza nemmeno aspettare o aspettarsi l’aiuto di qualcuno. Abortire da so­le, creando meno problemi possibile. E pazien­za se a qualcuna magari andrà male).
Non è cosa, hanno detto, di nostra competenza. Dietro a una formula burocratica, una visione del mondo. Che una donna – povera, ricca, stra­niera – abortisca, e come, e la sua salute, son fat­ti suoi. Che questo avvenga secondo il dettato della legge, son fatti del Ministero. Perfettamen­te in linea, quelli dell’Aifa, con la mentalità co­munemente dominante. E altrettanto dimenti­chi di quel bene che, pur ferito e sopraffatto, nel 1978 l’Italia ancora ricordava. L’aborto, sì, lega­le, ma maternità come un bene da sostenere. La vita umana un valore, «dal suo inizio». Quella pillola data in fretta, che porta la morte in soli­tudine, sembra il simbolo di un mondo in cui si vive per sé soli.

Da “Avvenire” di martedì 1 dicembre 2009
LA CROCE, LA BANDIERA, IL MINARETO
QUESTIONI DA AFFRONTARE SENZA STRUMENTALI LEGGEREZZE

GIORGIO PAOLUCCI

Il referendum che ha bocciato la costruzione di nuovi minareti in terra svizzera sta producen­do esiti che rilanciano questioni antiche e nuo­ve. In Italia un esponente leghista di primo pia­no come Roberto Castelli ha lanciato l’idea di ap­porre la croce sul tricolore. Su di essa si è innescato l’ennesimo fuoco fatuo, con sedicenti defensores fidei che pensano di far salire le quotazioni del simbolo per eccellenza del cristianesimo asso­ciandolo (con sorprendenti nostalgie sabaude…) alla bandiera del nostro Paese. L’operazione, in verità, appare di corto respiro: le forti reazioni po­polari alla sentenza sul crocifisso emanata dalla Corte di Strasburgo confermano quanto sia radi­cata nel comune sentire la consapevolezza del valore universale di quello che solo impropria­mente può essere ridotto a mero simbolo identi­tario, e insieme fanno emergere la strumentale leggerezza di quanti se ne vogliono appropriare. E veniamo agli altri (e più seri) nodi problemati­ci che il voto svizzero porta con sé.
Va detto che se l’obiettivo dei vincitori è quello di frenare l’a­vanzata del fondamentalismo islamico, il risulta­to che verosimilmente verrà raggiunto sarà inve­ce – in una sorta di effetto-boomerang – la radi­calizzazione di quelle stesse componenti, alle quali viene fornito un buon alibi per presentarsi come vittime dell’ostilità anti-musulmana. Il pro­blema non è tanto come le moschee debbano es­sere costruite (giacché, con o senza il minareto, se ne continueranno a costruire), ma cosa nelle moschee si predica e si fa, quali sono i messaggi che in esse vengono diffusi, in omaggio a una con­cezione che ne fa qualcosa di molto diverso da un semplice luogo di culto e le trasforma in centri di irradiazione di una visione integralista e antioc­cidentale dell’islam. Non è in discussione la libertà religiosa, che ri­mane un pilastro del patrimonio normativo e cul­turale dell’Europa e certo non può essere messo in discussione dall’esito di una consultazione po­polare che va inquadrata nella particolare corni­ce giuridico-istituzionale della Confederazione elvetica (lo spieghiamo nelle pagine interne) e non può essere 'importata' in Italia, come si è af­frettato a chiedere il Carroccio. La libera espres­sione del sentimento religioso appartiene alla ca­tegoria dei diritti individuali e sociali – ivi com­preso quello di convertirsi a un’altra fede – e rap­presenta una delle caratteristiche irrinunciabili dell’Occidente, che segna la differenza rispetto ad altre civiltà (ad esempio quella islamica, che riconosce quei diritti in base all’appartenenza co­munitaria anziché come prerogative legate alla persona).
Infine, una considerazione sulla parola 'identità', di questi tempi molto usata e spesso abusata. I promotori del referendum svizzero e i loro cori­fei di altre latitudini si candidano come alfieri di un’identità cristiana minacciata da una nuova in­vasione musulmana, che arriva dopo quelle dei secoli scorsi.
In realtà essi riducono il cristianesi­mo a un 'pacchetto' di valori strumentalmente preselezionati. Usandolo come un’arma da bran­dire contro il nemico, indeboliscono la forza di quel Crocifisso che da duemila anni continua a provocare le coscienze di ogni uomo, e che non è né un cimelio della pietà popolare per cui nu­trire un devoto ricordo, né il generico simbolo di una tradizione sociale e culturale, ma una pre­senza viva che dà spessore alla parola 'identità', altrimenti riducibile a un’entità ideologica. La cro­ce di Cristo parla a tutti e non ferisce alcuno.
Per i credenti è la fonte di quell’energia che consen­te di aprirsi (senza irenismi o ingenuità) al con­fronto con l’altro e di vivergli costruttivamente accanto. L’Europa, nata dall’incontro fecondo del cristianesimo con l’impero romano e le civiltà barbariche, non può fare a meno di misurarsi con quanti ne hanno fatto la loro nuova dimora. E può farlo solo a partire da un’identità tanto forte quan­to aperta.

Dal settimanale “Tempi” del 26 novembre 2009
Ho abortito un figlio sano di Benedetta Frigerio

Una donna su tre che vive in una delle grandi città italiane fa l'amniocentesi, l'esame del liquido amniotico che è in grado di rilevare le sole malattie legate al numero di cromosomi. Secondo dati Istat, in Toscana nel 2006 sono state eseguite 12 mila amniocentesi su 30 mila parti e più della metà riguardavano donne sotto i 35 anni che, non essendo "a rischio", hanno comunque eseguito l'esame a proprie spese. Gli ultimi dati Istat disponibili (2008) ci raccontano di un fenomeno che cresce negli anni, se è vero che tra il 1992 e il 2002 i laboratori di genetica medica sono quintuplicati, passando nel giro di due lustri da 87 a 373. «Ma l'aminiocentesi - spiega a Tempi il neonatologo senese Carlo Bellieni, membro della European Society of Pediatric Research - è in grado di diagnosticare pochissime malattie. Le diagnosi prenatali sono, per loro natura, predittive e non sicure».
Ma non è questo il messaggio che passa solitamente nell'opinione pubblica che, anzi, di fronte a un'errata previsione è portata a imputare l'errore al medico. è questa una tematica che è stata molto enfatizzata durante il Convegno nazionale del Sidip (Società italiana di diagnosi prenatale e medicina materno-fetale) che è in svolgimento a Roma (18-19 novembre): solo in Lombardia, negli ultimi dieci anni, il 24 per cento dei contenziosi relativi al campo ostetrico-ginecologico sono legati a errori diagnostico-preventivi circa gli identikit del nascituro. Il che significa che in un caso su quattro le donne hanno trascinato in tribunale i medici per non aver saputo individuare le malattie dei figli.
Perché, anche se il diritto-dovere ad aver figli sani non è contemplato da alcun codice, visti i processi e le denunce, è come se lo fosse? «In effetti - prosegue Bellieni - la donna vive una sorta d'obbligo sociale sostenuto anche da protocolli clinici che invitano a sottoporsi all'amniocentesi o a pratiche mirate alla diagnosi fetale». Quel che è più grave è che la mentalità selettiva è avallata da false speranze, fomentate da «esami prenatali presentati come strumenti sicuri, zeppi, in realtà, di falsi positivi che portano spesso a scegliere tecniche sempre più invasive. Ma così aumentano per il nascituro sia i rischi di lesione grave sia quelli di morte». Il problema nasce dalla cattiva informazione: «Uno studio olandese dimostra che, quando vengono illustrati i reali pericoli in cui incorre il feto, si riscontra un crollo clamoroso della domanda».
C'è di più: la Società internazionale di ricerca sulla sindrome di Down ha pubblicato dei dati che provano che, ogni anno, solo in Inghilterra, circa 400 bambini sani muoiono a causa dello screening invasivo. Per tornare a casa nostra, un'indagine conclusa il giugno scorso dalla Sidip segnala che il 44 per cento dei medici intervistati ha ammesso di non essere riuscito a riconoscere una malformazione durante una diagnosi ecografica su donne in stato di gravidanza avanzato.
E ora cosa dirò al suo fratellino?
Come rivelato l'anno passato dalle riviste specialistiche American Journal of Obstetrica and Gynecology e Fetal Diagnosis and Therapy le donne non hanno ancora preso consapevolezza dei limiti di tali pratiche, anche perché molto spesso gli operatori omettono di informarle correttamente circa i risultati possibili e il verificarsi di sintomi ansiosi. Basta, però, consultare i siti internet specializzati per rendersi conto delle scarse informazioni che sono fornite agli utenti, anche se un giro sui forum e blog dedicati alle madri gravide, aiuta a capire i turbamenti emotivi che colpiscono chi decide di sottoporsi a queste tecniche. Vi si trovano storie di tutti i tipi: c'è chi «non vede l'ora di fare l'amniocentesi perché finisca l'ansia» e chi è impaziente «che nasca per riscontrarlo con i miei occhi». Poi ci sono vicende alquanto drammatiche, come quella di A. N., che, in seguito ad una amniocentesi, scoprì che uno dei due gemelli che portava in pancia era down. Decise di abortirlo, scoprendo poi che era sano: «E ora che cosa dirò al suo fratellino? Questo è un sistema che ci impone di avere il controllo su tutto, anche sulla vita dei nostri figli».
Quando è nata quest’ansia di conoscere la struttura genetica del nascituro (e quindi poi decidere se tenerlo)? I relatori del convegno organizzato dal Sidip parlano di organismi transnazionali che in questi anni hanno pubblicizzato la diagnosi prenatale. Fra i primi sponsor della amniocentesi c’è lo European Human Genetics, giornale che già nel 1984 aveva spronato gli operatori sanitari a consigliare a tutti lo screening, richiamandoli a un «diritto-dovere di rinunciare alla gravidanza nel caso l’esame fosse positivo». La rivista non mancò di sottolineare i risparmi da parte del sistema sanitario sull’assistenza ai bambini con anomalie, mentre lo sviluppo di tecniche accessibili avrebbe rappresentato una fonte di guadagno per gli operatori.
Screening inutili.
Secondo i relatori del convegno le raccomandazioni favorevoli alla diagnosi prenatale sono divulgate dai mass media, ma anche dalle società mediche e dalle istituzioni. Nel 2007 il Collegio dei ginecologi americani ha spinto perché tutte le donne gravide fossero sottoposte a screening. L’anno scorso l’Istituto superiore della sanità inglese ha esortato a divulgare il test combinato che comprende anche l’ecografia e gli esami del sangue, test che entro il 2011 sarà disponibile in Scozia. In Italia le spinte vengono anche da alcuni membri del Comitato nazionale di bioetica: Luisella Battaglia nel 2005 dichiarò che «se oggi c’è la possibilità di prevedere lo stato di salute di chi nascerà, c’è il dovere e non solo il diritto di farlo. è un’etica della responsabilità che i genitori sono chiamati ad osservare, e di cui la scienza ha spostato i confini».
Se è possibile che le perplessità circa il business o i pericoli possibili non facciano ricredere chi è disposto ad assumerseli pur di partorire figli sani, i relatori del convegno hanno ricordato uno studio di Atlanta, pubblicato nel 2008 sulla rivista Obstet Gynecol. Negli ultimi trent’anni nel mondo, sebbene siano proliferate tecniche diagnostiche sempre più moderne, la percentuale complessiva di anomalie risulta essere sempre la stessa, con un’oscillazione variabile dal 2,8 al 3 per cento sul totale dei nati vivi.

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Il quotidiano di Ravenna La Voce di Romagna ha pubblicato il 15/11/2009 l'articolo del PortaParola sui DICO di Vasco Errani governatore PD della regione Emilia-Romagna

La Voce di Romagna 15/11/2009
Tam tam delle parrocchie contro i Dico di Errani
RAVENNA - Se per la Regione conviventi, tutti, e famiglia pari sono, i cattolici iniziano a interrogarsi sui provvedimenti allo studio nelle stanze di Bologna. Lo fanno nelle parrocchie attraverso il Porta parola, una sorta di raccolta di articoli utili pubblicati sui media cattolici, selezionati in base alle notizie di interesse locale. A Ravenna è molto attiva quella di San Vittore. I cattolici focalizzano l’attenzione su un
articolo pubblicato dal quotidiano Avvenire, dal titolo “Famiglie e unioni: un ragù all’emiliana”. L’equiparazione tra famiglie e conviventi, è stabilita dalla Finanziaria regionale che potrebbe diventare legge entro Natale. La proposta, all’articolo 42, consentirebbe a tutti i cittadini il diritto di accedere alla fruizione dei servizi pubblici e privati senza discriminazione, diretta o indiretta, di orientamento sessuale. I diritti che ne deriveranno si applicheranno a singoli individui, famiglie o forme di convivenza previste dal nuovo regolamento
anagrafico della popolazione.

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