domenica 17 gennaio 2010

01/01/2010 PortaParola Ravenna



Da “Avvenire” di sabato 2 gennaio 2010
RIFLESSIONI D’INIZIO ANNO
NON CEDIAMO AL GRIGIORE VIVIAMO DAVVERO
GIANFRANCO RAVASI

È, questo, l’editoriale più difficile da scri­vere, collocato com’è su un crinale da cui si diramano gli orizzonti di due anni. Da un lato, ci si affaccia sulla valle dei gior­ni ormai finiti, non di rado archiviati col timbro del pessimismo, quasi fossimo sempre in presenza di un annus horribi­lis.
L’ironico 'Dizionario del diavolo' del­l’americano Ambrose Bierce non aveva e­sitazioni. Alla voce 'Anno' recitava: «Pe­riodo fatto di 365 delusioni».
D’altro lato, si allarga la pianura dei giorni futuri sui quali cade, invece, la retorica degli auguri che spargono ottimismo e certezza di fe­licità e prosperità. Su questo crinale mi avventuro anch’io per condividere, però, coi lettori solo poche e semplici riflessioni. Lo spunto della prima me lo offre un cantautore che tutti cono­scono, Claudio Baglioni: «A volte più che di un mondo nuovo, c’è bisogno di occhi nuo­vi per guardare il mondo». Siamo spesso afflitti da una sorta di daltonismo spiri­tuale; il nostro sguardo non è più abilitato a cogliere la ricchezza dei colori; indossia­mo lenti scure che ci mostrano solo l’om­bra della storia, immaginandola soltanto sotto il segno del male, della perversione, della negazione. Ignoriamo che, accanto all’egoismo, all’indifferenza e alla vacuità di molti, c’è una folla di persone che si de­dicano silenziosamente ai miseri della ter­ra, attraverso un volontariato sempre più generoso. Ci sono chiese e comunità che assumono anche su di sé il carico della cri­si che attanaglia tante famiglie. È quel be­ne – come ha detto Benedetto XVI – sul quale non si puntano mai i riflettori del­l’informazione. C’è un altro pensiero che vorrei condividere coi lettori di Avvenire. Essi hanno ragione di indignarsi nei con­fronti della corruzione pubblica e privata che anche lo scorso anno si è ben attesta­ta sulla scena mediatica, oppure di sbuffa­re davanti a una politica così litigiosa e in­concludente. Certo, speriamo che un ri­torno di saggezza si manifesti e si insedi nei palazzi del potere politico ed econo­mico, anche sulla base degli appelli del pre­sidente della Repubblica, di tanti pastori e persone stimate e oneste. C’è, però, un’ul­teriore necessità primaria che riguarda quello che potremmo chiamare il ritmo del respiro della vita sociale. « Per compiere grandi passi, non dobbiamo solo agire, ma anche sognare; non solo pianificare, ma anche credere » . Era lo scrittore Anatole France a suggerirlo nell’Ottocento, ma l’i­dea è forse più adatta alla situazione o­dierna in cui un po’ tutti – e non solo i go­vernanti o i protagonisti della vita pubbli­ca – ci siamo assuefatti al piccolo cabotag­gio, all’interesse privato, al vantaggio e alla sicurezza personale o di gruppo. Clint Eastwood in un suo film aveva questa bat­tuta ironica: «Se vuoi una garanzia a tutti i costi, allora comprati un tostapane!».
Nella scuola, nella famiglia e talora persi­no nella religione ci si accontenta sempre più del minimo comun denominatore. Sappiamo, però, che quando ci si abitua alle piccole cose, si diventa incapaci delle grandi. Ecco, infatti, l’incombere dei luo­ghi comuni, il rinchiudersi a riccio nella propria cerchia, il timore per gli orizzonti vasti che si aprono, l’assenza degli ideali, la caduta della ricerca della verità e dei va­lori permanenti. Per essere veramente uo­mini e donne bisogna coltivare sempre un sogno, un progetto, una fede, non rasse­gnandosi alla banalità, alla bruttezza, al grigiore, alla sopravvivenza. La stessa cura del creato, generatrice di un’armonia sere­na, a cui ci ha rimandato ieri il messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della pa­ce, partecipa di questo respiro più alto.
Giungiamo, così, a un’ultima riflessione un po’ scontata. Ogni nuovo anno è una por­zione di tempo che ci è offerta. E proprio perché il tempo non è 'infinito' come l’e­ternità, ha in sé la stimmata della fine e, di­ciamolo pure (anche se questa parola è og­gi esorcizzata), può avere in sé anche la morte. L’augurio che, allora, vogliamo pro­porre a noi e a tutti è quello che ci ha la­sciato un grande pensatore come il cardi­nal Newman: «Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che non co­minci mai davvero».

Da “Avvenire” di giovedì 31 dicembre 2009
RINGRAZIARE COME FANNO I PICCOLI
TE DEUM, PERCHÉ IL CASO NON HA MANI
DAVIDE RONDONI

Te Deum laudamus. Inizia così la preghiera di fine anno. Si ringrazia, si loda Dio per l’anno passato. Te Do­minum confitemur. Ti proclamiamo Signore del tempo che è passato. E che sta per venire. E ogni anno così. Con un gesto quasi rivoluzionario, rispetto a tutti gli altri gesti e le altre parole. Le più diffuse sono quelle di chi si lamen­ta. E non ringrazia, nemmeno d’esser vivo. Che invece è una gran cosa. O le altre parole, quelle di chi fa analisi, e magari stila classifiche: uomo dell’an­no, goal dell’anno, star dell’anno, etc etc. Invece noi ridiciamo Te Deum.
Ringraziando, anche con tutti i magoni che ci vengono a pensare ai giorni pas­sati. Ringraziando d’esser vivi, e qui, a dire il nome più alto di tutti nomi. E a dire i nomi di chi amiamo, o abbiamo amato. A serbare gioia, o ricordo.
Te Deum, anche a denti stretti, a occhi pieni di lacrime. Controvento della gioia, della speranza. Ringraziando per ogni cosa bella. Anche minima. Per o­gni notizia minuscola riportata dalle cronache (oppure no) in cui si è testi­moniato un bene. Come la dignità di tanti amici carcerati.
O poveri. O un martirio. Come quello di tanti fratelli perseguitati, la testimonianza di tanti martiri in terre lonta­ne.
Te Deum, ti ringra­ziamo per la loro vi­ta. Per quel che ha fatto notizia, e per quel che non fa nessuna notizia.
Per il tanto bene che ci riempie gli occhi, se li teniamo aperti. E ringraziamo per le persone che ci vengono donate.
Te Deum, anche in mezzo al pianto per quelli che non ci sono più. E con la voce che un po’ trema per i troppi orrori che ci è tocca­to vedere. Per le stragi che ancora han­no eco in noi. Lontane nei mesi, succe­dute, duramente uguali ormai, notizie di bombe, di autobombe, di massacri in zone che ci sono divenute familiari come nomi di mappe sanguinose.
Te Deum, tremando nell’orrore e nella lontananza. Perché ringraziare per l’anno non è dimenticare l’anno. E al­zare il Te Deum non è abbassare la bandiera della memoria delle ingiusti­zie o delle stragi. Nemmeno di quelle invisibili, dei non nati, dei buttati via. E non è dimenticare i tanti nomi di colo­ro tra i propri amici che soffrono per mille motivi, e spesso come innocenti.
Alla fine dell’anno più che i bilanci, conta se hai la forza di ringraziare. Più del fatto che tornino i conti (se mai nella vita i conti possano tornare) im­porta se hai voce per ringraziare l’ae­ternum Patrem, importa se hai ancora voce per dire: sì, la vita è un dono, e dunque una responsabilità.
Ed è di un Altro. Perché le analisi e le partite dop­pie della contabilità della vita possono interessare gli appassionati di bilanci, e chi vuole chiudere i bilanci. Ma chi è appassionato alla vita e al suo senso, alla fine di un anno cerca dentro di sé e fuori di sé i motivi per ringraziare, che è come dire i motivi per ricominciare.
Anche se la contabilità è in rosso. O se le forze a volte sembrano mancare.
Te Deum, per dire che siamo nelle Sue mani. Che non sono le mani del caso.
Chi pensa di appartenere al caso rin­grazia, se gli va tutto bene. Se no, im­preca. Chi pensa di appartenere al caso si guarda intorno alla fine dell’anno, e gode se non è stato colpito da sventu­ra. Se no il suo cuore è nell’ombra. Chi dice Te Deum, invece, ringrazia di es­sere tenuto in quelle mani di Padre, anche se sta conoscendo la difficoltà e la dura prova. Ringrazia, fa la cosa più rivoluzionaria della nostra epoca, in­grata nei grandi rapporti sociali e an­che nei piccoli rapporti personali. Rin­grazia come fanno i piccoli. E dei pic­coli è il segreto del mondo.

Da “Avvenire” di giovedì 31 dicembre 2009
LA SCIENZA E LE MANIPOLAZIONI IDEOLOGICHE
L’occasione perduta dell’anno darwiniano

FRANCESCO D’AGOSTINO

Attendo con impazienza la fine del 2009; non, come si potrebbe credere, per immergermi nei festeggiamenti della notte di S.Silvestro, ma perché con il 2009 avrà fine l’ 'anno darwiniano'.
Si dirà: ecco un creazionista impenitente, che non accetta la teoria dell’evoluzione! Niente affatto. Sono assolutamente convinto che quella di Darwin sia ben più che un’ipotesi (come disse con espressione felice Giovanni Paolo II), anzi non mi crea alcuna difficoltà riconoscere che allo stato attuale delle conoscenze è ben difficile che una diversa teoria sull’origine delle specie possa mai sostituire quella del grande naturalista anglosassone: potranno essere formulate, come già è avvenuto, teorie integrative o correttive di quella darwiniana, ma non certo teorie radicalmente alternative. In altre parole, nei confronti del darwinismo, come teoria scientifica, e nei confronti dei darwiniani, come scienziati, mi pongo in un atteggiamento di profondo rispetto.
Ciò che non tollero non è il darwinismo, ma l’uso ideologico che del darwinismo viene massicciamente fatto, quando si utilizza il legittimo prestigio che la scienza si è conquistata nella modernità per veicolare ed avvalorare prospettive che non sono affatto scientifiche, ma filosofiche: prospettive peraltro antiche, riducendosi a varianti, nemmeno troppo originali, di quel naturalismo irreligioso con cui già nell’antichità classica si erano confrontati Socrate, Platone, Aristotele. Il torto del naturalismo non è quello di prendere sul serio e di studiare la realtà materiale come un fatto, anzi come una molteplicità sconfinata di ruvidi, irriducibili fatti, ma quello di ritenere che essa sia capace di rendere ragione di se stessa e di offrire sia pure un minimo appiglio per dare una risposta a quella domanda di senso che caratterizza e tormenta ogni uomo. Per i naturalisti darwiniani la teoria dell’evoluzione svuota dal di dentro ogni questione teologica e antropologica e rende inutile sia l’interrogarsi su Dio che l’interrogarsi sull’uomo. In un mondo lacerato da conflitti politici, culturali e generazionali, i neodarwiniani (confutate, cancellate, o meglio rimosse, le inquietanti teorie tardo ottocentesche del 'darwinismo sociale') continuano a mandarci messaggi ottimistici, si affannano a dipingere la realtà naturale come armoniosamente equilibrata e la specie umana come predeterminata evolutivamente alla cooperazione ed alla solidarietà. Guai a chi non accede a questi quadri idilliaci: oltre a diventare immediatamente oggetto della pesantissima accusa di essere un fondamentalista premoderno ed antiscientifico, chi osi insistere nel distinguere il darwinismo come teoria scientifica dal naturalismo darwiniano come teoria filosofico-antropologica viene radicalmente escluso da ogni dibattito pubblico su tematiche scientifiche e bioetiche ed esposto al ludibrio di un’opinione pubblica pesantemente manipolata dai grandi sistemi mediatici, per i quali quello di Darwin è il Vangelo della modernità.
Naturalmente, non tutti gli scienziati che aderiscono alla teoria dell’evoluzione sono, sul piano filosofico, 'naturalisti darwiniani'. La loro voce, però, continua ad essere ben più debole di quella di coloro per i quali Darwin non è solo un grandissimo scienziato, ma un vero e proprio benefattore dell’ umanità, per averla liberata dall’ipoteca di un soffocante teismo creazionista(!). L’anno darwiniano avrebbe potuto essere un’ottima occasione per distinguere queste due posizioni e per mettere bene a fuoco il principio epistemologico fondamentale, secondo il quale l’esistenza di Dio, come non può essere provata scientificamente, così non può essere scientificamente confutata (non a caso, infatti, le celebri prove classiche dell’esistenza di Dio hanno un carattere metafisico, cioè filosofico e non scientifico).
L’occasione (malgrado alcuni sporadici, generosi sforzi in senso contrario) è andata perduta. La maggior parte delle iniziative celebrative del darwinismo che si sono svolte nel 2009 hanno avvalorato indebitamente l’idea che la scienza sia l’unico orizzonte conoscitivo dotato di validità (e con ciò si è continuato ad attribuire agli scienziati un potere sociale che loro non spetta) e hanno contribuito a indebolire la valenza di ogni ricerca di senso di carattere antropologico, filosofico, teologico.
Sotto questo profilo, l’anno darwiniano è stato un fallimento. E’ una fortuna che sia arrivato alla fine.

Dal sito http://asuaimmagine.blog.rai.it
PAROLE DI PACE
Rosario Carellomo

Il primo giorno dell’anno è dedicato alla pace, che è la parola degli angeli intorno alla grotta di Betlemme ed è il dono più bello che possiamo ricevere. Quante saranno le parole di pace scritte, pronunciate dalla Chiesa in duemila anni di storia? Certamente miliardi e miliardi. Qui vene proponiamo meno di cinque. Pochissime,
ma bastano per augurare pace e gioia al vostro 2010. Auguri! http://asuaimmagine.blog.rai.it/

Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché « la creazione è l'inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio» e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell'umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell'uomo sull'uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull'autentico sviluppo umano integrale - guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani -, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza - se non addirittura dall'abuso - nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l'umanità rinnovi e rafforzi « quell'alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell'amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino».
Benedetto XVI, Messaggio Giornata Mondiale della Pace 2010

Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti ed universali valori della vita; la verità, la giustizia, la libertà, l’amore. Ed è per la tutela di questi valori che Noi
li poniamo sotto il vessillo della pace, e che invitiamo uomini e Nazioni, a innalzare, all'alba dell'anno nuovo, questo vessillo, che deve guidare la nave della civiltà, attraverso le inevitabili tempeste della storia,
al porto delle sue più alte mete.
Paolo VI, Messaggio Giornata mondiale della pace 1968

«Dio prepara per voi un avvenire di pace, non di sventura ». Moltissimi sono coloro che oggi aspirano ad un avvenire di pace, ad un’umanità liberata dalle minacce di violenza.
Se alcuni sono in preda all’inquietudine per il futuro e si sentono immobilizzati, ci sono anche, in tutto il mondo, giovani capaci di inventiva e di creatività. Questi giovani non si lasciano trascinare in una spirale di malinconia. Sanno che Dio non ci ha creato per essere passivi. Per loro, la vita non è soggetta alla fatalità del destino. Sono coscienti che l’essere umano può essere paralizzato dallo scetticismo o dallo scoraggiamento. Perciò essi cercano, con tutta la loro anima, di preparare un avvenire di pace e non di sventura. Più di quanto immaginano, sono già in grado di fare della loro vita una luce che rischiara tutto intorno a loro.
Frère Roger, Taizé 2005


Da “Avvenire” di sabato 2 gennaio 2010
GLI ALTISSIMI APPELLI A INVESTIRE ATTENZIONE E RISORSE
Che il 2010 sia un anno di svolta nella politica per la famiglia
FRANCESCO RICCARDI


Forse mai come questa volta si sono colte tante assonanze, tanti riferimenti a valori condivisi, la medesima ricerca del bene comune, nei pronunciamenti di fine anno delle più alte cattedre civili e religiose. E in questi echi, risuonati in contemporanea la sera di san Silvestro, si è avvertito il ripetersi di un’enfasi particolare sul ruolo della famiglia, evocato dal Papa, come dal capo dello Stato, dal presidente della Cei e da tanti altri vescovi. Un ruolo che richiede però di essere oggi più chiaramente riconosciuto e valorizzato a livello pubblico.
La crisi economica, che come un fiume in piena ha investito centinaia di migliaia di persone, facendo loro perdere il lavoro, che ha travolto antiche certezze e moderne presunzioni, ha però iniziato a far sedimentare sul fondo una maggiore consapevolezza sui valori che contano davvero. E anche su quale rete di sostegno e promozione, alla fine, sia la più efficace e solida. In senso materiale, certo, giacché gli scambi monetari e di servizi che un nucleo può assicurare al proprio interno e alla cerchia vicina della propria comunità, superano spesso di gran lunga le provvidenze pubbliche. Ma soprattutto in senso più ampio, se si guarda a quell’insostituibile funzione educativa che la famiglia assicura come bene per l’intera società. Se il nostro Paese ha retto meglio di altri, se il prezzo sociale (che pure in moltissimi hanno pagato) è stato meno 'salato' e doloroso, lo si deve in particolare proprio agli ammortizzatori interni messi in campo dalle famiglie. In senso 'verticale' tra le diverse generazioni: coi nonni pensionati ad aiutare le giovani coppie precarie, le generazioni di mezzo a prendersi cura dei propri vecchi. E in direzione 'orizzontale': con migliaia di famiglie che hanno messo mano a portafogli e riserve di tempo per sostenere migliaia di altri nuclei, come dimostrano i risultati concreti dei vari fondi di solidarietà promossi nelle diocesi italiane. La famiglia come scuola 'naturale' di solidarietà, di coesione sociale, rappresenta un patrimonio misconosciuto. Spesso guardato con fastidio, bollato come 'familismo' retrogrado, che addirittura bloccherebbe lo sviluppo di una società più aperta ed equa. E invece fortunatamente resiste come felice 'anomalia' della società italiana. Come quegli alberi – per usare un’immagine del cardinal Bagnasco – che con le loro radici impediscono al terreno di franare sotto il diluvio.
Ora, come ha detto Benedetto XVI rivolgendosi a Roma e all’Italia, si tratta di rinnovare l’impegno ad aiutare le famiglie, ma più ancora di riconoscere e promuovere il loro ruolo respingendo sia i tentativi di porre sullo stesso piano qualsiasi forma di aggregazione sociale sia il rinnovarsi di un’indifferenza alla lunga distruttiva. Una prima scaletta d’interventi l’ha già delineata il presidente della Repubblica parlando di riforme degli ammortizzatori sociali e del fisco, indicando pure l’ordine delle priorità: «Le coppie con più figli minori, le famiglie con anziani, le famiglie in cui una sola persona è occupata ed è un operaio... quelle più povere, i lavoratori dipendenti sui quali grava un’alta pressione fiscale e contributiva, le famiglie nelle quali ci sono redditi da lavoro 'atipico'».
L’agenda, allora, non può che ripartire da qui, facendo di questo 2010 l’anno di svolta nel quale finalmente si assume la famiglia come metro per misurare e progettare una società più equa e coesa. Anzitutto rivoluzionando il prelievo fiscale, perché tenga nel giusto conto il diverso peso delle persone a carico e non penalizzi i nuclei monoreddito. Si attui il quoziente familiare oppure il sistema del «basic income» fondato sulle deduzioni, o quant’altro si voglia progettare. Ma si agisca adesso, senza procrastinare all’infinito un intervento tanto fondamentale e prioritario.
La dimensione più vera, intrinseca, della famiglia è la proiezione continua in un orizzonte che è sempre oltre: nel tempo delle generazioni, nella capacità di donare e di pensare sempre al plurale. La tenuta e lo sviluppo del Paese, in definitiva, dipendono da quanto sapremo proteggere ed esaltare questa nostalgia di futuro, caparbiamente inscritta nel dna della famiglia.


Da “piuvoce.net” cattolici in rete
Una nuova avventura di popolo
CATTOLICI IN RETE, FA BENE AL PAESE
Domenico Delle Foglie Direttore


“Più voce” al mondo cattolico, in tutte le sue articolazioni. “Più voce” alle mille realtà che animano anche silenziosamente la scena sociale e culturale del nostro Paese. “Più voce” ai protagonisti, ma anche ai valori e alle idee. Con il metodo irreversibile della trasparenza e della generosità. Mai perdendo di vista i cardini di un’ispirazione certa: la centralità della persona umana, il bene comune e la questione antropologica (vita, famiglia e libertà di educazione). Con lo sguardo di chi ama il Paese, ma soprattutto con la consapevolezza di poter contribuire alla costruzione del suo futuro.
Nulla può essere sottratto alla libera riflessione dei cattolici e quando lo si ritenga indispensabile, al loro giudizio. Perché in questa Repubblica non esistono cittadini di serie B, ai quali manchino le risorse per sviluppare un dibattito libero e costruttivo. A tutti, e anche ai cattolici, dev’essere garantito il diritto di tribuna. Ma ci chiediamo: possiamo dire, onestamente, che nei fatti sia sempre così?
Un esempio, per tutti, segnala la disistima nei confronti dei laici-cattolici di questo Paese. Sulla prima pagina di Repubblica, il 26 settembre scorso, qualche giorno dopo il Consiglio permanente dei vescovi italiani, compariva in bella posizione un commento dal titolo: “Tutti i veti del Vaticano”. Sorprendente l’argomentazione del giornalista che attribuiva ai vescovi italiani l’intenzione di fare del Forum delle associazioni familiari, dell’Associazione Scienza & Vita e di RetinOpera, un “modello di cinghie di trasmissione”. Dai tempi del referendum sulla legge 40 e sino al recente Family Day, i cattolici organizzati nelle mille forme che la ricchezza di vocazioni e carismi ha ispirato, si sono sentiti oggetto delle critiche più disparate e meno realistiche. Lo slogan più diffuso, oltre che più volgare, era quello detestabile dei “soldatini della Cei”. Mai che un giornalista laico si sia interrogato sulle ragioni dell’adesione spontanea dei laici-cattolici alle grandi battaglie, ideali e non solo, legate alla cosiddetta questione antropologica. Meglio ridicolizzare che indagare. Meglio offendere che discernere. Meglio sminuire che riconoscere. Una brutta pagina di anticultura e di cattiva informazione, che fanno il paio con quell’antipolitica con la quale oggi tutti noi siamo costretti a fare i conti.
Anche per denunciare questo tipo di conformismo e queste letture a dir poco tendenziose sul mondo cattolico, nasce il sito piuvoce.net. E come si legge nel sottotitolo, si vuole offrire ai cattolici italiani la possibilità di entrare… in rete e di mettersi… in rete. “Cattolici in rete”. Senza arroganza ma con coraggio. Senza presunzione, ma con la consapevolezza della propria identità. Senza servilismi, ma con il desiderio di servire. Senza vergognarsi di obbedire, non alla gerarchia, ma al primato della propria coscienza che guida esattamente dove batte il cuore della comunità cristiana.
Con questa libertà e dignità ci avviciniamo ad un appuntamento non rituale come quello del centenario delle Settimane sociali che tornerà ad esplorare l’orizzonte del “bene comune oggi”. In quest’ottica diamo voce a tre protagonisti del mondo cattolico italiano: Giuseppe Dalla Torre, Maria Luisa Di Pietro e Giovanni Giacobbe.
Mille altre occasioni verranno e la complessità della vita pubblica del nostro Paese non mancherà di offrirci lo spunto per intervenire e alimentare, con la nostra originalità, il discorso pubblico. Nella nostra autonomia e senza tradire le nostre radici.

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