sabato 16 gennaio 2010

19/12/2009 PortaParola Ravenna

« Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti … il Signore è vicino! »

Ravenna: in piazza Duomo il Presepe Vivente

RAVENNA - Per l'ottavo anno consecutivo, domenica 20 dicembre ore 17.00 in piazza Duomo il Centro culturale Pier Giorgio Frassati di Ravenna organizza un PRESEPE VIVENTE NEL CENTRO CITTADINO.
In questa edizione due scene costituiranno i momenti principali della Sacra Rappresentazione: quella della Natività, allestita nel sagrato del Duomo, e quella dell'avvento dei Re Magi, disposta sulle scale di Palazzo Farini.
L'atmosfera sospesa e carica di speranza della nascita del Redentore sarà esaltata dalle voci di un coro di 80 elementi. E mentre la narrazione si dipanerà con letture e canti, il corteo dei Magi percorrerà le strade del centro cittadino accompagnato da figure di musici che con i loro strumenti richiameranno l'attenzione del pubblico presente.
La rappresentazione non mancherà anche di un elemento di novità all'insegna di una continuità fra passato e presente: nella scena finale di adorazione dei Re Magi un corteo di "moderni pastori", cioè medici, insegnanti, contadini, operai, pompieri, studenti, porteranno i loro doni al Salvatore a sottolineare, oggi come ieri, la presenza di Cristo nella nostra quotidianità. Sarà presente anche il Sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci.
La manifestazione si concluderà in fine in Duomo alle ore 18.30 con la celebrazione della Santa Messa officiata da Mons. Giuseppe Verucchi .
Commenta Monica Fabbri presidente del Centro Culturale Piergiorgio Frassati: "Il presepe vivente è l'evento culturale natalizio più significativo della città. E' un'occasione di grande raduno popolare e nasce dal nostro desiderio di rivivere il Natale e ricordare la nascita di Gesù.
Quest'anno il nostro orgoglio è la collaborazione di varie realtà associative presenti sul territorio: Associazione Ravenna Studenti, Gli Amici di Enzo, i Cavalieri di Re Baldovino e AVSI.
La giornata natalizia sarà inoltre dedicata alla raccolta fondi per le TENDE DI NATALE di AVSI (associazione volontari servizi internazionali). Un evento sempre più significativo, dunque, il cui senso è ben sintetizzato dalle parole di Luigi Giussani "Il Natale è il ricordo del modo in cui il Signore si è reso presente. Il Signore non è mai un passato. Il Natale è dunque il ricordo del Signore che è diventato uomo, un bambino come ognuno di noi è stato ed è".

Il Presepe vive a Ravenna
Domenica 20 dicembre dalle ore 16.15 - Piazza Duomo
Un Presepe vivente con oltre cinquanta figuranti nel quadro della Natività. Canti e letture.
Protagonisti del presepe saranno i bambini e i ragazzi delle scuole elementari e delle scuole superiori, con la collaborazione del Centro Culturale PierGiorgio Frassati.
Al termine, alle ore 18.15 nella Cattedrale, la Santa Messa celebrata dal Vescovo
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Da “Avvenire” di domenica 13 dicembre 2009
LA TRADIZIONE
Presepe: un teatro umano e divino di Philippe Daverio


Le nostre tradizioni più forti sono quelle che hanno le radici più solide e talvolta pure complesse. Quando si pensa al presepe della Natività viene quasi automatico tornare alla tradizione dei grandi presepi napoletani del XVIII secolo che hanno visto un moltiplicarsi infinito di personaggi e di folklore attorno alla grotta. Forse il più teatrale di tutti è quello della reggia di Caserta, al quale contribuirono tutti i monarchi borbonici da Carlo III in avanti.
È tuttora una delle attrazioni più curiose del luogo e rappresenta tutta la vita contadina napoletana tra Sette e Ottocento, con una esaltazione particolare per le innovazioni alimentari avvenute sotto il regno di Ferdinando IV quando i dettami della fisiocrazia illuminata stavano trasformando le campagne. Vi appaiono le prime bufale allevate regolarmente e la loro naturale conseguenza di mozzarelle e provole, tutti i legumi vecchi e nuovi e un primo contadino redento che affonda una forchetta in un piatto di spaghetti con la pommarola appena scoperta.
Probabilmente la gente povera non usava affatto la forchetta. Si tratta quindi d’un auspicio didattico realizzato dalle abili mani degli artisti e delle dame di corte che s’impegnavano con sommo divertimento ad organizzare il complesso teatro plastico. Il che riporta il presepe stesso alla invenzione teatrale vera e propria di san Francesco, quando prese la gente comune di Greccio vicino a Rieti e la coinvolse in una recita che celebrava la notte di Betlemme. Correva l’anno 1223 e papa Onorio III aveva autorizzato l’evento. È sempre bene ricordare che Francesco era per metà francese meridionale occitano (donde il suo nome!) e come tale educato nella cultura fine della prima poesia cortese. Dava egli rilievo ad una tradizione già ben ancorata che trova i suoi primi esempi in alcune sculture oggi conservate nel Museo Bizantino e Cristiano di Atene, fra le quali si scorge un buon pastore di derivazione apollinea, con pecorella a tracolla, e una rappresentazione d’una greppia con bue e asinello, ma senza i personaggi della Madonna e di Giuseppe.
I testi sacri dei Vangeli appena resi canonici a Nicea (Luca 2, 7) avevano prodotto le prime rappresentazioni visive. Ed è curioso in quanto Luca era il greco per eccellenza fra gli evangelisti, non aveva conosciuto Gesù di persona perché troppo giovane; e si dice pure che fosse, oltre che medico, pittore.
È però nel mescolare questa tradizione d’oriente, greco-alessandrina come sono greche le parole fondamentali della cristianità, con Roma che nacque il presepe vero e proprio, ivi compresa la parola che deriva dal latino prae saepes, cioè il luogo dinnanzi al recinto dove si tenevano le greggi. Nella tradizione pagana romana si celebrava una festa di famiglia, sin dalla più profonda antichità, quando i bimbi lucidavano le statuette dei lares familiares, gli antenati protettori, per porle in una nicchia domestica dove venivano addobbate con decori di natura, fra i quali potevano apparire anche altri personaggi confezionati appositamente e illuminati da piccoli lumi ad olio. In quell’occasione ci si scambiavano piccoli doni.
La festa di chiamava sigillaria e avveniva circa il 20 dicembre. La genialità della prima cristianità, finalmente ammessa dall’impero, fu esattamente quella di sovrapporre alle tradizioni passate la nuova tradizione nascente. In questo senso saranno poi esemplari i dipinti del Rinascimento quattrocentesco, quando andranno a raffigurare la Sacra Famiglia sotto le rovine degli archi romani antichi. Nel frattempo le recite di Francesco avevano preso la piega fantasiosa del Medioevo finale e la Controriforma si trovò nell’obbligo di ridare alla celebrazione una forma più contenuta. Francesco Brandani prende la palla al balzo e realizza immediatamente il teatro scultoreo d’un presepe ad Urbino, semplice e povero, in stucco, dove i personaggi sono quasi in grandezza naturale.
Andrà a generare una versione per così dire «di canone» che avrà gran successo, se lo stesso cardinale Federico Borromeo – il sostenitore più convinto d’una arte nuova, il promotore del Sacro Monte di Varese e della sua statuaria – insisterà presso il pittore urbinate Federico Barocci, influenzato ovviamente dal presepe della sua città, per farsi fare una copia ambrosiana del presepe oggi conservato al Prado. Se lo mise in collezione, il cardinale, accanto alla visita dei Magi di Tiziano. La tradizione continuava ad arricchirsi.

Da “Avvenire” di martedì 15 dicembre 2009
IL PAPA IN VISITA A UN HOSPICE DI ROMA
Accolti e amati sono tutti i viventi
GIUSEPPE ANZANI


Hospice è una parola dolce, hospice è una parola dolorosa. È nel cuore che tutto si contiene, che tutto si consuma. La fede, è l’identica e suprema ragione dell’amore. Dice accoglienza, dice persino un abbraccio, se si intende che le cure 'palliative' che vi si praticano prendono nome dall’immagine di un mantello ( pallium) che avvolge e ripara, conforta e riscalda, e umanamente rincuora. Ma dice dolore perché l’incontro avviene oltre il confine della speranza, se la speranza si identifica nella guarigione, non più raggiungibile. E maggiormente scava il dolore, dentro gli affetti, a mano a mano che affiora e si fa cosciente il pensiero, sempre rintuzzato d’istinto, che infine non c’è porta che chiuda più fuori il bussare della morte. La morte, ecco l’altra parola. La morte come nemica della vita, qual è. La morte temuta, la morte combattuta dalle risorse inventive e stupende della scienza, della medicina, della farmacopea. La morte sfidata e tenuta in scacco, la morte rimontata dalle tecniche rianimatorie, dalle terapie di sostentamento vitale. Quanto è grande la gioia delle guarigioni, della vita che riprende respiro e vigore. Ma pur sempre un’ombra all’uscio, la morte, che torna a bussare prima o poi, e segna dunque un destino, una clessidra che macina, poca o tanta, una sabbia finita.
Allora il problema umano si rovescia, se è l’uomo che vuol capire che cos’è la sua morte, anziché sia la morte a ghermirlo senza che lui l’abbia capita. Capìta, sì, incontrata, 'vissuta' mi verrebbe da dire, quando essa è venuta. Sì da poter dire, alla nemica, la parola dell’incandescente sapienza, intuita e cantata da san Francesco, la parola che saluta 'sorella morte'. Io ora penso all’hospice così, alla cura della vita dentro l’accoglienza d’un mantello che lenisce il dolore, dominando quello fisico, addolcendo quello psichico, facendo 'compagnia' al cammino che non ha più possibilità di contrastare un appuntamento annunciato. Una compagnia intensa, quasi coinvolgimento profondo sulla soglia del mistero, che immette alla verità e al senso stesso della vita vissuta, dei suoi compiti assolti, delle sue gioie e dei suoi pianti, quando il grembo della morte la trasloca nell’oltre. Una presenza affettuosa che è in sé una sorta di radicale orazione al Dio della vita, una speranza nella Vita. Ieri il Papa ha visitato un hospice di Roma che cura malati di cancro in fase terminale, e malati di Alzheimer e di Sla.
Nel suo discorso breve, fortemente affettuoso, io ora leggo un punto di dottrina e un punto di vita, incrociati. Tra i concetti, la dignità umana contrapposta alla 'mentalità efficientistica' che fa dei deboli un peso, mi sembra un lampo che squarcia gli inquieti orizzonti scuri sul fine-vita di tutti, che taglia corto sui quesiti fittizi e atroci di chi sarebbe degno o indegno di vivere. Ma al dunque, la verità vissuta è poi quella dei «gesti concreti dell’amore». Rileggo, lentamente, le parole del Papa. Mi sembra di capire che il 'coraggio' è una parola imparentata con 'cuore'. La vita, la morte, tutto l’insieme, tutto il vivere, anche il 'vivere la propria morte', il capire perché si muore, il sapere in fede che la vita è più grande del transito. È nel cuore che tutto si contiene, che tutto si consuma, che la verità è accolta e amata; che accolti e amati sono tutti i viventi, nella stagione della vita e nel passaggio della morte. La fede, infine, è l’identica e suprema ragione dell’amore.

Da “Avvenire” di martedì 15 dicembre 2009
la difesa della vita
Veneto, 390mila euro per madri in difficoltà
Sono molteplici le iniziative in programma: dal potenziamento dei Cav, al sostegno economico per genitori che hanno perso il lavoro
DA VERONA LORENZO FAZZINI

Una «prima» pro-life in terra veneta. Per la prima volta la Regione del Veneto ha deciso di sostenere fattivamente i Centri aiuto vita, stanziando l’importo di 390mila per interventi di aiuto alle future madri in difficoltà in modo che queste non ricorrano all’aborto. Si tratta di un passo in avanti da parte della giunta regionale veneta che già l’anno scorso aveva approvato una riorganizzazione dei consultori familiari per collegarli in maniera più forte con le strutture del volontariato sociali. Ora l’intento è diventato completo, con un intervento­quadro di accordo tra i Centri pro life, riuniti nella Federazione veneta dei Centri aiuto vita, e l’istituzione pubblica. Diversificato il sostegno per le mamme in difficoltà: si va dal potenziamento delle attività dei Centri, «favorendo l’ospitalità presso famiglie e comunità di donne prive di alloggio» alla ricerca di «fonti di guadagno stabili per i genitori in difficoltà occupazionale». Lo stanziamento economico della Regione, inoltre, potrà servire a «reperire beni di sostentamento e di prima necessità per le madri in situazione di disagio economico». Inoltre – dato importante – la delibera presentata dall’assessore ai servizi sociali Stefano Valdegamberi (Udc) intende «creare e potenziare il collegamento tra i Centri aiuto vita e i servizi sociosanitari pubblici e privati». Soddisfazione per tale decisione è stata manifestata da Guido Candia, presidente della Federazione veneta dei Cav, e da Ugo Piccoli, presidente del Cav di Verona (nella sola provincia scaligera sono 12). «Questo è un provvedimento che vuole creare una cultura della famiglia e non dell’antifamiglia che impera oggi», spiega l’assessore Valdegamberi. «Bisogna agire su questo fronte a tutela dei genitori e dei figli ma anche della nostra economia perchè le disfunzioni dei nuclei familiari ricadono pesantemente sul sistema dei servizi sociali». Il progetto sarà coordinato dall’Ulss 3 di Bassano del Grappa, nel Vicentino.

Da “Avvenire” di domenica 13 dicembre 2009
LE INDIFENDIBILI ARGOMENTAZIONI DEI SOSTENITORI DELLA RU486
Se «recuperare il ritardo» significa aprire la via a più aborti

ASSUNTINA MORRESI

L’«anomalia» italiana è frutto di una cultura diversa tanto che persino la 194 ne ha dovuto tener conto.
L’argomento cui ricorrono più spesso i sostenitori della Ru486 – per esempio alcuni ex-ministri della Salute, come Livia Turco e Umberto Veronesi – è quello secondo il quale con la pillola «finalmente» l’Italia «recupera il ritardo rispetto agli altri Paesi», dove questo metodo abortivo viene usato da più tempo.
Eppure proprio gli ex-ministri dovrebbero sapere che quello della situazione in altri Paesi è un argomento indifendibile, per il semplice motivo che sarebbe disastroso, per noi, allinearci agli altri in tema di aborto.
L’Italia è infatti l’unico Paese occidentale in cui, dal numero massimo del 1982, gli aborti sono regolarmente e costantemente calati di numero. Abbiamo la più bassa percentuale di minori che abortiscono, e il minor numero di aborti ripetuti. Non è solo l’effetto della legalizzazione, come alcuni sostengono, perché altrimenti lo stesso fenomeno si sarebbe dovuto osservare in tutti i Paesi dove esiste una legge che consente l’aborto. L’«anomalia» italiana è il risultato di una cultura diversa, di una società che nonostante tutto conserva una salda rete di rapporti familiari e per la quale la maternità va tutelata, tanto che persino la legge 194 sull’aborto ne ha dovuto tener conto, ricordandolo pure nel titolo. Un atteggiamento che si è tradotto, per la 194, in limitazioni – troppo poche, ma importanti – che altri Paesi non hanno: per esempio l’aborto in Italia, e solo in Italia, si può effettuare esclusivamente in ospedali pubblici autorizzati. I privati sono esclusi, per evitare che si possa guadagnare facendo aborti (in Italia un medico non può fare aborti come libero professionista o in cliniche private).
Che succede invece nei Paesi 'più avanzati', dove la Ru486 è diffusa? Stiamo parlando di Francia, Gran Bretagna e Svezia: in molti altri è commercializzata, ma usata poco o niente. In Svezia l’aborto fino alla diciottesima settimana di gravidanza è libero, su richiesta. Il tasso di aborti, molto più elevato che da noi, è costante e non scende. Così come in Francia, dove si interrompono circa duecentomila gravidanze all’anno, senza alcuna diminuzione. In Gran Bretagna gli aborti sono in continuo aumento, e la situazione delle minori è disperata: ogni anno abortiscono di più, e sempre più giovani.
Non è il risultato della pillola abortiva, piuttosto il contrario: è l’effetto di un atteggiamento secondo il quale l’aborto è considerato un diritto individuale anziché un problema sociale. Ed è un simile atteggiamento che favorisce la diffusione dell’aborto, anche di quello farmacologico, e quest’ultimo, a sua volta, ne è favorito.
La Ru486 non è semplicemente un metodo alternativo all’aborto chirurgico: con la procedura farmacologica l’aborto si trasforma da emergenza sociale in atto medico privato e personale. Chi oggi si rallegra del prossimo ingresso della Ru486 in Italia, spingendo perché le donne siano 'libere' di farlo a casa propria, non sta sostenendo una procedura medica, ma una posizione culturale: l’aborto non riguarda tutti noi, ma solamente chi lo fa. E se chi abortisce a casa ha problemi – come spesso succede – può 'scegliere' di tornare in ospedale.
L’aborto senza alcun dubbio è e resta la drammatica soppressione di una vita umana innocente, indipendentemente dal metodo usato. Ma è anche vero che si possono avere atteggiamenti differenti, di maggiore o minore sostegno alle maternità difficili, di maggiore o minore tendenza a diminuire il più possibile il numero degli aborti.
Se l’aborto è un diritto individuale e non un disvalore, perché prevenire? Se l’aborto è un fatto privato, per quale motivo interessarsene? Perché monitorarlo?
L’aborto a domicilio, vero obiettivo dell’introduzione della Ru486, significa rinunciare alla sua prevenzione per nasconderlo fra le mura di casa. Un mutamento culturale, con le inevitabili conseguenze che le situazioni di Francia, Gran Bretagna e Svezia ci mostrano con chiarezza.

Da “Avvenire” di sabato 12 dicembre 2009

L’AVVENTO E LE ATTESE DELL’UOMO
Candele di speranza che continueranno ad ardere
SALVATORE GIULIANO

Il provvidenziale tempo liturgico dell’Avvento ci ridesta ogni anno a ciò che costituisce la dimensione fondante della nostra identità cristiana e che ne delinea l’orizzonte: l’attesa dell’uomo vista non come una sorta di parentesi nel corso di una vita, ma come modalità dell’essere che da essa viene definito.
Sono tante le attese che l’uomo manifesta orientando così i propri desideri: l’attesa di un affetto, di un lavoro, di un riconoscimento, di veder realizzate delle tappe o di veder prendere corpo a un sogno a lungo coltivato. Tuttavia quelli che possono essere legittimi e naturali desideri devono necessariamente essere incastonati in uno stile che mantenga in se stesso l’apertura a ciò che supera le individuali e parziali attese di ciascuno di noi. Le attese dell’uomo a un certo punto possono anche essere realizzate tutte ed esaurirsi a una a una, ma l’orizzonte d’Avvento cui Dio ci richiama in questo tempo di preparazione al Natale segna il nostro itinerario di viaggio, e non si esaurisce mai. È l’attesa festante di chi nutre tenacemente la fiaccola della speranza non permettendo al proprio cuore di rantolare nella rassegnazione. È ridestare il coraggio di continuare a fissare l’orizzonte come la sentinella di Isaia che percepisce proprio nel buio più fitto l’approssimarsi dell’aurora. Il nostro mondo ha urgente bisogno dell’Avvento, perché troppi si lasciano andare allo sconforto precipitando nel tunnel della depressione o della disperazione di chi vorrebbe gridare aiuto ma è già sicuro che non verrà mai ascoltato.
Uno dei mali peggiori è vivere non sperando più in nulla perché forse per una vita intera ci si è concentrati sulle attese belle ma intermedie, perché l’Avvento è rimasto per tanti solo l’insieme di quattro settimane e di quattro candele che si consumano e non l’occasione per rimotivare la ricerca di senso, per elevare il capo e interrogare nuovamente la nostra storia, scoprendovi nascosta, tra le pieghe, la misteriosa presenza di Dio. Tanta gente che incontro mi appare come paralizzata nella incapacità di guardare al futuro, delusa e ingannata da coloro che, abusando della buona fede, hanno accartocciato i propri sogni come carta straccia. È particolarmente per costoro che la Chiesa riavvia il suo Avvento, perché l’orizzonte dell’Incarnazione ricordi come il Signore ha scelto di non essere estraneo a nessuno dei frammenti della nostra storia di cui si è voluto rivestire facendo il suo ingresso nel mondo.
Benedetto XVI durante il tradizionale atto di venerazione all’Immacolata, compiuto l’8 dicembre ai piedi dell’immagine mariana in piazza di Spagna, ha ricordato come ogni uomo ha bisogno della bella notizia del Vangelo per superare il pessimismo dilagante che ci viene spesso comunicato dai mezzi di informazione: «Quanto abbiamo bisogno di questa bella notizia! Ogni giorno, infatti, attraverso i giornali, la televisione, la radio, il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci, perché il negativo non viene pienamente smaltito e giorno per giorno si accumula. Il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono». Il Papa ci invita a non lasciarci scoraggiare dal male, che continuamente è sotto i nostri occhi, perché è stato vinto da Gesù nella sua radice. Infatti «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5, 20).
Quindi non è possibile sciupare il dono di Dio contenuto in questo tempo, che diventa per tutti Kairós, occasione per scorgere una nuova possibilità di salvezza accendendo nuove candele di speranza che anche dopo Natale continueranno ad ardere, donando quella luce che non si spegne mai.

Da “Avvenire” di giovedì 17 dicembre 2009
Quale evangelizzazione è possibile verso gli islamici?
don Lauro Consonni, Lecco

Ieri ho ricevuto per e-mail un articolo di giornale da un amico in cui, come si fa di solito e come dice il proverbio: «Si parla a nuora, perché suocera intenda». Si tratta dell’articolo pubblicato dalla Stampa il 7 dicembre scorso a firma di Enzo Bianchi della Comunità di Bose: «Il crocifisso non è una clava». Riporto la parte, a mio avviso, più significativa: «...Né ha senso accampare la pretesa della reciprocità nel rispetto delle minoranze sancito dalle diverse legislazioni: quando una società riconosce e concede determinati diritti è perché lo ritiene eticamente giusto, non per avere una contropartita. Senza contare che la faccia deteriore della reciprocità si chiama ritorsione: l’atteggiamento che le società occidentali hanno verso i musulmani può comportare pesanti conseguenze per i cristiani che vivono in alcuni Paesi islamici; come sorprenderci se la loro vita quotidiana si ritroverà ancor più circondata da diffidenza e ostilità o se qualche musulmano moderato si ritrova spinto tra le braccia dei fondamentalisti?».
Ritengo che una qualche pur piccola differenza sia doverosa tra la persecuzione delle persone, come in India, bruciate vive per blasfemia, o come quest’anno in Sudan con dei giovani crocifissi, e il no ai minareti, come quello del referendum svizzero.
Riprendo da un articolo di padre David M. Jaeger, Ofm, dalla rivista «Terrasanta» di dicembre, in vista del prossimo Sinodo mediorientale del 2010, dove mi pare si esprima una preoccupazione contraria: «...quale speranza allora per le società in mezzo alle quali abitano i credenti in Cristo? Si può sperare ancora di dare un apporto a una democratizzazione, oppure ci si dovrà rassegnare a rapportarsi con chi della sua religione maggioritaria e dominante vorrebbe fare ben più di una credenza religiosa, rendendola la norma e persino la definizione stessa della 'comunità politica'? E, se sarà così, che accadrà dell’annuncio evangelico? Si dovrà per sempre continuare a tacerlo o a camuffarlo?...». Allora mi chiedo: perché questa guerra sui simboli di una fede, quando per la propria non è permesso neppure di offrire la testimonianza personale? Non siamo forse su piani diversi, se si confondono i simboli con le persone? C’è qualche caso in Europa di musulmano perseguitato o bruciato vivo? Ricordo di aver registrato, da Avvenire del 14 ottobre 1999, l’intervento al Sinodo dei vescovi europei di mons. Giuseppe Germano Bernardini, francescano, 73 anni, modenese, da 18 anni vescovo di Izmir (Smirne, Turchia) – si è ritirato nel 2004, ndr – con 1.250 cattolici su una popolazione al 99,9% musulmana, perché mi sembrava ricco di significato.
Diceva che in un incontro ufficiale islamo-­cristiano un autorevole personaggio musulmano ha affermato: «Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo» e in un’altra riunione si sentì dire: «Voi non avete nulla da insegnarci e noi non abbiamo nulla da imparare da voi». Spiegava, poi, mons. Bernardini ai padri sinodali, che i petrodollari vengono impegnati non per creare lavoro nei Paesi poveri del Terzo Mondo, ma per costruire moschee e centri culturali nei Paesi cristiani... e invitava a non cedere le nostre Chiese ai loro culti, perché questo ai loro occhi è la prova più certa della nostra apostasia. Il caso svizzero è un problema culturale e non religioso: lì non si vuole che il paesaggio sia deturpato da qualsiasi immagine invadente e in contrasto con la tradizione. È a questo punto però che il cristiano comune si pone il problema del senso da dare alla parola «evangelizzazione» che, per me, dovrebbe identificarsi unicamente nel diritto riconosciuto anche a noi di una testimonianza personale legata al Vangelo, come ha fatto padre Charles de Foucauld nel Sahara musulmano. E la possibilità di testimoniare la propria fede, che è un diritto primario, è garantita oggi nei Paesi musulmani? E noi andiamo da loro per aver la pretesa di costruire campanili o per testimoniare la fede in modo tale che chi ci vede ne possa essere liberamente conquistato?

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